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Se non altro mi ero guadagnato un po’ di distanza e un po’ di tempo per tirare il fiato. Mentre i miei nuovi amici si sparpagliavano dappertutto, io mi voltai e scattai verso il più lussuoso labirinto di uffici e appartamenti di design attorno a St Saviour’s Wharf.
Quando fui a metà di Mill Street i passi echeggiarono di nuovo dietro di me. A quel punto mi voltai. Non riuscii a vederlo, e ciò mi rendeva abbastanza sicuro che lui non potesse vedere me. Mi arrampicai sul cancello alla mia sinistra e mi fiondai nel vicolo fra due magazzini riconvertiti che portava al Devil’s Neckinger.
Il Neckinger era uno dei molti fiumi sotterranei di Londra, che segnava il confine tra Bermondsey e Southwark. Nasceva da qualche parte vicino all’Imperial War Museum, scorreva sotto Elephant & Castle, e si univa al Tamigi a St Saviour’s Dock.
Da quando l’avevo sentito pronunciare da Fagin, quel nome mi era sempre piaciuto. Veniva da Devil’s Neckerchief, così chiamavano il cappio del boia ai tempi in cui impiccavano i pirati sul patibolo nell’insenatura alla foce e lasciavano i cadaveri in mostra nella corrente.
La forca non aveva più il posto d’onore lì, ma i ricconi utilizzavano ancora le gru vittoriane, posizionate a circa cinquanta metri di distanza una dall’altra lungo la sponda puntellata dell’affluente, per sollevare i loro costosi mobili attraverso le finestre dell’attico. I ganci e le catene si stagliavano contro il cielo della notte alla mia destra sopra una passerella che però, mi resi conto in quell’istante, non avrei mai potuto raggiungere senza bagnarmi.
Quando sentii sferragliare il cancello del mio vicolo, seppi che non c’era via d’uscita. In quel momento la marea era bassa. Dovevo fare un tentativo nel fango.
Afferrai una cima da ormeggio e scesi in corda doppia la parete di rocce molto scivolosa tra due piloni di quercia che seguivano l’argine. Mentre scendevo, mi ricordai che Fagin raccontava che un tempo quel posto veniva chiamato Cholera Central, e non soltanto per i corpi gonfi dei pirati. Fogne non trattate, pecore infette, pesce marcio, e il liquido irritante per gli occhi che usavano nelle concerie, tutto quanto scorreva fin lì. Ma ’fanculo: non era la prima volta che mi trovavo in un fiume di merda senza pagaia.
Il mio piano era muovermi facendo il minor rumore possibile nel letto del fiume, tenendomi vicinissimo ai piloni di quercia, fino a raggiungere le scale che mi avrebbero portato sulla passerella. Quando il limo aggredì le Timberland e salì oltre le ginocchia, compresi che non potevo fare altro che restare fermo immobile esattamente dove mi trovavo. In quel periodo dell’anno il dislivello tra alta e bassa marea era di circa cinque metri. Forse sarei riuscito a resistere un’ora, massimo tre, e poi avrei provato a nuotare.
Sollevai il cappuccio per ripararmi un po’, e rallentai il respiro.
Sentii lo scalpiccio di uno stivale e il rantolo di un colpo di tosse. Poi un grumo di catarro grande quanto una medusa atterrò sul fango a un metro da me e scintillò nella luce. Non guardai in su; mi limitai ad appoggiarmi ancora di più al palo di legno sperando che il prossimo non mi atterrasse sulla testa.