Capitolo 9
Nello stesso istante.
Aria! Aria! Aria!
Ansimando, smaniosa di respirare, cercò di opporsi all’acqua, che l’aveva abbracciata come una morsa infernale. Era ovunque, fredda e implacabile. Premeva contro i vestiti, si opponeva a ogni suo tentativo di restare a galla, le schiacciava il cappuccio contro la bocca, impedendole di riempire d’aria i polmoni.
Questo, almeno, era ciò che provava durante il sogno.
Anne-Marie Stéphanie Brûlart, contessa d’Aumale, si svegliò di soprassalto.
Sudata fradicia, era sprofondata su una poltrona di velluto, nella biblioteca del palazzo. Dopo aver scritto di suo pugno le istruzioni per Rudolf, che il piccolo Domenico gli aveva certamente consegnato, si era appisolata. Ormai c’era abituata, visto che la notte non riusciva a chiudere occhio e quando lo faceva era tormentata da incubi. Lo sfondo erano sempre i palazzi di Venezia e l’epilogo sempre il medesimo: lei che affogava, sfiorando le mani del suo soccorritore.
Le mani. Le guardò alla luce lattescente che proveniva dai finestroni affacciati su piazza Colonna. I segni dei legacci sulla pelle erano scomparsi da mesi, eppure lei continuava a vederli e li copriva di cipria.
Annika, soprannome che le aveva affibbiato il suo ultimo marito, si alzò in piedi e prese a passeggiare nervosamente nel superbo locale. Lo aveva arredato seguendo l’ultima moda di Parigi. Un enorme lampadario a bracci dorati illuminava stucchi e dipinti di angioletti, che incorniciavano i quadri alle pareti. Sul pavimento lucido si rifletteva una grande libreria, davanti alla quale era posizionato uno scrittoio laccato. C’erano vasi, porcellane, la sua collezione di cappelli da passeggio che comprava da un artigiano di fontana di Trevi, tappeti e tende drappeggiate. Nonostante tutto, però, nonostante si trovasse in uno degli edifici più belli e ambiti della città, si sentiva in gabbia. Di certo anche essere costretta a vivere sotto il falso nome di baronessa Éléonore d’Acoz non contribuiva a bonificare il suo umore. Ma meglio quello che i Piombi…

Lo zampettare sul pavimento di Diderot e Voltaire, i suoi levrieri, annunciò la presenza di qualcuno, fuori dalla porta della biblioteca. Si misero all’erta, sollevando le orecchie e fiutando rumorosamente. Una serva aprì dall’esterno e fece entrare un uomo.
«Rudolf», lo salutò Annika, senza lasciar trasparire emozioni dalla voce. «Ti aspettavo. Finalmente».
L’uomo, ricoperto di fango da capo a piedi per la lunga cavalcata, fissò la punta dei suoi stivali senza alzare lo sguardo.
Annika si mosse di un passo, andandogli incontro, ma lasciando tra loro un’intera tesa. Nonostante il suo viso fosse segnato da un velo di tristezza, che non riusciva a far scomparire con tutto il belletto del mondo, la sua bellezza rimaneva adamantina. La parrucca le scendeva sulle spalle, sfiorando l’abito di broccato azzurro che si apriva in un’ampia gonna. Il viso era teso, ma gli occhi color acquamarina luccicavano nella penombra.
«Il camerlengo è morto», comunicò Rudolf di getto, quasi per togliersi un peso che l’affliggeva. La sua voce, che molto di rado formulava frasi che andavano oltre il “sì” e il “no”, risuonò come in un sepolcro.
Nel silenzio gelido che seguì, il labbro inferiore della contessa d’Aumale prese a vibrare di rabbia. Una vampata di calore le accese il viso e per un istante l’oscurità le avvolse la vista. Quello era il primo affare in cui si era impegnata da quando era stata costretta a fuggire da Venezia. Dopo mesi di inedia, aveva finalmente trovato il modo per lasciarsi tutto alle spalle. Aveva elaborato un piano perfetto e messo sul piatto un’ingente quantità d’oro… eppure tutto sembrava andare storto. «Il tuo compito era quello di salvarlo», lo fulminò.
“Ammazzare una prostituta per salvare un cardinale…”, pensò il factotum di Annika. Era un singolare modo di salvare una persona… eppure lui l’aveva fatto, eseguendo gli ordini che aveva ricevuto. «Non si è neppure avvicinato alla ragazza».
«L’hai uccisa?».
Rudolf annuì.
«Prima che arrivasse Colonna di Sciarra, come ti avevo ordinato?».
L’uomo annuì di nuovo. Annika che faceva domande e lui che si limitava a muovere la testa era la normalità nei loro colloqui. Non quel pomeriggio però: la situazione era talmente complessa che richiedeva delle giustificazioni supplementari. «Non l’ha sfiorata neppure con un dito, se è quello che vi state domandando».
«Non l’ha toccata, eppure è morto ugualmente?». Annika dette una carezza ai cani e si avvicinò al grande camino acceso. Anche se la fiamma era alta e grossa, le era venuto un freddo improvviso. Eccolo, il limite al suo piano… «Non possiamo cambiare il vento, ma possiamo orientare le vele. Almeno fino a quando il vento non spezza l’albero».
Così dicendo prese a riflettere, meditabonda. Il destino. Che strana incognita, il destino. In anni di studi che andavano dalla filosofia greca fino agli illuministi, nessuno era riuscito a sciogliere il più grande mistero dell’umanità. Qualcuno lo chiamava semplicemente “l’imponderabile”, una forza implacabile talmente potente che rendeva vano ogni sforzo per aggirarla. Se era vero che le azioni di ognuno possono segnare lo scorrere degli eventi, nulla poteva cambiare un fatto ineluttabile. E così era stato anche per il camerlengo Girolamo Colonna di Sciarra.
«Avrei dovuto prevederlo». Annika scosse il capo, delusa. Non era più arrabbiata con Rudolf, anche se era costretta a venire a patti con il problema che la morte del camerlengo aveva generato. «Bisognava affrettare i tempi con il carbonaio, prima che morisse. Era lui la chiave di tutto e ce lo siamo fatti sfuggire tra le dita».
L’uomo si chinò e lisciò nervosamente i calzoni con i palmi sudati. Non commentò. Dopotutto, la sua padrona sapeva che non c’era stato tempo sufficiente per completare quella parte del piano. Lucia, inoltre, aveva anche rimediato una coltellata pur di accontentarla…
Annika si strinse le braccia al petto e si allontanò dal camino, avvicinandosi ora allo scrittoio coperto di carte e libri dal dorso dorato. La sua mente razionale, abituata a soppesare ogni parola, ogni dettaglio, a calcolare ogni mossa, si mise al lavoro.
Se il fatto di avere usato un prestanome per accordarsi con il camerlengo aveva impedito che le autorità risalissero a lei, la sua morte era un problema. Certo, aveva provato a intervenire evitando che anche il cardinale morisse. Se ci fosse riuscita, si sarebbe potuta trovare un’altra persona, qualcuno disposto a prendere il posto di Della Valle. Purtroppo anche quella possibilità era stata resa vana dal destino e adesso era a metà del guado: il prestanome era morto e chi avrebbe potuto rimettere in gioco tutto aveva fatto la stessa fine.
Afferrò una penna d’oca intinta nell’inchiostro nero e appuntò alcuni numeri su un foglio. «È evidente che qualcuno ha saputo dei lingotti», mormorò tra sé. Come spesso faceva, aveva cominciato a pensare ad alta voce. «Allo stato attuale, non è possibile recuperarli perché saranno al sicuro nei forzieri del palazzo. La morte di Della Valle, a questo punto, non può essere una coincidenza… ci fornisce però un’informazione preziosa».
Rudolf non comprese cosa intendesse dire. A ogni modo, intravide un lato positivo: la sua padrona era di nuovo sicura di sé come ai tempi migliori.
«Abbiamo due problemi da risolvere», sentenziò alla fine del suo ragionamento Annika, questa volta rivolta al factotum. «Numero uno, ammettendo che Della Valle abbia detto il vero, dobbiamo trovare il documento. Sua moglie, forse, potrebbe tornare utile. Numero due, la morte del carbonaio rende chiaro che c’è una nuova forza in gioco».
Alzò il mento, e gli parlò con il piglio magnetico che aveva perduto negli ultimi mesi. «Trova chi ci ha messo il bastone tra le ruote e portamelo qui. Vivo!».
Rudolf annuì e girò i tacchi. Appena poggiò la mano sulla maniglia d’ottone, la contessa lo richiamò.
«Un’ultima cosa», borbottò, con un tono che, pur volendo sembrare distaccato, tradiva un’emozione insolita in lei. «Lucia se la caverà?».
Il gigante sbatté le palpebre ripetutamente, deglutì amaro, ma non rispose.