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All’inizio, la storia venne fuori a singhiozzo, e non sempre aveva un senso. Ma una volta preso il ritmo, non ci fu modo di fermarlo.
A Kajaki i Tre Amigos avevano fatto una promessa all’amico morto: lo avrebbero vendicato, non importava quanto tempo ci avrebbero messo. Attraverso i pochi uomini di cui si fidavano nell’esercito afghano inviarono un messaggio: volevano il nome di chi aveva spellato vivo Chris Matlock.
Pochi giorni dopo, arrivò la risposta. Razaq, uno dei talebani che avevano cercato di catturare, aveva dato l’ordine a due guerrieri dalla sua sede. La sua sede a Koshtay.
Poi aveva controllato l’esecuzione.
La crocifissione. Lo scuoiamento. Quelle cose non sono mai semplici. Non andavano fatte in fretta. Razaq si era occupato del viso del miscredente – e delle sue palpebre – personalmente.
«Capimmo all’istante cosa dovevamo fare. Nessuno di noi ebbe dubbi. Non era legale. Su questo non ci prendevamo in giro. Ma era giusto.
«Guy dice al capo che abbiamo avuto una dritta su uno dei talebani, gli dice che saremmo andati a controllare. Nessun dramma. Soltanto noi tre, una CTR, Close Target Recce, ricognizione ravvicinata. Se l’informazione è vera, torniamo con i rinforzi.
«Prendiamo un Jackal. Scott guida. Guy è sul sedile del passeggero. Io gestisco la GPMG. Riusciamo non so come a evitare gli IED e al tramonto arriviamo vicino al complesso. Ci posizioniamo dietro gli alberi, su un rilievo. Non un altopiano come a Kajaki, ma appena sufficiente a darci un punto di osservazione da cui studiare il nemico con i nostri NGV.
«Sappiamo di essere in minoranza, ma abbiamo il vantaggio della sorpresa.»
Vide l’espressione sul mio viso.
«E, sì, in quel momento, se riuscivamo a uccidere gli stronzi, a nessuno di noi importava di uscirne vivo.»
Avevano individuato sette persone nel complesso, tutti uomini, tutti armati. Giberne e nastri di munizioni di traverso al torace, AK-47 sulle spalle o a portata di mano. Gli Amigos avevano stabilito che fossero pronti ad andare via.
«Non dobbiamo consultarci. Ora o mai più. Azione immediata. Avanziamo fra gli alberi, attraversiamo un tratto scoperto. Il covo di Razaq era circondato da un muro di fango secco, che a malapena arrivava al torace. Lo scavalchiamo e con la prima scarica facciamo fuori tre nemici. Non sanno che siamo lì. Ne appaiono altri due all’entrata delle stanze dove vivono, e facciamo fuori anche loro.
«Guy è in testa. Era diventata una sua abitudine, probabilmente dai tempi della scuola. Per lui era importante essere il primo, e vincere era tutto. Per questo sentiva di non poter condividere l’onta...»
Faceva fatica a deglutire.
«Era adrenalinico, capisci? Sparisce dentro l’edificio, entra sparando. Poi il silenzio.
«Scott e io scostiamo la tenda appesa alla porta. Ci sono due locali, illuminati da candele. Il muro di calce bianca direttamente davanti a noi è coperto di sangue. Razaq ci è stato spinto contro dalla raffica di Guy. Il settimo guerriero talebano giace sotto l’arco che porta alla zona dove dormivano.
«Guy è inginocchiato accanto al corpo. Solleva la testa mentre noi lo seguiamo dentro. Sta cullando qualcosa tra le braccia. Dice soltanto «’Dio, perdonami...’» e continua a ripeterlo.
«È lì che ci rendiamo conto di cosa ha fatto.»
Il settimo corpo era quello di una giovane donna incinta. E l’ottavo era di una bambina. Forse di quattro anni. Cinque al massimo. Difficile dirlo. Il proiettile le aveva portato via una parte di mascella.
Ma Dio non lo aveva perdonato. Ecco cosa pensava. E nemmeno Guy Chastain poteva perdonare se stesso. Aver ucciso la donna e la bambina lo aveva convinto di essere diventato come gli uomini che avevano torturato a morte il suo amico.