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Non sapevo se la caviglia avrebbe retto il mio peso, ma strisciare carponi per gli ultimi cinque metri fino al crinale era impensabile. Se non altro sapevo che non ero stato colpito da un proiettile con punta in polimero. Altrimenti, mi sarei ritrovato con un moncone molliccio all’estremità del soprascarpa. Ero inciampato in una pietra grande quanto la testa di un bambino, ed ero rotolato rovinosamente.
Quando mi allungai per rimettermi in piedi, ancora con gli occhi al livello del terreno vidi un’altra montagnola disintegrarsi davanti a me. Era ciò di cui avevo bisogno. Accucciato basso, in diagonale a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, scattando come un rugbista tra gli avversari in una piovosa giornata a Huddersfield. Non so se questo mi rendesse un bersaglio più difficile, ma faceva bene al morale, e quando mi tuffai oltre il crinale provai quell’adrenalina che sente un giocatore di rugby quando oltrepassa la meta pochi secondi prima del fischio finale.
Mi concessi un minuto o due per riprendere fiato e flettere la caviglia. Stabilii che era abbastanza a posto – nessuna slogatura o tendine stirato –, era il momento di procedere.
Non so neppure il perché, ma una volta avevo consentito a uno psicanalista di collegarmi a un macchinario magico – una modernissima e sciccosissima versione della macchina della verità – e di sottopormi a una tortura psicologica. Usò tutti i trucchi audio e video, mi mostrò fotografie di gente fatta a pezzi con il machete, film porno che proiettano giorno e notte, sette giorni su sette, nelle camere d’albergo in Germania.
I miei parametri vitali subirono soltanto lievissime variazioni.
Nelle situazioni che richiedevano la mia concentrazione assoluta mi isolavo da ogni interferenza esterna, ma in quel preciso momento mi vennero in mente le sue conclusioni, che mi facevano sorridere sempre. «Lei è uno psicopatico, signor Stone. Ma nel senso buono.»
E, subito dopo, mi rimbombarono nella mente le parole di Anna sul fatto che non cercavo lo scontro.
Bene, nella situazione attuale, sì, lo cercavo.
Stabilii che Cecchino Uno non aveva intenzione di lasciare la copertura finché non fosse stato necessario. E che neppure sarebbe rimasto dov’era nella remota possibilità che ricomparissi all’improvviso come un bersaglio da luna park per offrirgli un’altra possibilità di spararmi.
Lo immaginavo occupato a sistemarsi la tracolla del fucile sopra la spalla, e ad aspettare ansiosamente di farmi fuori alla prima occasione. Ma adesso io ero in vantaggio due volte: era buio, e sapevo dove ero diretto. Calcolai che una volta al Rifugio avrei avuto un’ora di tempo prima che mi raggiungesse.
Camminai veloce verso il canale, le ginestre graffiavano le ghette. Dopo la caduta, la caviglia non era al massimo, ma il dolore non era così forte da urlare. Nei punti dove non era stata spazzata via dal vento come sulla collina, la neve era più alta ma non era difficile camminarci in mezzo. Dovevo soltanto essere cauto e fare attenzione a ciò che calpestavo. Non mi sarei preoccupato di lasciare tracce se non dopo aver preparato il mio terreno di caccia.
Non c’erano strade dritte da seguire, perciò lasciai gli NVG nello zaino, e non sprecai tempo ed energie a guardarmi alle spalle. Se si era incamminato e fosse stato abbastanza vicino da colpirmi, lo avrei scoperto presto.
Sottovento rispetto al crinale la temperatura era di qualche grado più calda, e man mano che avanzavo il mio piano prendeva forma.
La cima del canale era a forma di imbuto, e portava a un gruppo di rocce nude grandi quanto monoliti, ma sistemate in modo casuale. Quella sulla destra era alta come minimo il doppio di me. Le due alla sua sinistra erano appoggiate l’una all’altra, come se si stessero accompagnando verso casa, alla ricerca di un kebab dopo una notte di sbronze memorabile. Quelle erano le gambe del nostro elefante.
Pur non essendo visibile, dato che la neve l’aveva coperta, l’entrata della grotta di Trev si trovava proprio fra loro.