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Mi ero illuso che quel lavoro in Svezia potesse aiutare Harry a tirare una riga sull’intero incubo del Golfo, ma stavo già cominciando a pentirmi di essermelo portato dietro.
Mi allungai e gli toccai la spalla. Come se l’avessi fulminato con il taser sobbalzò e indietreggiò sul lucidissimo pavimento in legno di pino. Ma non era né il momento né il posto.
«Amico, dobbiamo muoverci...» Lo guidai verso il portone principale.
Fuori il sole della sera brillava sull’acqua oltre il semicerchio di abeti che circondava la proprietà del dentista verso il lago. Poiché eravamo arrivati dalla stradina da Tranås sapevamo che la proprietà più vicina si trovava a circa tre chilometri a nord rispetto a noi, ma la presenza degli alberi mi rendeva più tranquillo, soprattutto adesso che Harry stava dando fuori di testa.
Era indispensabile restare nascosti per decidere la fase successiva, e quel posto era perfetto per il lavoro. Il tronco e il grosso ramo laterale di un ginepro ci coprivano le spalle e davanti avevamo altrettanta copertura, ma potevamo vedere chiaramente la casa e il sentiero che la raggiungeva attraverso la foresta. Lo spicchio di lago visibile in diagonale a sinistra era più che sufficiente per avvertirci di un imminente attacco vichingo.
Non smisi di parlare sottovoce mentre guidavo Harry verso il LUP, Lying-up Position, il nostro luogo di appostamento. «Respiri profondi, amico. È quasi fatta. Tè, pasticcini e giornale...» Mi illudevo che potesse servire ad allentargli la tensione dei muscoli delle spalle, e forse anche a farlo sorridere. Ma quasi non reagì, si limitò a guardare indietro da dove eravamo arrivati, con la mascella serrata e le vene sul collo in rilievo come sverzini.
A giudicare dalla residenza di vacanza, allo studio di Koureh a Stoccolma il lavoro non mancava: tetti spioventi in tegole d’ardesia; pareti tradizionali in assi di legno color grigio tortora, imposte azzurro chiaro sull’attenti ai lati delle imponenti finestre che inquadravano il lago. Il terrazzo, che aveva le dimensioni di un campo da tennis, forniva uno spazio enorme per sdraiarsi sulle poltrone da piroscafo in acciaio e tela color crema subito dopo un bagno caldo. La lanterna in nichel al centro del tavolo con il piano in vetro aveva la forma a cono di un piccolo razzo spaziale.
Tutto quel lusso rendeva le cose più difficili per Harry. Lo sapevo. Quale Dio poteva mai permettere a Koureh, e a chi gli stava intorno, di rifugiarsi in quello spicchio di paradiso scandinavo quando tantissimi uomini non si erano ancora ripresi – e uno di loro non si sarebbe mai più ripreso – dalle sue cure dentistiche in tempo di guerra?
Sbatté le palpebre un paio di volte e alla fine riuscì a staccare lo sguardo dalla finestra dove avevamo ammirato la foto felice di Koureh. Continuava a sudare copiosamente, ma la pelle era migliorata parecchio. Si asciugò la fronte con una manica. «Nick, mi dispiace. Ho sbroccato, lassù. Continuo a vedere il corpo di Snakebite buttato in un angolo della sala interrogatori...»
«Lo so. Non va bene.» A me aveva colpito l’odore. Si erano limitati a tirarlo fuori e a seppellirlo uno o due giorni prima che i vermi gli evitassero il fastidio di farlo. «Ma devi mettercela tutta per non pensarci...»
Già, più facile dirlo che farlo.
Harry aveva sofferto molto per la morte dell’amico. Erano inseparabili dai tempi dell’Irlanda del Nord. Erano uno a fianco all’altro quando un crotalo aveva morso il pisello di Johnny in Colombia. Li avevamo presi in giro alla grande. Ovvio. A questo servono gli amici.