Prologo

Venezia, mercoledì 22 luglio 1761.

Tarda notte.

Il primo a essere colpito fu il timoniere.

La veloce bissona a otto remi, illuminata dalla luna al centro del Canal Grande, beccheggiò pericolosamente. Subito dopo, un ciuffo di schizzi d’acqua salmastra si sollevò a poppa.

«Uomo in mare», urlò una voce. Ma non ci fu il tempo di soccorrerlo che una nuova gragnola di frecce sibilanti si abbatté sulla barca.

Gli zaffi, i militari che la Repubblica destinava al contrasto del contrabbando, si abbassarono lungo il ponte. L’attacco proveniva dal buio, forse dalle finestre di uno dei palazzi o più probabilmente dalle fondamenta.

«Mantenete la posizione», mormorò il capitano Lodovico Van Axel. La barca stava rallentando e rimanere al centro del canale significava essere alla mercé degli aggressori. E così accadde in effetti: nello stesso istante in cui impartiva l’ordine, un secondo uomo venne colpito al collo.

I compagni lo videro contorcersi dal dolore. Il militare estrasse una piccola piuma insanguinata da sopra il colletto dell’uniforme e si accasciò sull’assito, esanime.

La bissona si arrestò all’improvviso, accompagnata dai cigolii dei remi abbandonati sulle forcole. Il rimbombo della risacca sulle facciate di marmo per un attimo riempì il silenzio.

Gli zaffi fecero balenare gli sguardi impauriti a destra e a manca. La notte veneziana conferiva agli edifici di marmo una sinistra colorazione bluastra. A prua, la sagoma del ponte di Rialto svettava oltre le peote ormeggiate alle briccole. Ma per quanto setacciassero il buio con lo sguardo, gli aggressori non si vedevano…

E dire che doveva essere una missione semplice: scortare un carcerato da rio San Luca verso le Prigioni Nuove. Il tutto con il favore delle tenebre affinché non ci fossero imprevisti. Esattamente ciò che stava accadendo…

Il capitano Van Axel si voltò di colpo verso il felze, al centro dell’imbarcazione. Il prigioniero sotto il cappuccio nero era immobile, le mani legate dietro la schiena e il respiro affannato. Non sembrava essersi mosso di un pollice.

«Eccoli, a prua», avvisò uno dei suoi uomini. Aveva le mani protese oltre il ponte, con una pistola a pietra focaia saldamente in pugno. La stava puntando contro una gondola nera, che avanzava minacciosamente da volta de Canal. A bordo parevano esserci diversi ostili. Ma le frecce avvelenate non provenivano certamente da quella direzione, e ne ebbero la consapevolezza quando un altro zaffo venne colpito. Il timoniere che l’aveva preceduto emise un garrito acuto, simile a un gatto a cui viene pestata la coda.

Van Axel scrutò prima il compagno ferito e poi ancora l’imbarcazione che si approssimava pericolosamente.

«Fuoco. Fare fuoco», grugnì. Alla deriva al centro del canale, non avevano che pochi attimi prima di venire abbordati.

Il boato dell’arma rimbombò sui marmi dei palazzi. Un ciuffo di fuoco divampò dalla canna, senza ottenere però un risultato apprezzabile. Schizzi di acqua si innalzarono lontani dalla monoreme degli assalitori, che ormai erano distanti non più di una decina di tese.

Alla luce della polifora di uno degli edifici affacciati sul canale, Van Axel fece una veloce conta. Gli rimanevano solo tre zaffi, armati di moschetti e pistola. Gli aggressori invece erano almeno in cinque, parrucche bianche, mantelli e baute a celare il viso. Senza contare i complici nascosti nel buio, armati di chissà quale diavoleria che lanciava frecce avvelenate.

Rimanendo acquattato, estrasse il coltello che teneva alla cintura. Ma che possibilità aveva con una tale disparità di forze?

In quel momento, le onde smosse dall’altra imbarcazione investirono la sua bissona. Il risultato fu quello di farla roteare come una trottola, fino a che le due barche furono l’una di fronte all’altra.

Van Axel, ora faccia a faccia con il drappello di criminali, deglutì, incrociando gli inconfondibili occhi di uno degli aggressori dietro la maschera. Doveva immaginarlo… Avrebbe dovuto immaginarlo.

«Fermi. In nome della Repubblica», intimò, balzando in piedi. Ma fu del tutto inutile. I due natanti si sfiorarono, emettendo un cigolio sinistro. I marinai mascherati non attesero che i legni si fermassero e saltarono a bordo, avvicinandosi al prigioniero.

«Fermi!», ruggì ancora Van Axel. Brandì il pugnale e colpì uno degli aggressori, che cadde di schiena, con l’effetto di far ondeggiare nuovamente la barca.

Nel frattempo, il prigioniero con il cappuccio sul capo si era alzato, davanti al felze. Non era chiaro se aveva compreso ciò che stava accadendo. Di certo, le mani legate lo rendevano incerto nei movimenti.

«Non ti muovere!», ordinò il capitano, cercando di afferrarne il mantello. Ma non fece in tempo. I beccheggi fecero sporgere in avanti il prigioniero. Rimase in equilibrio precario per qualche attimo e poi precipitò in acqua.

Gli aggressori furono presi dal panico. Uno di loro si tuffò, nel tentativo di soccorrerlo. Ma il cappuccio nero si agitava come un pesce spiaggiato. Senza potersi muovere liberamente, stava andando a fondo.

«Presto», strillò una voce in un veneziano stentato. «Sta affogando. Sta affogando».

Il capitano Van Axel, impotente, si sporse a sua volta. E fu in quel momento che percepì un pizzicore al collo. Si bloccò immediatamente, tastando con la mano tra la parrucca e la marsina. Portò a favore di luce una piccola piuma, oblunga e affusolata. La poté osservare solo per pochi istanti, perché poi prese a dissolversi nella nebbia. Il suo sguardo divenne all’improvviso incerto e le forze cominciarono ad abbandonarlo.

Senza sapere esattamente come, con una capriola oltre il ponte della barca si ritrovò nell’acqua fredda e nera. A poche braccia dal prigioniero incappucciato, anche lui stava affogando…

L’ombra di un’aquila bicipite che volteggiava sopra il ponte di Rialto fu l’ultima cosa che vide.