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Trascorsa la festa del Primo maggio, nell’appartamento di Irma si trasferì un’anziana signora di settantadue anni, molto grassa, che si muoveva in carrozzella e non diceva nemmeno «buongiorno». Sulla porta si leggeva il cognome Vuorinen, ma nessuno era riuscito a scoprire quale fosse il suo nome. Le infermiere correvano lì mattina e sera per occuparsi di lei, servivano almeno due ragazze, e pertanto, con tutte le sue necessità di assistenza, per la Fondazione amorevoli cure per gli anziani e per l’agenzia interinale di Virpi, quella donna era un investimento assai più redditizio di Irma.

Nel frattempo, le cose per Irma si erano complicate, anche se pian piano si stava riprendendo dall’inserimento del chiodo in titanio e da tutto il resto. Era stata trasferita al reparto di traumatologia dell’ospedale Kivelä. Quel posto non aveva nulla di buono, se non che si trovava in via Sibelius, davvero un bel nome per una strada.

«Il trasferimento fa parte del percorso di dimissione dall’ospedale» disse Anna-Liisa. «Ma non pare una procedura semplice.»

«Sicuramente no, Irma non ha nemmeno una casa in cui tornare!»

Anna-Liisa era andata all’ospedale e aveva messo sotto torchio il personale, andandosene solo dopo aver ricevuto un bel mazzetto di opuscoli sulle dimissioni, in cui si parlava di consultazioni con esperti multidisciplinari, interviste ai parenti, esercizi fisici per il controllo e di programmi di valutazione ai fini delle dimissioni in base a diversi indicatori di rendimento. Nel suo classico tono didattico lesse: «Anche un breve ricovero ospedaliero indebolisce la funzionalità fisica degli anziani, che hanno un piccola riserva omeostatica e diverse altre patologie.»

«Scusa, cos’è che abbiamo, “piccola”?»

«Non m’interrompere. I fattori correlati alla cura di una malattia e alle procedure sanitarie possono contribuire al deterioramento delle funzionalità fisiche. In aggiunta, l’ambiente ospedaliero e il ricovero a letto possono essere causa di complicazioni.»

«Dio mio! E io che pensavo che in ospedale si andasse per guarire!»

«E non finisce qui.»

Provarono compassione per la povera Irma, costretta a un simile sconvolgimento. Chi mai avrebbe immaginato che trasferirsi dall’ospedale a casa potesse essere un’operazione potenzialmente fatale, a cui si associavano solitudine, senso di insicurezza e paura? Secondo gli autori di quella brochure, il ritorno a casa era un evento traumatico. La struttura ospedaliera rappresentava un ambiente protettivo, cosa che dipendeva ovviamente dal fatto che ci lavoravano loro stessi.

«Certo che, al giorno d’oggi, rischi e traumi sono ovunque. Ai miei tempi, a guerra finita gli uomini vennero semplicemente spediti dal fronte a costruire la società. L’unica assistenza che ricevettero veniva dai negozi statali di alcolici» disse Anna-Liisa, dopo aver terminato la lettura del libretto. Era così arrabbiata che non riusciva a parlare, sbuffava e sbatteva quell’opuscolo contro un angolo del tavolo.

«Il Kivelä non è già il quinto ospedale dove finisce Irma per la frattura di una sola anca?» chiese Siiri per far cessare quel rumore. «Hai letto quell’articolo in cui parlavano dei turisti ospedalieri?»

«Il termine giusto è turismo sanitario. Si parlava degli stranieri malati di cancro che vengono qui per ricevere le cure, non di quelli come Irma, pazienti riciclati che transitano da un ospedale all’altro. Ma senti questa!»

Anna-Liisa s’immerse ancora una volta nel suo opuscolo proprio come se fosse un gran passatempo.

«Il malato, nel corso del suo processo riabilitativo, sarà considerato come soggetto agente orientato allo scopo.» Tacque per un secondo, scrollò la testa e assunse un’espressione disperata. «Io sono una professoressa di finlandese, eppure faccio sempre più fatica a capire come parlano al giorno d’oggi.»

Un paziente anziano, per tornare a casa, doveva superare diversi test, così stupidi da farle morire dalle risate. Ad esempio, doveva sottoporsi a un esercizio in cui, toccandole, chiamava per nome le diverse parti del proprio corpo. L’idea era che il contatto producesse la conoscenza di sé. Magari era anche un progresso. Siiri aveva un’amica che era stata preparata per un’operazione, dopodiché si erano accorti che era la paziente sbagliata e così, a ottantasette anni, era stata sbattuta in strada a chiedersi dove si trovasse.

«Un percorso di dimissione fin troppo spedito. Almeno quello di Irma è più accurato.»

«Dobbiamo intervenire» affermò Anna-Liisa, ritornata seria. «Non può essere dignitoso un trattamento in cui una donna anziana viene interrogata sulle parti del proprio corpo. E quale sarebbe l’obiettivo di una simile banalità, mentre nel frattempo le portano via la casa da sotto il naso? Probabilmente si tratta solo di creare occupazione giovanile, per una procedura così semplice servirà un esercito di impiegati. A me sembra proprio che il buon senso sia sparito dal mondo.»

Tutte quelle stupidaggini avevano iniziato a far arrabbiare anche Siiri, tant’è che si tirò su dal letto e si mise a scaldare in padella le frittelle di sanguinaccio per il pranzo. Non erano più molto fresche ma, versandoci sopra della marmellata di mirtilli rossi e del burro salato, non si sarebbe avvertito. Mentre mangiavano, rievocarono come una volta dal pane si raschiasse via la muffa. Spesso anche sulla marmellata si produceva uno strato verdognolo che semplicemente si buttava nella pattumiera, mentre tutto il resto veniva mangiato con appetito, e mai nessuno si ammalava.

«Quello che non uccide, fortifica» disse Anna-Liisa. Desiderava del vino rosso ma Siiri non ne aveva.

«Allora, vado da Onni, lui ha un mobile bar» disse dopo aver spazzolato via la marmellata dal piatto. Se ne andò facendo ondeggiare il cappellino primaverile sotto l’arco della porta. Ora lo portava anche dentro casa, una donna raffinata come lei poteva permetterselo.