Capitolo 55
Rocca di Vico, Antiappennino laziale. Più tardi, quello stesso giorno.
All’imbrunire.
Il volatile spiegò le ali e, individuate le torri merlate del castello, cominciò la discesa.
Il maniero, arroccato su una rupe del monte Venere, dominava massiccio l’intero borgo: un agglomerato di scure casette affacciate sul lago, che con la loro pietra locale ricordavano un antico villaggio peschereccio. Caratterizzato da un’architettura severa e maestosa, l’intero complesso era collegato alle cinque torri con muraglioni massicci dalla forma tozza.
«Siete pronti?». Il piccolo Domenico agitò in aria un bastone, seguito a vista da Diderot e Voltaire, scodinzolanti nel cortile. Caricò il tiro e lo lanciò il più lontano che poté. I due levrieri girarono su sé stessi e fecero a gara per raggiungere l’esca. La individuarono ai piedi di Rudolf, appostato a inalare tabacco davanti alla carrozza e, insieme, lo riportarono al bambino.
«Comincia a fare notte», ammonì il gigante. «Fa freddo, Domenico, vai dentro».
«Ancora un po’», protestò il bambino. Ma non fece in tempo a lanciare nuovamente il bastone che a una tesa da lui si poggiò un piccione grigio con la testa scura. Il volatile, spaesato, prese a zampettare.
«Rudolf?», chiamò allarmato Domenico.
L’omone ripose nella scarsela la tabacchiera che teneva tra le mani, e si avvicinò con passo marziale.
«L’ha mandato Lucia?». Solo a pronunciare quel nome il viso del bambino s’illuminò. La giovane che l’aveva accolto come un figlio aveva una certa familiarità con quel tipo di volatili. Lui stesso, a volte, aveva portato il mangime nelle gabbie sulla terrazza di palazzo d’Acoz.
«Lascia fare a me». Rudolf si avvicinò e afferrò delicatamente il pennuto. «È tornato», illustrò, conoscendo le grandi doti dei piccioni viaggiatori nel ritrovare la strada di casa. Su ordine della contessa l’aveva portato a Roma assieme ad altri quattro esemplari solo pochi mesi prima, subito dopo aver completato la sua missione sul lago di Vico. Non credeva che si sarebbero dovuti davvero affidare alle sue doti, e invece si era sbagliato.
«C’è un messaggio?». Da uno dei finestroni delle torri si affacciò Madame d’Aumale, che evidentemente stava scrutando dall’alto i cani e il bambino.
«Pare di sì». Il gigante sistemò il piccione in una grande voliera sotto il portico del cortile e armeggiò attorno alla zampetta. Ne estrasse un bigliettino arrotolato e legato con un piccolo laccio.

1. L.V.A condotto con la forza da D.A.d.C. Mai uscito.
Temo ipotesi 73567 avverata.
2. Madonna Rita Della Valle questa mattina al Banco. Rimasta mezz’ora, poi uscita.
Ipotesi non prevista?
L.
Annika, in piedi nella sala del camino, poggiò il biglietto su un tavolo di legno massiccio. Fuori ormai si era fatto buio e l’unica illuminazione proveniva dal fuoco crepitante e dal lampadario in ferro battuto, che pendeva dal soffitto a cassettoni. Faceva freddo, ma nonostante ciò la contessa sudava.
“Temo ipotesi 73567 avverata”, diceva il biglietto di Lucia, che era rimasta a Roma proprio per aggiornarla sullo sviluppo degli eventi. Se la sua ancella aveva ragione, la fine era cominciata. L’ipotesi 73567 prevedeva che Aldobrandini comprendesse il vero motivo per il quale i veneziani la cercavano. L’iniziale voglia di vendetta del protettore nei suoi confronti – per l’affare del camerlengo e poi per il bargello – si sarebbe quindi trasformata in qualcosa di più profondo e pericoloso. La sua sete di accaparrarsi il potere dell’Omphalos avrebbe incanalato l’intera vicenda all’epilogo finale che già conosceva.
Per un istante la contessa rimase immobile, coperta dal mantello da viaggio e con i capelli neri e lucenti che le ricadevano morbidi sulle spalle. Prese a respirare lentamente. Se fino a quel momento le sue flebili speranze si aggrappavano a un’eventuale fuga, ora sfuggire al destino era impossibile. Tutto, purtroppo, stava andando esattamente come previsto. Era come se, cercando di nuotare controcorrente, fosse invece andata nella direzione opposta, assecondandola.
«Notizie da Lucia?», domandò Eliardo, alle sue spalle.
La contessa si voltò, impassibile come di consueto, ma con la morte nel cuore.
L’alchimista avanzò lentamente sul pavimento di sasso. Indossava la velada elegante color porpora che lei gli aveva portato alla locanda e la camicia con pizzi sul collo e sulle maniche. Teneva in mano due calici.
«Gradite un buon Vignanello rosso?». Tenne per sé un bicchiere e offrì l’altro alla contessa. «La vostra cantina è il paradiso di Bacco», scherzò. «Perché è vostra la cantina, giusto? Come tutto il castello?».
Un sorriso sfuggì dalle labbra di Annika, che scosse il capo. Non era solita bere, ma accettò il calice e sorseggiò una punta di vino. «È importante sapere a chi appartiene il castello?»
«È importante solo nel caso qualcuno ci venga a cercare… il proprietario, ad esempio».
«Nessuno ci verrà a cercare», chiarì Annika, con un filo di voce. «L’unico che sapeva di questo posto si chiamava Della Valle, ed è morto…».
«Era la ricompensa per il vostro prestanome?»
«Nel borgo ci sono fattorie, vigne e animali. Quando Della Valle e quelli che sarebbero venuti dopo di lui avessero ceduto a me le cedole, li avrei fatti sparire quassù».
«E avevate tenuto il castello per voi, non è così?».
Annika non rispose. Si mosse lentamente verso la finestra della torre e si affacciò, poggiando i gomiti al parapetto. Il sole era tramontato dietro i rilievi di origine vulcanica che cingevano il piccolo specchio d’acqua. Il lago di Vico adesso era una lastra nera, tagliata in due dal riflesso argenteo della luna.
«Vi ho chiesto se avete ricevuto notizie da Lucia, poc’anzi». Eliardo si avvicinò, mettendosi di fianco a lei, nella sua stessa posizione.
«La fine è cominciata», ammise Annika, a denti stretti.
«Me ne volete parlare?»
«Il bardo capitano Van Axel avrà già parlato abbastanza per tutti, ormai».
Eliardo scosse il capo. «Il vostro nemico Aldobrandini ha unito tutti i puntini?»
«Temo di sì».
Pensoso, Eliardo rientrò nel salone e si avvicino alla dossale lignea che fiancheggiava il camino. Il messaggio portato dal piccione viaggiatore era srotolato sul tavolo, guardato a vista da un’armatura scintillante poggiata alla parete. «Madonna Rita Della Valle è la vedova del vostro prestanome?»
«Esattamente».
«Da quel poco che mi avete rivelato, il bargello aveva avuto da lei la cedola».
Annika annuì e tornò a voltarsi verso il salone. Si appoggiò con la schiena alla gelida parete di pietra. «È così. Anche se le variabili erano molte, ci aspettavamo che Altieri andasse da Aldobrandini: per questo avevo messo uomini di guardia fuori dal Banco».
«E se dietro la vedova ci fosse proprio il bargello?». Eliardo si accarezzò il mento.
«Ammetto di averci pensato… e in effetti è possibile. Dovreste però esservi anche accorto, visto che immagino che un centinaio di persone darebbero nell’occhio, che non abbiamo con noi i matematici». La contessa represse un moto d’ira. «E anche se li avessimo, non abbiamo sufficienti informazioni sulla ragione per la quale la vedova è andata al Banco».
Eliardo posò delicatamente il calice sul tavolo e si avvicinò alla contessa. Le arrivò talmente vicino che le narici si riempirono del suo profumo al mughetto. Se avesse voluto, avrebbe tranquillamente potuto baciarla. «Avete mai pensato di affidarvi all’istinto, qualche volta?», le sussurrò.
Lei, con le spalle schiacciate alla parete, si abbassò, svicolando. «Cosa intendete?», azzardò, tornando davanti al camino.
«Non considerate la variabile madonna Rita, perché pur sospettando abbia a che fare con Altieri non potete immaginare il motivo della sua visita al Banco. Vi capisco, siete abituata a ragionare per compartimenti». Eliardo la guardò di sguincio alla luce danzante del lampadario. «C’è però qualcosa che invece conoscete: un dettaglio che fino a ora avete rifiutato di considerare».
«Continuo a non capire cosa volete dire».
«Van Axel, intendo. L’espressione nel messaggio, “condotto con la forza”, ha un significato ben preciso per me…».
Annika fece schioccare il palato, stizzita. «Quel gaglioffo ha ottenuto ciò che si merita. Era previsto».
«Forse era previsto, come dite… ma a volte non servono le ipotesi per capire le persone: basta l’istinto». Eliardo si lasciò andare a un ghigno a metà tra la sfrontatezza e la ciarlataneria. Gli angoli della bocca si sollevarono verso l’alto. «C’è un detto dalle mie parti: il nemico del mio nemico è mio amico».

Dieci minuti più tardi, un cavallo nero al galoppo uscì dai portoni del castello e puntò il buio che avanzava.