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Da Abergavenny avrei potuto raggiungere il bacino del Grwyne Fawr prendendo la strada di Mynydd Du Forest, ma non mi ero mai fidato delle strade senza uscita, se non per ottime ragioni. E Trev non mi aveva invitato lassù perché attirassi l’attenzione su di me. Girai a sinistra verso Crickhowell, e i resti della grandine della notte precedente scricchiolarono sotto le ruote mentre costeggiavo il limite occidentale delle Black Mountains.
C’era neve più in alto e la luce giallastra ne prometteva altra prima della fine del giorno.
Poco dopo Talgarth lasciai la strada principale e salii i tornanti di quelle secondarie, attraversando alcuni tratti di foresta. A Llanelieu parcheggiai poco distante dalla chiesa. L’avevo vista la prima volta quando Trev e io avevamo trovato la via d’uscita dal Culo dell’Elefante, e ci ero tornato quando mi ero appassionato alla storia medievale. Da tempo la St. Ellyw sembrava un luogo dimenticato da Dio, e a quanto pareva anche da padre Mart, eppure la sua auto lì non sembrava fuori posto. E volevo controllare che il soffitto fosse ancora color rosso sangue.
Il portellone posteriore della 110 emise un gemito lamentoso quando lo aprii per sistemare l’attrezzatura. Fu in quel momento che notai l’iscrizione. Sullo strato di fango sotto la scritta Defender qualcuno aveva aggiunto «of the Faith» con un dito bagnato.
Decisi di non prendere il mio cappello da comandante di carrarmato russo. L’avevo comprato a un banchetto quando con Anna stavamo passeggiando in un mercato all’aperto vicino a Gorky Park. I paraorecchie in pelle di pecora erano la cosa più calda che avessi mai posseduto, ma se ne indossi uno fuori dall’Europa dell’Est ti prendono per un cazzone o per un tifoso del Chelsea.
Infilai la pala e le altre cose che avevo comprato dentro al sacco. Forse non era necessario, ma ero da sempre abituato ad andare in giro con trentacinque chili sulle spalle, quindi non mi avrebbe certo rallentato. Legai le ghette, strinsi le cinghie dello zaino e afferrai i guanti da sci, pronto a mettere un piede davanti all’altro.
La mia prima meta era la casetta accanto al ruscello che alimentava il bacino idrico. Non ci andai seguendo il tragitto diretto, ma neppure facendo giri inutili. Trev stava giocando a Super Segretissimo, ma in quella situazione io dovevo essere un semplice escursionista ben equipaggiato alla ricerca di un punto favorevole per godere del paesaggio mozzafiato.
Quando mi lasciai alle spalle il gregge di pecore davanti alla chiesa, non vidi altri segni di esseri viventi sulla collina. Camminavo sui ciuffi d’erba ghiacciati che scricchiolavano sotto le mie Timberland. Quando ero una recluta le chiamavamo teste di bambini, e non riuscivo a togliermi dalla mente quell’immagine.
La casetta era costruita in pietra con il tetto in ardesia, nascosto tra i boschi della collina sopra una diga di contenimento. Durante l’estate praticamente scompariva fra i grigi, i verdi e i marroni del paesaggio circostante. Spiccava sulla spolverata di neve.
Dal camino sopra la stufa a legna non usciva fumo, così decisi che era il momento giusto per un tè. Al ruscello riempii la borraccia e anche la gavetta nuova di zecca.
All’interno, staccai un pezzo dal blocco di meta e lo osservai mentre portava l’acqua a ebollizione. L’unica cosa di cui avevo bisogno in quel momento era essere al riparo dal vento con il tè Yorkshire di padre Mart nella pancia, quindi non avevo intenzione di fare un gran fuoco. Forse dopo, se ne avessi avuto bisogno. Non ero sicuro di riuscire a tornare indietro prima del tramonto, ma c’era un sentiero che potevo seguire lungo il bordo del bacino.
Presi il Samsung e provai tutte le mie nuove sim, scelsi la rete con il segnale migliore, e digitai il numero sotto la «A» nella rubrica del mio iPhone. Avevo un sacco di spazio. Non conservavo mai i dettagli dei miei contatti. I pochi che mi servivano erano già al sicuro dentro la mia testa, e non avevo bisogno di farli sapere in giro. Le vecchie abitudini sono dure a morire.
Avevo sempre pensato che quei vecchi rifugi di montagna fossero favolosi. Alcuni erano stati costruiti per i lavoratori itineranti ai tempi della Rivoluzione industriale. Adesso offrivano riparo a teste di cazzo come me e Trev se ci fossimo presi la briga di cercarli sulle cartine prima di partire, o se li avessimo trovati per caso dopo essere riusciti in qualche modo a cavarci dalla merda.
Quella notte avevamo celebrato lo scampato pericolo incidendo le nostre iniziali nella malta accanto al camino, come ragazzini spensierati e felici, ma molto tempo dopo qualcuno si era dato da fare con stucco e calce e le aveva coperte.
Mentre ero seduto e ascoltavo il ruscello ingrossato che scorreva sulle rocce all’esterno, mi chiesi quale itinerario avesse scelto Trev quel giorno, e cosa l’avesse reso così nervoso da impedire che ci incontrassimo per una bevuta a Hereford.