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Pasha era riuscito a fissarmi un appuntamento con Aleksa a casa sua sul fiume Morava nel primo pomeriggio, e con l’imam alla Fortezza di Belgrado, dopo il Magrib, la preghiera della sera.
Il navigatore satellitare dell’Audi mi disse che per raggiungere la casa di Aleksa avrei impiegato due ore e mezzo, quindi lo programmai prima per l’appuntamento della sera. Non avrei fatto il giro completo suggerito da Russell Brand, ma non intendevo incontrare nessuno, neppure un amico, in quella parte del mondo, di sera, senza aver prima effettuato una ricognizione.
La Belgrado Arena si stava già preparando ad accogliere Il Divo e Jennifer Lopez in autunno quando attraversai Novi Beograd, dove scintillanti uffici futuristici e edifici residenziali si alternavano alle schifezze dozzinali dell’era comunista nei toni uniformi del marrone e del grigio. Il traffico si fermò sotto un ponte dell’autostrada lungo abbastanza perché potessi ammirare alcuni dei migliori capolavori di street art, e un gabinetto mobile che sembrava già così pieno di merda da non potersi più chiudere.
Trovai parcheggio in una strada laterale che si dipartiva da Ulica Pariska. Dopo aver consultato la guida che avevo acquistato all’aeroporto, tornai indietro sulla Knez Mihailova, la strada pedonale che attraversa il centro della città vecchia e porta al parco Kalemegdan e alla Fortezza.
I bar all’aperto erano già pieni di clienti del posto e di turisti occasionali. Non avrei saputo dire se fumassero per suicidarsi o soltanto per evitare il contatto visivo con i venditori di dvd pirata, o con le vecchiette avvizzite che vendevano rose rosso scuro dal gambo lungo per una manciata di dinari. Come avviene in tutto il resto del mondo, erano più interessati alla persona all’altro capo del cellulare che non a quella che avevano di fronte.
Attraversai la strada principale schivando un paio di autobus affollati e passeggiai lungo un viale alberato in mezzo a un mercatino con banchetti ricolmi di elmetti della fanteria serba e sciarpe della Stella Rossa. Non faceva abbastanza freddo per i colbacchi di pelliccia da comandante di carrarmato.
Superai il monumento di Gratitudine alla Francia e scrutai le panchine alla sua sinistra, sistemate attorno a una fontana di bronzo con al centro un pescatore che lottava con un serpente marino. Pasha mi aveva detto che quella statua è nota con il nome di La Lotta, ed era lì che avevo appuntamento con l’imam a fine giornata.
Due ragazze mi superarono sfrecciando sui pattini, seguendo il tragitto che costeggiava le mura occidentali. La cittadella vera e propria dominava l’orizzonte che avevo davanti, un mucchio di mattoni rossi consumati dal tempo e fortificazioni con merli e feritoie che dominavano le alture sopra il punto di incontro dei fiumi Danubio e Sava.
Svoltai a destra verso la bianca Torre dell’Orologio e costeggiai il primo di una serie di fossati, che ospitava il tennis club, e un altro con un campo illuminato da pallacanestro. Seguii un gruppetto di ragazzi in tenuta da corsa e auricolari attraverso due robusti archi fortificati e poi tornai di nuovo a destra, finendo nel terzo fossato difensivo.
Era riempito con un fatiscente assortimento di cannoni e veicoli militari della prima e della seconda guerra mondiale che combattevano una battaglia persa contro orde di soffioni. Un pesante carrarmato jugoslavo, basato sul T34 sovietico, stava su un basamento di cemento, con la torretta chiusa e la canna minacciosa puntata contro un albero lì vicino. Era dipinto di un verde scialbo e non si divertiva tanto quanto suo cugino a Bermondsey.
La mostra introduceva al mausoleo del maresciallo Tito nella Casa dei fiori. Tito era un bel tipo. Si era decorato da solo per tre volte con l’Ordine degli Eroi del Popolo. Probabilmente se lo meritava. Era riuscito a mantenere unita la Jugoslavia per quarant’anni.
Qualcosa mi fece guardare indietro verso il parapetto sopra l’arco alle mie spalle, dove una sagoma in uniforme, con la pistola al fianco, era stagliata contro il cielo invernale.