Capitolo 26
Palazzo del Sacro Monte di Pietà, rione Regola, Roma. Subito dopo.
Ora dell’Ave Maria.
Il cardinale Aldobrandini ticchettò con le scarpe sul marmo del primo piano e raggiunse l’arco del monte, il ponticello sospeso sulla strada che collegava il Banco a palazzo Barberini. L’aveva fatto costruire lui stesso un anno prima, dopo aver acquistato dai Carmelitani la Casa Grande, quell’edificio attiguo al Monte di Pietà.
Mentre si avvicinava alla sala della Musica, percorrendo corridoi fiancheggiati da dipinti rinascimentali e sculture di alti prelati, rimuginava tra sé. Di solito era padre Ruffo che incontrava i clienti più facoltosi e spiegava i dettagli dell’affare, le questioni degli interessi e delle penali. A lui era richiesto al massimo un saluto, quando l’accordo era praticamente stipulato. Questa volta però Ruffo non c’era. Non solo non aveva ancora dato notizie da Venezia, ma il mercante Ciriello aveva minacciato di andare a Firenze se qualcuno non l’avesse ricevuto subito.
Un arpeggio di piano appena accennato risuonò nel corridoio, oltre la porta chiusa. Il cardinale scosse il capo e posò la mano sulla maniglia. Prima di aprire prese un respiro profondo, come un attore pronto a entrare in scena.
«Messer Ciriello». Gli andò incontro attraversando la grande sala illuminata dai due imponenti lampadari di murano. «Non sapevo sapeste suonare».
Il mercante, poggiato a un bastone da passeggio, era in piedi accanto a uno splendido pianoforte a coda bianco Silbermann. Era un uomo di bell’aspetto, giovanile, elegantissimo nel suo abito di broccato malva e nel panciotto di seta. Una parrucca bianca gli incorniciava il viso sbarbato e il sottile labbro inferiore, piegato agli angoli verso l’alto, gli conferiva un aspetto affabile. «Eminenza, vi burlate di me», esordì, con un’eccentrica R moscia, enfatizzata dall’accento del Regno di Napoli. Si produsse in una riverenza. «Io sono solo un menestrello».
«Di un certo talento, invero, messer Ciriello, per essere un mercante». Divertito, Aldobrandini fece strada in uno splendido salotto dorato, che occupava l’intero lato corto della sala. Oltre al divano rivestito di raso cremisi, identico alla carta da parati, attorno a un tavolino erano sistemate sette poltroncine. «Venite, accomodiamoci».
Ciriello sfiorò un’ultima volta la tastiera bianca e nera del pianoforte e poi seguì il cardinale fino al salottino. Si sedette in silenzio, in attesa.
«Mi dicono che vi occupate di commerci con Costantinopoli», azzardò il cardinal protettore, per intavolare la conversazione.
«Vi dicono bene». Non aggiunse altro facendo volutamente frusciare i pizzi delle sue maniche sulle ginocchia, come se intendesse lasciare al religioso l’onere di riempire il silenzio.
«Cosa commerciate, per la precisione?»
«Posso chiedervi per quale ragione lo volete sapere?». Ciriello tacque, dando l’impressione che trovasse la domanda del banchiere sconveniente. «Ha forse a che vedere con l’affare?»
«Non proprio, in effetti». Il religioso picchiettò le nocchie sugli incisivi. «Alcuni mesi fa, un mercante genovese voleva che finanziassi una spedizione nelle Americhe. Chiedeva molti scudi. Peccato che scoprimmo che non era affatto un mercante e che aveva semplicemente intenzione di fuggire con il nostro denaro».
Ciriello sbatté le palpebre senza rispondere e il cardinale proseguì. «Lo dico perché questa è una banca. Dove c’è denaro, di solito ci si espone a truffe».
«Capisco», annuì Ciriello, non troppo convinto e anche un po’ offeso. Era costretto però ad assecondare il religioso. «Sono un uomo d’affari, protettore, anche io faccio le mie ricerche. Non mi piace investire il mio denaro senza aver fatto prima qualche indagine. Quindi comprendo bene il valore delle informazioni. E dunque: commercio in seta, pepe, cioccolato, vino, salumi e maccheroni».
Il cardinal protettore si dimostrò ammirato e mosse la testa su e giù più volte, mentre Ciriello illustrava la fiorente, a suo dire, attività che gestiva.
«…Attualmente i traffici con il Levante di francesi e inglesi sono in stallo, quindi ne approfittiamo: quando le imbarcazioni rientrano nel Regno di Napoli, sono cariche in egual misura, di balle di pelo di cammello, cotone, tappeti e legnami».
«Bene», assentì Aldobrandini, studiando il napoletano. Non poteva essere sicuro di quello che affermava – e di sicuro avrebbe fatto verificare – ma nel frattempo la stoffa del venditore la possedeva di certo. «E quindi siete interessato alle nostre attività finanziarie?»
«Prima di dire che sono interessato vorrei saperne di più». Ciriello si adoperò in una nuova pausa teatrale, congiungendo le mani come in preghiera. «Si dice che avete intavolato affari d’interesse. Che prestate il vostro denaro a sovrani, principi e anche al papa. Mi domando intanto se non si tratti di usura, ciò che fate».
«Nient’affatto, messer Ciriello, potete stare tranquillo. Ciò che conta negli affari economici, affinché tutto sia in accordo con la legge di Dio, è il titulus legis civilis. Il giusto profitto, a cui a torto si dà l’equivoco nome di usura».
Ciriello si guardò in giro prima di rispondere. Quel palazzo era degno di una regina. Solo la stanza nella quale si trovava traboccava di fregi, ori, statue e dipinti. Lo stesso soffitto era arricchito da stucchi e da un grande affresco che ardeva di un rosso acceso. «Giusto profitto, dite?»
«Sono cambiati i tempi, è l’equità nella distribuzione e nello scambio il problema centrale dell’economia». Vedendo il suo interlocutore perplesso, Aldobrandini decise di chiarire meglio quel concetto. «Non è questione di moralismi. Ci sono nuove esigenze economiche oggigiorno che i rigoristi ignorano perché sono figli di un’economia diversa, legata ai beni e alle terre».
«E voi invece siete il padre di una nuova economia…».
«Mi piace pensarla così, messer Ciriello». Nel frattempo un valletto che era comparso silenziosamente versò del caffè in due tazzine. «Vi ho fatto preparare una tazzulella ’e cafè, per farvi sentire più vicino a casa». Sorseggiò la bevanda fumante e riprese a parlare. «Dicevamo? Ah, sì, padre di una nuova economia. Immagino anche voi la pensiate come me, altrimenti non sareste qui».
Ciriello accavallò le gambe, gustando la miscela. «Spiegatemi allora: se io fossi qui a impegnare per bisogno preziosi dal valore di venti ducati, voi me ne dareste dieci, anzi otto perché due sarebbero le vostre spese e il profitto. E allo stesso modo se impegnassi una nave o un palazzo…».
«Così è come funziona un banco dei pegni».
«Se io alla scadenza non avessi da restituire gli otto ducati, i miei beni diventerebbero vostri».
«Esatto… ma voi tuttavia non siete qui per impegnare i vostri beni. Non avete bisogno di soldi, bensì ritenete pericoloso portare il vostro oro in giro per il regno su di un carro…».
«Sono qui soprattutto perché mi è stato detto che potrebbe essere conveniente non farlo… vorrei quindi sapere in che modo».
Aldobrandini riesaminò Ciriello da capo a piedi. Era davvero sicuro di parlare con l’uomo che diceva di essere? Era propenso per il sì: doveva decidere se depositare i suoi lingotti nei forzieri del Banco, quindi era ragionevole volesse saperne di più. «A differenza dei banchieri ebrei…», cominciò, con un tono che ricordò quello di un istitutore, «che talvolta perdono le loro ricchezze a causa di guerre o espropri, io ho creato un nuovo tipo di banca, resistente agli attacchi locali. Una banca basata su strumenti finanziari circolanti, obbligazioni, debiti e cedole».
Cedole.
Era quello lo strumento che Aldobrandini aveva intenzione di usare con l’oro di Ciriello e con i beni del defunto camerlengo. Dal 1724, infatti, le cedole rilasciate dal Monte come ricevuta di credito per depositi effettuati erano state dichiarate pagabili al portatore. In sostanza circolavano nel mercato come un’impropria moneta, senza avere la necessità di essere cambiate in denaro coniato da un sovrano.
«In pratica, se non ho capito male, il mio oro vi permette di creare una moneta parallela». Ciriello fu attratto dagli occhi del cardinale che, mentre parlava della sua creazione, si erano accesi per l’emozione. «Siete più che un re, quindi. Battete la vostra moneta, che ha la forma della carta, e in cambio ricevete oro o beni materiali, palazzi, terre. La vostra è un’intuizione geniale».
Aldobrandini gonfiò il petto, compiaciuto. Ciò che il napoletano stava dicendo era corretto, ma gli mancava un passaggio: per il momento il Banco emetteva cedole solo sulla base di un deposito, che prima o poi poteva essere richiesto indietro. Non accadeva mai, perché le cedole circolavano come vere monete ed erano tranquillamente accettate da tutti. Ma poteva accadere… Ciò che lui aveva in mente era qualcosa di molto più audace: emettere cosiddette cedole “a vuoto”, rilasciate cioè non a fronte di depositi, bensì di crediti. Per poterlo fare era necessario convincere il papa, e su quello, prima della morte del camerlengo, stava ancora lavorando…
«Quindi, ricapitolando, io deposito il mio oro nelle vostre casse e voi, in cambio, non mi date moneta sonante ma queste cedole: pezzi di carta firmati da voi?»
«Non solo da me, come sapete il Banco è amministrato da una Congregazione, formata da religiosi e laici… io sono solo l’ultimo dei servitori». Fece seguire quelle affermazioni di falsa modestia da alcuni sospiri, come se davvero credesse a quello che diceva. «Su una cosa posso però rassicurarvi: le nostre cedole sono come la moneta, e inoltre sono più sicure per viaggiare: potete nasconderle dove volete senza la scomodità di portare pesi». Aldobrandini prese un respiro, pronto a sfoderare il suo cavallo di battaglia: «Siamo la banca del papa, dopotutto, qui i vostri lingotti non potrebbero essere più al sicuro. E non dimenticate l’interesse…».
«L’avete pensata proprio bene, eminenza. Io fatico sulle navi, voi invece intascate l’oro e rilasciate carta…». Poggiandosi al manico d’argento del suo bastone, Ciriello si alzò dalla poltroncina. Aveva un’espressione affabile, scherzosa, ma le sue parole erano pungenti. Non era certo di aver compreso esattamente tutti i passaggi dell’affare. Ciò che gli era chiaro, però, era che quell’uomo aveva architettato un sistema legale per diventare sempre più ricco di beni e oro. Il tutto in barba alle leggi di Dio contro l’usura. «Se non avete nulla in contrario, ci vorrei dormire sopra. Domani avrete la mia risposta».
«Ma certo». Il cardinale porse la mano e il napoletano si inchinò, sfiorandola in una goffa riverenza. «Non sono decisioni che si prendono così, su due piedi. Spero intanto di aver chiarito i vostri dubbi».

Dieci minuti dopo che Ciriello fu salito a bordo della sua carrozza, Ennio Massimo Viviani aveva preso il suo posto nella sala della Musica.
«Cosa sappiamo su quel Ciriello?»
«Il suo oro è buono», grugnì il mercenario, con la grettezza selvaggia tipica dei quartieri popolari. Le luci ondulanti del lampadario gli danzarono sulla barba irsuta. «Le guardie del corpo che l’hanno accompagnato avevano l’ordine di mostrarcene un poco. E lo hanno fatto».
«L’oro sarà anche buono, ma prima di accettarlo voglio saperne di più su di lui». Aldobrandini si alzò in piedi e accompagnò Viviani alla porta. «Ci muoviamo su un terreno scivoloso… le domande sull’usura, la sua curiosità». Mentre parlava, la mente ritornò al suo piano di cedole “a vuoto”, per il quale ancora doveva convincere papa Clemente XIII. «Non vorrei che fosse una spia del Sant’Uffizio o che arrivassero al pontefice messaggi fuorvianti».
Il viso in allerta di Viviani parve al protettore quello di un cane lupo, predatore ma fedele.
«Che c’è ancora?»
«Padre Ruffo, eminenza. È appena rientrato… con un ospite da Venezia».