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Lago Sommen,
Östergötland
Giovedì 7 maggio 1992
ore 17.17
Con il piccolo aiuto di due fascette d’acciaio, aprii il portone e digitai sul pannello attiguo la sequenza di sei cifre per disattivare il sistema d’allarme. Il codice ci era stato fornito dal colonnello Chastain. Lui aveva amici ai piani alti e io ero pronto a scommettere che lungo la strada una discreta somma di contanti fosse passata da una mano all’altra.
Al piano terra c’erano la cucina in legno di pino, la zona pranzo, la saletta e un gigantesco soggiorno open space. Al piano superiore, quattro camere da letto, tutte con bagno e doccia privati, quella padronale con un enorme letto a baldacchino, quella dei figli e due per gli ospiti.
Il seminterrato era occupato da una palestra stipata di attrezzature ultramoderne, un tavolo da ping-pong e una sauna, e dalla zona di servizio: contatori del gas e della luce, lavatrice, asciugatrice e tutte quelle idiozie.
Lì sotto, le finestre erano protette da una rete fitta e tesa in acciaio satinato. Sganciai il chiavistello di quella che si trovava sotto la scala di legno che portava all’ingresso laterale – me ne sarei occupato in seguito. Se dovevamo trasformare la casa in una bomba incendiaria, era da lì che avremmo acceso la miccia.
Anche la sala macchine seguiva lo stile architettonico del resto della casa. Trovai una fornitissima cassetta per gli attrezzi nel mobiletto sotto il piano di lavoro in granito lucido, poi osservai da vicino lo stipite, la battuta e l’infisso della porta che consentiva di scendere dal piano terra.
All’inizio Harry si muoveva veloce e silenzioso insieme a me. Ma, con il passare dei minuti, i muscoli si tendevano e i movimenti diventavano meno sciolti. Anche lui era consapevole che non potevamo lasciare tracce della nostra invasione, ma conoscendolo sapevo bene che il suo unico desiderio era sfasciare tutto.
L’ultima occhiata al salone fu, con ogni probabilità, un errore. L’arredamento – acciaio inox, vetro, legno lucido e cuoio – era disposto con algida precisione. Sembrava un salone da esposizione. Tutto era esattamente dove doveva essere.
La fotografia di famiglia nella cornice d’argento mandò Harry fuori di testa. Larga sessanta centimetri e alta quarantacinque, occupava il posto d’onore fra una coppia di candelabri lucenti, sotto una finestra che si affacciava sul lago piatto come uno specchio.
Al centro del gruppo, con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, c’era il clone di Saddam Hussein. Con la moglie svedese bella e bionda e due bambini di carnagione olivastra aggrappati a lui come se ne andasse della loro vita, aveva molto di cui essere felice.
Ma, da vicino, era impossibile non notare che gli occhi di Jahmir Koureh non stavano sorridendo.
L’avevo visto succedere soltanto una volta, per un attimo brevissimo, durante le sei settimane passate al quartier generale del partito Ba’th a Baghdad, quando si era chinato per stringere le pinze attorno al mio ultimo dente del giudizio che poi aveva estratto con violenza dalla gengiva per aggiungerlo alla sua collezione di trofei. Non si preoccupava mai di usare l’anestesia, gli avrebbe tolto il piacere di godere al massimo del suo lavoro.
Un grugnito sordo alla mia sinistra. «Lo giuro, Nick, ucciderò quel bastardo a mani nude...»
Harry aveva l’espressione di uno che ha visto un fantasma. La pelle era tesa sulla fronte e sugli zigomi come una pellicola da cucina, e gocce di sudore gli imperlavano l’attaccatura dei capelli. Le mani che stringevano lo schienale della sedia accanto a me avevano le nocche bianche sotto i guanti trasparenti di polietilene.
Comprensibile.
Mi ero illuso di aver seppellito il ricordo della prigionia della guerra del Golfo ma adesso non riuscivo a impedire che il gusto di sangue e bile mi inondasse la lingua. E qualsiasi cosa Koureh e i suoi soci avessero fatto a me, non era pari a ciò che avevano fatto a Harry Callard.