Capitolo 11
Colli Albani, a sud di Roma, casa di Marco Tullio Cicerone, 60 a.C.
1823 anni prima…
Cesare sarebbe morto. Non subito, magari, ma era inevitabile. Se fosse riuscito nel suo intento di creare quella strana alleanza con Crasso e Pompeo, non avrebbe avuto scampo.
Cicerone era arrivato a quella conclusione dopo lunghe riflessioni e una settimana trascorsa nella sua adorata tenuta di Tusculum, sui Colli Albani.
L’edificio e le aree verdeggianti attorno alla casa riproducevano, in piccolo, gli ambienti della sua amata Grecia. C’erano porticati contornati da colonne, terrazze, fontane, due peristili. Cicerone, per richiamare la tradizione delle scuole filosofiche di Atene, li chiamava Ginnasi, “Liceo” il primo e “Accademia” il secondo. Annessa al Liceo era stata edificata una grande biblioteca affacciata sulle colline e la sua speciale serra.
Mentre l’ex console era rapito dal paesaggio invernale, lo schiavo Tirone si affacciò sulla porta.
«Padrone», si fece notare, sorreggendo una giara. «Mangia qualcosa. Ti ho fatto preparare la zuppa».
«Cesare morirà», balbettò il senatore sottovoce, quasi temesse di pronunciare quelle parole.
«Hai fatto consultare la pergamena ai greci?».
Cicerone tenne le labbra serrate, ma era chiaro che lo aveva fatto, visto che la pergamena non era più sul tavolo e difficilmente se ne separava. Quella notte, oltretutto, Tirone non aveva chiuso occhio, dormendo in un cubicolo prossimo all’Accademia: le voci si erano ripetute sino all’alba, sussurrate ma continue. Gli schiavi della serra non avevano dormito.
«Se diamo per scontato che Cesare si sia già accordato con Crasso e Pompeo, nessuno potrà contrastarlo per molto tempo. Acquisirà un potere inaudito per la Repubblica; amici come Catone, Marco Calpurnio Bibulo o anche Antonio Ibrida non gliela faranno passare liscia».
«Ti stai preoccupando per Cesare, padrone?». Tirone era alquanto sorpreso, sapendo che il senatore lo tollerava a stento.
«Ovviamente no, mio caro Tirone. Mi preoccupo per la nostra Repubblica. Il nostro compito è proteggerla da gente come Gaio Giulio Cesare».
Così dicendo si spostò verso uno scaffale dal quale traboccavano rotoli di ogni fattura e colore. Tutto in quell’ambiente serviva a ricordargli i suoi anni di gioventù in Grecia, dalle statue alle altre opere d’arte che aveva fatto arrivare appositamente. Ciò che più gli piaceva erano i simboli della tradizione elladica, come le erme di Eracle e di Atena, che aveva collocato all’ingresso della biblioteca.
Si avvicinò per accarezzare le pieghe marmoree del peplo e in un istante si ritrovò a essere un giovane ventisettenne al porto di Brindisi…

Era l’anno di consolato di Servilio Vatia e Claudio Pulcro, e Cicerone, giovane avvocato di Arpino, aveva deciso di trascorrere qualche tempo in Grecia. Per quanto le sue doti oratorie fossero già evidenti, sapeva di avere molto da imparare e così aveva optato per studiare filosofia ad Atene.
Sebbene avesse molte aspettative, dopo un lungo viaggio in nave, l’esperienza presso l’illustre Antioco di Ascalona non fu però così risolutiva.
«Per essere felice è sufficiente la virtù», era l’insegnamento principale del filosofo. Ma Cicerone aveva già una sua morale e una sua integrità per lasciarsi impressionare. Decise così di trasferirsi a Rodi, dove si iscrisse alla scuola di retorica di Apollonio Molone. Quella fu la parte del viaggio che cambiò il futuro Padre della Patria.
«Solo una cosa conta nella retorica», gli spiegò fin da subito il retore, «la dizione. Dedicati a quella e i tuoi astanti penderanno dalle tue labbra».
Assieme a Cicerone, quell’anno si iscrissero alla scuola di Molone anche suo fratello Quinto e i suoi amici Servio e Attico. Tutti appresero dal greco l’arte di saper convincere con la sola forza delle parole, ma uno solo di loro riuscì a stupire il maestro. Cicerone divenne talmente abile a dosare le frasi, a modulare la voce, a muovere le mani, che lo stesso retore si stupì delle sue doti.
«Con te, caro ragazzo», ammonì una mattina Molone, il tono solenne e la voce impostata, «la Grecia perde la supremazia nell’ultimo campo che le restava, l’eloquenza, che passa di diritto a un romano».
Cicerone, forse in una delle rare volte della sua vita, non seppe cosa dire e si limitò a chinare il capo, fiero ed emozionato.
«Tu farai grandi cose, ragazzo», preconizzò il maestro, «e quindi è giunto il momento di passarti il testimone».
Il futuro senatore e console non capì immediatamente a cosa si riferisse Molone, ma il greco gli cinse le spalle con un braccio e lo accompagnò in una corte ombreggiata. I due rimasero soli per qualche ora e, nel breve lasso di tempo, il retore gli mostrò quella che sarebbe poi diventata la freccia più affilata nella faretra di Cicerone.
«Dove mi stai accompagnando, maestro?». Il giovane entrò in un peristilio affacciato sul mare che scintillava d’azzurro.
«In un luogo che pochi prima di te hanno potuto visitare».
Il greco attraversò il colonnato e si fermò davanti a una porta chiusa. La aprì con un movimento solenne e introdusse Cicerone in una piccola stanza, illuminata da un abbaino e arredata con scaffali su tutte e quattro le pareti. Al centro torreggiava un grande tavolo di marmo, vuoto e senza sgabelli.
«Sono i tuoi rotoli personali?», si informò il giovane romano, scrutando nella penombra le decine di incunaboli, papiri e pergamene allineate ordinatamente.
«Non sono i miei», lo corresse il maestro. «Sono dell’umanità intera».
Cicerone sorrise. «Cosa intendi?»
«Devi vederlo con i tuoi occhi». Si avvicinò a uno scaffale e ne estrasse una pergamena, che aveva l’aria di essere stata appena trascritta.
«L’ho fatta preparare per te dai miei scribi», confermò infatti Molone. «Ho capito che eri il predestinato fin da quando sei arrivato qui».
Cicerone deglutì, facendo salire e scendere il suo grosso pomo d’Adamo. «Predestinato per cosa?»
«Vieni, avvicinati».
Timoroso, il giovane strisciò i calzari e cominciò a leggere. La pergamena odorava vagamente di sudore stantio ed era scritta in greco. Lui lo comprendeva a sufficienza. Accanto a ogni capoverso si vedevano figure geometriche, disegni e piccole glosse, inframezzate a spiegazioni più approfondite.
«Cosa sto guardando?»
«Conosci Archita di Taras?»
«L’ho sentito nominare, sì», ammise Cicerone. «Fu stratego a Taranto, quando eravate i padroni del mondo…».
«Proprio lui».
«E cosa ha a che fare un politico greco di trecento anni fa con questo documento?»
«Archita era molto più che un politico: era anche un filosofo, un matematico e un fisico».
Cicerone alzò il capo senza interrompere il maestro.
«Questa è la sua opera più importante… originariamente ritrovata nella biblioteca di Pella, copiata e trasferita prima in Egitto e poi tra queste mura».
«Come l’hai avuta?»
«Allo stesso modo in cui stai per averla tu».
Il romano si strinse nelle spalle. «Stai per regalarmela?»
«Sto per mettertela a disposizione, affinché tu la usi nel modo più leale e corretto che la tua morale ti consenta».
«Temo di non comprendere cosa stai cercando di dirmi».
«Comprenderai al momento debito… per adesso ascolta e prometti una cosa: quando troverai la persona giusta, fai ciò che io sto facendo con te. Tramanda l’insegnamento di Archita, affinché non si perda per sempre nei meandri del tempo».
Cicerone continuava a non capire, ma annuì meccanicamente. «Di quale insegnamento stai parlando, esattamente?».

A quel primo contatto con la pergamena seguirono giorni e giorni di spiegazioni. Gli fu mostrata la serra e illustrato come funzionava. Alla fine, quando Cicerone ripartì per Roma, il prezioso scritto fu nascosto in un baule e custodito nella sua biblioteca.
Negli anni a seguire, in cui da semplice avvocato divenne senatore prima e console poi, secondo quanto gli era stato insegnato, la consultò più volte.
L’ultima fu quasi quindici anni dopo quegli eventi, per scongiurare un colpo di Stato ordito da Lucio Sergio Catilina. C’era riuscito, ma con gravi perdite e grandi sacrifici. Aveva così deciso di non avvalersene più. Fino a quando non era arrivata l’abominevole offerta di Gaio Giulio Cesare…

«Che intenzioni hai, padrone?».
Cicerone si ritrovò di nuovo nella biblioteca della sua villa di Tusculum, con Tirone di fianco e le sue statue a fare da contorno.
«Intendi persuadere Cesare a non portare avanti il suo progetto di accordo con Crasso e Pompeo?»
«Nessuno può persuadere Cesare».
Tirone allargò le braccia, le labbra socchiuse ad attendere che il padrone chiarisse le sue intenzioni.
«Gli mostrerò semplicemente la verità… Se si alleerà con loro acquisterà troppo potere per un uomo solo, e questa sarà la sua fine».
«E credi che si convincerà a rinunciare?».
Cicerone, per la prima volta da una settimana a quella parte, si lasciò andare a un sorriso amaro. «Temo di no… ma se non dovessi convincerlo, la sua sete di potere sarà la fine anche per tutti noi!».