Capitolo 38

Complesso di San Michele, rione Trastevere, venerdì 11 febbraio 1763.

Il giorno dopo.

Eliardo allontanò il piatto di pasta, facendolo scivolare sul pavimento della cella. Non aveva toccato un solo maccherone ma, a differenza di quanto aveva minacciato, non aveva alcuna intenzione di morire di fame. Il suo scopo era fuggire da quell’immenso edificio e per farlo gli serviva un pretesto per parlare con la guardia che gli portava il cibo.

Ubaldo, si chiamava. Era un giovane con un’espressione non troppo acuta e la prima volta che gli aveva rivolto la parola era stata proprio per merito del piatto vuoto.

«Dovete mangiare, messer», aveva biascicato, apparentemente preoccupato. «Questo non è un posto per deboli e se non toccate cibo vi mancheranno le forze».

Eliardo si era limitato a dargli ragione. La sua indole di bugiardo nato aveva poi fatto il resto: aveva versato qualche lacrima fasulla e si era lamentato di essere innocente. Ubaldo era rimasto immobile sulla porta, ma così facendo aveva dato all’alchimista occasione di studiarlo meglio.

Le chiavi, appese a un anello di ferro, erano in bella vista alla sua cintura. Aveva una pistola a pietra focaia infilata nel bandoliere e una cuffietta sul capo. L’uniforme era gualcita e gli stivali sporchi di fango.

Le alternative che Eliardo aveva elaborato per fuggire erano tre: approfittando del fatto che non indossasse elmetto, poteva tramortirlo con il coperchio del bugliolo per le deiezioni e una volta arraffate le chiavi guadagnare l’uscita; oppure poteva rubargli l’arma e usare il secondino come ostaggio; o ancora, poteva irretirlo con una delle sue facezie sulla sabbia alchemica che si tramutava in oro.

Mentre riesaminava il suo piano, Eliardo ebbe un momento di sconforto. Era illusorio pensare che qualcuna di quelle opzioni potesse davvero funzionare. L’edificio era un labirinto, troppo vasto e pieno di guardie, e il giovanotto non sembrava per nulla interessato alle sue carabattole da alchimista. Si costrinse a fare i conti con la realtà: aveva pensato alla fuga solo per non pensare ad altro… Adesso, però, con lo stomaco che brontolava, il viso della contessa gli si presentava dinanzi come un fantasma.

Rabbioso, batté un pugno sul muro impregnato d’umidità e si alzò in piedi, girovagando al buio per la minuscola cella. Ecco, ancora una volta era nei guai per colpa sua. Doveva immaginarlo. Avrebbe dovuto immaginarlo. Il piano di Annika era fallito per l’intervento di Van Axel, l’unico che lo conosceva. Se proprio voleva vedere un lato positivo in quell’incontro era che i veneziani cercavano la contessa e non lui. A quanto pareva avevano individuato il palazzo dove era stato allestito il laboratorio alchemico, ma lei non era lì. Prevedibile, certo, senonché pretendevano di conoscere da lui dove si nascondeva.

Si massaggiò le tempie, stanco e affaticato.

Dove era fuggita? Purtroppo non lo sapeva, quindi se anche avesse voluto tradirla – e la cosa gli aveva sfiorato la mente più volte – non sarebbe stato in grado di dirlo. Se la conosceva abbastanza, avrebbe giurato che da qualche parte in città esisteva un secondo edificio. Anche a Venezia era stato così: c’era il palazzo principale nel quale viveva, e uno secondario alla Giudecca, dove in mezzo a una vigna aveva dislocato il consesso dei matematici.

Il chiavistello della porta di metallo scattò ed Eliardo si immobilizzò.

«Avete mangiato, messer?». Il secondino mosse la torcia a destra e a sinistra. Quando individuò il piatto pieno sul pavimento un’ombra scura gli segnò la fronte. «Non toccare il cibo non vi aiuterà, alchimista».

Alchimista?

Eliardo alzò gli occhi gonfi verso la guardia. In un istante l’opzione tre, cioè di provare a corrompere Ubaldo, si fece più concreta. Era possibile fosse un segnale di disponibilità?

«Avete pensato a quello che vi ho detto?», lo solleticò, sperando di non avere frainteso le sue parole. «Una sola oncia della mia sabbia farà di voi un uomo ricco».

Ubaldo digrignò i denti, senza rispondere. Poi si volse verso il corridoio e fece cenno a Eliardo di avvicinarsi.

L’alchimista deglutì. Per quanto volesse muoversi, una vocina dentro di lui gli suggeriva di rimanere fermo. Sebbene si ritenesse bravo con le menzogne, era improbabile che la guardia si fosse convinta così facilmente. Ci doveva essere sotto un trucco.

«Venite, presto». Ubaldo rafforzò le sue parole con un cenno delle mani. «È l’ora del cambio turno, abbiamo poco tempo».

Eliardo rimase immobile. Per un istante smise perfino di respirare. C’era qualcosa di sbagliato nel comportamento della guardia.

«Avete parlato con la contessa?», suppose, dando per scontato che non potevano essere state le sue parole a convincerlo. «Vi ha persuaso lei?».

Le iridi di Ubaldo puntarono nuovamente le ombre del corridoio. Le lampade ardevano sul muro a distanza di una decina di tese l’una dall’altra, lasciando ampi vuoti di buio. «Andiamo. Seguitemi».

L’alchimista scorse tutte le alternative nella sua mente e alla fine si decise. Titubante, si avvicinò al secondino e un passo dietro di lui si incamminò sotto la volta di mattoni. Si trovavano chiaramente sottoterra. La luce era appena sufficiente a distinguere le sconnessioni del pavimento su cui camminava. Contò le porte di metallo, tutte uguali, che si aprivano sulla parete alla sua destra.

Cinque.

Sei.

Incespicò, ma riuscì a mantenere l’equilibrio. Ubaldo si voltò appena, senza fermarsi.

Nove.

Dieci.

Alla dodicesima, il corridoio piegò a sinistra e si chiuse in una scalinata a chiocciola di ardesia. Il secondino sganciò il mazzo dalla sua cintura e infilò la chiave in un pesante cancello di metallo. La serratura scattò.

«Dove mi state portando?»

«Nell’ala dell’ospizio apostolico», mormorò Ubaldo, facendo luce con la torcia davanti a sé mentre divorava i gradini a due a due. «Lì la sorveglianza è più blanda».

Eliardo continuò a salire e raggiunse un pianerottolo, anch’esso protetto da una grata. Ubaldo ancora una volta afferrò l’anello dalla cintura e aprì.

«Presto», sussurrò. Svoltò a destra e si ritrovarono nel braccio centrale della prigione, un grande atrio dipinto di bianco, stretto e dall’alto soffitto a volta. I muri erano fiancheggiati da celle che si estendevano per due piani sui ballatoi affacciati sopra di loro. Camminarono per un breve tratto sotto gli sguardi curiosi dei prigionieri alle finestrelle. Qualcuno batté un bicchiere di metallo sulle sbarre per attirare la loro attenzione. In quell’istante l’alchimista fece caso a qualcosa che non aveva notato prima: le occupanti delle celle erano tutte donne. Si trovava in un carcere femminile. Non fece in tempo a soppesare le ricadute di quel dettaglio che gli eventi precipitarono.

Ubaldo si irrigidì e capì prima di Eliardo cosa stava per accadere. Forse, dopotutto, non era così tonto come pensava: fu rapido ad aprire una cella a pian terreno e a sbatterci dentro l’alchimista. Un istante prima che dal corridoio laterale sbucasse una pattuglia di guardie, poggiò l’indice sulle labbra. “Silenzio”, mimò con la bocca.

Eliardo si guardò attorno, spaesato. Era in una cella più grande della sua, circondato da meretrici con il cranio rasato. Le donne si avvicinarono a lui minacciose, chiudendosi in cerchio.

«Buongiorno, signorine», bisbigliò, con un pizzico d’ironia. «È un piacere fare la vostra conoscenza».

Nel frattempo le guardie passarono nella navata e si fermarono davanti a Ubaldo. Scambiarono qualche battuta e poi uno dei nuovi venuti fece saettare un’occhiata all’interno della cella.

Un rivolo di sudore freddo attraversò la schiena dell’alchimista. Il suo viso sbiancò. Ecco, ancora una volta aveva sbagliato. Non avrebbe dovuto fidarsi.

Trascorsero interminabili secondi, e mentre nell’atrio Ubaldo gesticolava animatamente con le altre guardie lui stava immobile al centro del capannello. In quegli attimi concitati capì perché le prigioniere l’avevano attorniato: volevano in qualche modo nasconderlo alla vista? Proteggerlo? Se solo i secondini avessero guardato meglio, ordinando alle donne di spostarsi, di certo l’avrebbero notato, visto che era l’unico uomo… Però non lo fecero. Come erano arrivati, se ne andarono, accompagnati dal rimbombo degli stivali sugli alti soffitti. La guardia che aveva scrutato distrattamente nella cella strinse la mano a Ubaldo e lo salutò con cordialità.

«Muovetevi», gli ordinò il secondino subito dopo, aprendo le sbarre. «E per voi, questa sera razione doppia».

Eliardo sgattaiolò fuori e seguì nuovamente la torcia di Ubaldo.

Furono necessari alcuni minuti, ma dopo aver attraversato interi bracci del carcere femminile alla fine raggiunsero una corte e un cancello.

«Da quella parte ci sono gli orti del convento di San Francesco. Nascondetevi lì fino a notte fonda e poi sparite».

La guardia aprì la pesante anta di metallo di quel tanto da farvi infilare l’alchimista e poi richiuse.

Eliardo rimase immobile sulla strada costellata di pozzanghere e neve sciolta. Il giorno era al crepuscolo e la fioca luce sopra Trastevere irradiava di grigio i campi incolti e le vigne. Il monumentale edificio dal quale era uscito sbarrava la via verso sud, dal lato di porta Portese. Poteva forse girarci intorno, ma andando da quella parte si sarebbe di certo imbattuto in qualche controllo. Non gli restava che seguire il consiglio di Ubaldo: nascondersi nell’orto.

Si mosse incerto, lasciandosi la prigione alle spalle. Ancora una volta si sentì come una bottiglia in balia dell’oceano. Si augurò che a pagare il secondino fosse stata la contessa, perché l’alternativa, e cioè che l’avessero lasciato andare per seguirlo, non gli piaceva affatto.