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Quando raggiunsi il parcheggio della Half Moon lo trovai più affollato. Le finestre del pub erano illuminate, il rimbombo regolare del jukebox e frammenti di conversazione fuoriuscivano nel buio. Non era esattamente la febbre del sabato sera, ma se fossi stato il proprietario non mi sarei lamentato.
Il furgone bianco era tornato a casa per la cena, mentre la Volvo era ancora parcheggiata. La porta del pub si aprì e si richiuse, e sentii un’esplosione di You da One di Rihanna. Mi buttai nell’ombra mentre due surfisti salivano sul loro camper Volkswagen e si dirigevano all’uscita.
La squadra della Volvo aveva giustamente legato anche le pagaie alle sbarre sul tetto oltre ai kayak. Sentii il desiderio di lasciare un biglietto di ringraziamento. Slegai la pagaia più vicina, poi liberai lo scafo più scuro dei due e lo tirai giù tenendolo per la maniglia. Era lungo circa due metri e mezzo, largo ottanta centimetri e piuttosto difficile da maneggiare, soprattutto controvento, ma non pesava più di una valigia di Anna. Qualcuno aveva perso molto tempo prezioso a dipingere il nome sulla fiancata: Smoke on the Water. Mi augurai che non fosse fluo.
Lo tirai fino alla fine del tratto di ghiaia più lontano dall’edificio, e poi lo sollevai sopra la rete metallica. Dio solo sa che cosa avrei fatto se i proprietari avessero scelto proprio quel momento per uscire a controllare l’attrezzatura, ma riuscii a costeggiare un campo di stoppie ispide e a raggiungere il bosco prima che Rihanna tornasse per un bis.
La siepe che limitava il parcheggio continuava parallela alla stradina. Ci restai dietro quasi sempre fino al lago. Impiegai una buona mezz’ora. Non passarono altre macchine e non c’erano segni di vita nel capanno del club della vela o sulla piattaforma che si allungava per quindici metri lungo l’argine.
Trasportai Smoke fino allo scalo di alaggio, oltre una sfilza di dinghy su carrelli di alluminio leggero. Presi qualche respiro profondo e poi lo rovesciai con lo scafo verso il basso, nell’acqua, inzuppandomi lo stivale destro nella manovra.
Questi aggeggi sono costruiti per essere veloci e stabili anche in mezzo a onde di una certa forza, così non mi fu difficile mettere i piedi e il sedere nello spazio sagomato senza affondare di nuovo.
Mi accertai che la Browning fosse salda al suo posto nella cintura sul davanti dei jeans, poi afferrai la pagaia come una pertica. La puntai e spinsi, provocando un suono stridente, e infine mi staccai dal cemento. Misi la pagaia in orizzontale, e la affondai da una parte e dall’altra, e iniziai ad avanzare.
Il lago andava da nord a sud, e quel lato era intervallato da minuscole strisce di terra e da piccole insenature: il mio intento era stare il più possibile vicino alla riva per quella prima parte del viaggio senza avventurarmi subito in acque aperte. La luna era all’ultimo quarto e il cielo era coperto, ma al centro non c’erano isolotti dietro cui nascondermi, e non volevo annunciare la mia presenza fino a che non fossi stato pronto.
Il falco pescatore tornò a farsi sentire. Poi l’unico rumore fu lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo, e l’occasionale tonfo quando calcolavo male il tempo o l’angolo della pagaia mentre fendeva l’acqua.
Negli anni avevo fatto tantissimi sbarchi e uscite, di solito a bordo di un RIB con due mostruosi motori fuoribordo, ma non ero molto pratico con i remi o le vele. Il rafting sulle rapide era una cosa diversa: ho sempre pensato che fosse più un’abbinata di caduta libera e combattimento corpo a corpo anziché qualcosa che riguardava le barche. Comunque, cominciavo a cavarmela niente male, e il kayak scivolava verso sud, più o meno nella direzione che volevo.
Il freddo mi stava penetrando nelle mani. Avrei usato la Browning soltanto in caso estremo, ma dei guanti più pesanti l’avrebbero reso impossibile. Il piede destro sguazzava nel calzino ogni volta che tiravo la pala sinistra verso di me, e neppure quello era piacevole. Ma non c’era motivo di preoccuparmi di ciò che non potevo cambiare.
Se non altro avevo il vento alle spalle e ciò impediva che la mia temperatura interna scendesse troppo in fretta, e mi aiutava ad avanzare nell’acqua. Le raffiche aumentavano quando spingevo il pezzo di plastica sagomata troppo lontano dal riparo degli abeti.
Dopo aver percorso un paio di chilometri iniziai a farmi un’idea di come mi sarei infiltrato a Ravenhill. In quella fase dell’impresa dovevo escludere tutti i particolari irrilevanti e concentrarmi sulle priorità. Dovevo raggiungere la rimessa di Guy Chastain senza essere visto o sentito, individuare dove i gorilla della Astra tenevano prigioniera Ella, e partire da lì.
L’unica luce proveniva da destra, dai fari dei veicoli che percorrevano la strada principale sul lato opposto del lago. C’era la possibilità che la mia sagoma ci si stagliasse contro prima che raggiungessi il molo, ma speravo che chiunque fosse di guardia per eventuali minacce dall’acqua ne restasse abbagliato.