3
Ai tempi probabilmente il Rifugio ci aveva salvato la vita. Controllai il tragitto per raggiungerlo mentre padre Mart preparava chissà cosa al forno. Rispetto ad allora, ero diventato molto più bravo a organizzarmi.
Trev e io ci eravamo esercitati parecchio sulle Black Mountains in vista delle selezioni invernali. Il piano era di perfezionare la resistenza, la forza e la grinta, e correre in salita e in discesa con il bel tempo ci rendeva piuttosto soddisfatti. Ma quando il tempo cambiava era tutta un’altra storia. Gli escursionisti restavano nei pub e noi nella merda.
Sui Brecon Beacons poteva fare molto freddo a ottocento metri di altezza, e si poteva facilmente morire congelati anche più in basso se soffiava il vento. Tutti avevamo sentito racconti di ragazzi che si erano persi quando aveva iniziato a nevicare, e poi esausti, bloccati o feriti non avevano più fatto ritorno. Una leggenda narrava di un uomo congelato a tal punto che la squadra di soccorso l’aveva usato come slitta per scendere dalla montagna.
Noi avevamo fatto un casino di errori stupidi, e partire quella mattina con anfibi, maglietta e giubbotto impermeabile leggero era in cima alla lista. La foschia ci aveva avvolto quando avevamo raggiunto la vetta della Waun Fach e la tormenta di neve era seguita a breve. Avevamo capito quasi subito di essere nei guai.
Il mio orologio non era dotato di misuratore della temperatura, ma le dita di mani e piedi mi dicevano che eravamo di molto sotto lo zero.
Lo stato confusionale è uno dei primi sintomi dell’ipotermia, ma qualcuno poteva obiettare che ne fossimo vittime già da prima. L’unica mossa sensata era stata quella di mettere nei Bergen i sacchi a pelo, le razioni alimentari e un fornello a meta.
In qualche modo eravamo riusciti a scendere, cercando di liberarci dal vento assassino, e ci eravamo imbattuti in una grotta. Non sapevamo neppure dove.
Soltanto il pomeriggio del giorno dopo il tempo era migliorato ed eravamo riusciti a orientarci di nuovo. All’inizio Trev aveva chiamato il nostro rifugio il Culo dell’Elefante, a causa della forma e del colore delle pietre che lo fiancheggiavano, e perché all’interno era abbastanza ampio da alloggiare due idioti, ma immagino che non se la fosse sentita di chiamarlo così davanti a un prete.
«Un centesimo per i tuoi pensieri, come diceva sempre mia mamma...»
Sollevai lo sguardo dal piatto di lasagne che mi aveva messo davanti. Avevo quasi dimenticato dov’ero. «Scusi. Ero a chilometri di distanza.»
«Non hai bisogno di scusarti. È sempre bello vederti sorridere.» Anche lui sorrideva, ma leggevo la tensione nei suoi occhi.
«Non deve preoccuparsi per Trev. Odia le sorprese, ma nessuno del nostro gruppo le sa gestire meglio di lui.» Gli raccontai un paio di storielle di quando ci eravamo cacciati nei guai in Colombia e Trev aveva preso il comando.
Sghignazzò. «E che mi dici di te, Nicholas?»
Non fu la domanda a sorprendermi ma il fatto che soltanto un’altra persona in tutta la mia vita aveva usato tutte e tre le sillabe per pronunciare il mio nome. Era la donna che avevo lasciato in Russia trentasei ore prima.
La domenica Anna non era venuta all’aeroporto Domodedovo a salutarmi. Eravamo d’accordo che se avessi continuato a essere una calamita per proiettili, per lei e per il nostro piccolino di cinque mesi, sarebbe stato meglio starsene lontani dalla zona bersaglio. E poi, comunque, nessuno dei due voleva prolungare l’agonia.
Separarci non era mai semplice. Li avevo lasciati al sicuro nel quartiere protetto da cancelli alla periferia di Mosca, li avevo abbracciati con la tenerezza che non avevo mai riservato a nessun altro essere umano, avevo afferrato la mia sacca ed ero salito sul taxi.
Lasciavo sempre qualcosa, sia perché mi piaceva viaggiare leggero, sia perché mi aiutava a cullarmi nell’illusione che non me ne andavo per sempre. Volevo restare con lei e con nostro figlio, ma sapevamo entrambi che sarebbero stati più al sicuro se io ero lontano. Le sue parole continuavano a girarmi nella testa: Nicholas, io non credo che tu vada in cerca di guai, sono loro che cercano te... A scuola tu eri il ragazzino che si ritrovava sempre in mezzo alle risse senza sapere il perché...
Sentii la mia voce che iniziava a spillare la storia a padre Mart mentre fuori il vento aumentava e manciate di grandine sbattevano contro le finestre.
«Ricorda la bionda degli Abba?»
«Con o senza baffi?»
«Divertente. Quella con gli zigomi alti e il sorriso triste. Anna è uguale. Ci siamo incontrati a Teheran. A una fiera di armamenti. Lei era una giornalista investigativa. D’assalto. Lavorava per una testata indipendente russa. Voleva rendere il mondo migliore. Poi ha collaborato con Russia Oggi ed è andata in Libia per seguire la rivolta.
«È cambiato tutto quando è rimasta incinta. E quando il nostro bambino è nato, non potevamo più ignorare il fatto che un padre che fa il mio lavoro fosse un rischio...»
«Come si chiama tuo figlio?»
«Nicholayevich. Ma penso che lei lo chiami Nicholai. Tranne quando le fa perdere la pazienza.»
Il sorriso ironico ricomparve in mezzo alla barba da Babbo Natale. «Un omaggio al conte Tolstoj, naturalmente.»
«Giusto.» Anch’io sorrisi. «Mi ha iniziato ad Anna Karenina, poi mi ha fatto leggere Guerra e Pace. Anche la parte relativa alla Pace. E poi mi ha fatto andare a mostre e concerti e schifezze varie...»
Il distillato si stava trasformando in una cascata. Mi interruppi per un attimo e lo guardai, a disagio. «Da un momento all’altro potrei finire nello show di Piers Morgan.» Sollevai il mio bicchiere d’acqua. «E non posso neppure prendermela con il vino della messa...»
Gli brillarono gli occhi. «E finalmente ti vedremo nel confessionale, figliolo.»
Molto dopo, mi sdraiai sul divano di padre Mart e ripensai a quanto avevo lasciato. Delle cose non m’importava nulla, ma delle persone tantissimo. Per me era una novità. Ed era uno dei motivi per cui me ne ero andato.