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Quando le ruote anteriori si staccarono dal terreno girando a vuoto, la marmitta grattò contro la roccia, ma l’auto aveva già raggiunto l’abbrivio necessario per completare il suo tragitto.
Mi arrampicai veloce per vederla colpire l’acqua, restare a galla per un tempo sconfinato alla luce della luna, e poi affondare con il muso in avanti nella sua tomba. Per fortuna Koureh non si era lasciato tentare dalla carrozzeria giallo Montecarlo molto in voga in quel periodo tra i fanatici delle Saab. Il grigio metallizzato si intonava perfettamente con il fondale del lago.
Passai e ripassai sulle tracce degli pneumatici con le Timberland e coprii con della terra i segni lasciati sulla roccia dal telaio. Non era proprio un buon lavoro, ma non potevo fare di meglio, e comunque saremmo stati parecchio lontani quando la polisen locale avesse fatto intervenire i sommozzatori.
Misi in moto la Mercedes e tornai indietro. Mi fermai vicino alla casa per prendere lo zaino. Avevo già controllato che il nostro LUP fosse sterile. Non era stato complicato visto che non ci eravamo fermati tanto a lungo da aver bisogno di vuotare l’intestino.
Prima di dirigermi sul davanti per recuperare Harry, abbassai i sedili posteriori perché potesse avere più spazio a disposizione. Il mio piano prevedeva di allontanarci dal lago, collegarmi via radio con Trev e avvisarlo che Harry aveva bisogno di essere prelevato. Non m’importava quali fili avrebbe dovuto azionare il colonnello, o quanti chilometri avrei dovuto macinare, sapevo soltanto che se avessimo affidato Harry Callard ai medici svedesi, la nostra copertura sarebbe saltata, e se non l’avessimo fatto, non avrebbe mai più rivisto il figlioletto.
Ma, per la seconda volta quel giorno, Harry sembrava avere altri piani.
Mentre chiudevo il portellone ci fu una luce accecante, di quelle che ti perforano la retina, seguita da un rombo forte, assordante, e l’onda d’urto mi sbatté a terra.