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Irma e Siiri abitavano in due bilocali adiacenti al terzo piano della scala A del Lieto Tramonto. Gli appartamenti erano identici, eppure completamente diversi. Siiri aveva a malapena arredato il suo, mentre Irma aveva voluto portare con sé, dalla sua grande casa di Töölö, tutte le cose a lei care. I pavimenti erano ricoperti di tappeti, le pareti di quadri e scaffali carichi di libri. Nel soggiorno c’erano un divano e un tavolino basso con il piano in ceramica, che lei stessa aveva decorato con dei fiori durante un corso organizzato dal comune. E poi una sedia a dondolo, una panchetta in ricordo del vecchio pianoforte, un paio di bizzarri sgabelli, e ovviamente un tavolo da pranzo con le sedie e un televisore. Ovunque facevano bella mostra di sé i tessuti Sanderson con le rose: per i cuscini, le tende, i coprisedie.

Era in quelle due stanze che, quasi ogni giorno, le due amiche gustavano una tazza di caffè solubile e una fetta di torta. Irma sedeva sulla sedia a dondolo alla luce della lampada a stelo e Siiri sul divano, nell’unica zona non rischiarata dal riverbero di tutte quelle lampade. Qualche volta, per un semplice vezzo, facevano un salto l’una a casa dell’altra in camicia da notte. Era uno degli aspetti positivi della vecchiaia, potersene andare in giro in vestaglia, mangiare quel che si voleva e fare tutto quello di cui si aveva voglia. Quando erano giovani, oltretutto, la torta non c’era mai.

«Toorta» la correggeva Irma. «Devono esserci molte ooo così che suoni buona alle orecchie quanto al palato. Prendi altra toorta, mentre io butto giù una pasticca di amaryl.»

Irma era convinta che la pillola per il diabete avesse un effetto immediato. Se inghiottita insieme alla torta, non c’era bisogno di preoccuparsi per il livello degli zuccheri nel sangue, e così arrivava a mangiare la bellezza di tre coni gelato uno dopo l’altro, accompagnati da una pasticca e un goccio di whisky. Siiri, invece, non si dava pena per il diabete, ed evitava di chiedersi se ci fosse qualcosa di sensato in quella strampalata teoria.

«Secondo me Pasi è in malattia per riprendersi dalla morte di Tero» suggerì Siiri. No, per Irma non era così. Al Lieto Tramonto non venivano concessi periodi di malattia o di ferie semplicemente perché qualcuno era morto. A sentir lei, la caporeparto Hiukkanen, con il suo pugno di ferro, teneva i dipendenti in riga. Li faceva sgobbare come muli, li pagava male e non ringraziava mai. Ecco perché i giovani si stufavano di quel lavoro, di curare e intrattenere gli anziani. Erano sempre sotto pressione, un ritmo micidiale, in un luogo in cui nessuno aveva fretta di andare da nessuna parte, e dove non accadeva mai nulla. Le infermiere, esasperate, preferivano cercarsi un altro impiego, più leggero, e si mettevano in congedo. In che cosa consistesse il congedo, Siiri proprio non sapeva.

«Il datore di lavoro paga il dipendente che per un anno sta senza lavorare» spiegò Irma, ma Siiri non le credette. Non c’era da fidarsi sempre delle cose che diceva Irma, a volte perdeva qualche colpo.

«È così! Il principale prende al suo posto un disoccupato o un rifugiato e si intasca le sovvenzioni dallo Stato» ribadì. Siiri decise che prima o poi avrebbe verificato.

Irma si era data da fare. Aveva scoperto che il funerale di Tero si sarebbe svolto nel giro di due settimane, il sabato nella vecchia cappella di Hietaniemi. Decisero di partecipare alla funzione e al ricevimento di commemorazione, un’ottima occasione per fare qualche domandina in giro. A Siiri i funerali non piacevano. Irma, invece, adorava ogni forma di celebrazione.

«Chiediamo anche agli altri se vogliono venire! Faremo una bella gita autunnale» disse entusiasta. «Possiamo andarci con il tramtram, così ti diverti pure tu. Dove te ne sei andata a zonzo negli ultimi tempi con il tuo abbonamento?»

Siiri raccontò che il giorno prima aveva fatto un giro con il tram numero 3 e con il 7 e, naturalmente, come sempre all’inizio e alla fine della sua passeggiata aveva preso il 4. Alla fermata dell’ospedale Aurora era di nuovo salito un pazzo che gridava prendendosela con se stesso, oltretutto i palazzi del quartiere di Pasila erano orribili, e Siiri si era lasciata prendere dallo sconforto. Poi però, arrivata all’altezza di via Mäkelä e a Vallila, sia il suo stato d’animo sia il paesaggio avevano cominciato a rasserenarsi. All’angolo di via Sture aveva adocchiato un ristorante che per tre euro offriva la colazione anche al pomeriggio. Entrambe trovarono la cosa molto divertente.

«Qualche volta potremmo andarci, invece di prendere il nostro caffè sempre qui» propose Irma.

«In realtà non c’è nessun angolo all’angolo di via Mäkelä e via Sture, c’è solo una specie di cosa rotonda, simile a quelle delle città del centro Europa. Ma sicuramente non sai di cosa sto parlando, da quelle parti non ci sei mai stata.»

Irma era il tipo di donna che non aveva mai messo piede nemmeno in quella che era chiamata la “parte sbagliata” di Helsinki, e cioè i quartieri operai a nord, separati dal Ponte Lungo da quelli borghesi che sorgevano a sud, nella penisola. Ma a Vallila in qualche occasione le era capitato di andare, ricordava che l’aria profumava di caffè.

«Una volta Veikko mi ha raccontato che a Vallila ci sono interi isolati di case in muratura degli anni Venti e che vale la pena di sbirciare nei cortili interni, perché con un po’ di fortuna si possono scoprire bellissimi giardini.»

Veikko era stato il marito di Irma. Era morto da tempo di cancro ai polmoni, dopo aver fumato per anni due pacchetti di sigarette al giorno. Irma non ne parlava quasi mai. Sembrava non mancarle, o almeno non tanto quanto a Siiri mancava il suo, di marito. Sempre, ogni giorno.

«Sarebbe tremendo se Veikko fosse ancora vivo» continuò Irma, «sarebbe sicuramente terribilmente malato e dovrei prendermene cura io. Oppure sarebbe rimbambito e se ne starebbe in un letto nel reparto d’isolamento.»

Al Lieto Tramonto i pazienti affetti da demenza grave venivano ospitati in un settore chiamato “casa di gruppo”. Era situato in un edificio basso nell’ala laterale del complesso, confinante con il salottino, la cui porta d’entrata era sempre chiusa a chiave. Ecco perché i residenti che non erano ancora affetti da demenza lo chiamavano talvolta “reparto d’isolamento”. Nessuno aveva il permesso di andarci, su quel luogo aleggiava un’aura di mistero, che suscitava paura e curiosità allo stesso tempo. Le infermiere entravano e uscivano da lì di corsa facendo tintinnare le chiavi, con un’aria indaffarata e una ruga di apprensione sulla fronte.

Di tanto in tanto la dama col cappellino raccontava che uno dei residenti era stato trasferito nel reparto d’isolamento. Quando era venuto il turno della signora grassa del primo piano della scala A, Irma aveva proposto di farle visita per cantarle qualcosina o leggerle delle favole, ma Virpi Hiukkanen aveva categoricamente proibito una simile assurdità. Dare assistenza a chi è colpito da demenza senile richiedeva competenza e formazione professionale, non si poteva certo andare lì a giocherellare.

«Dev’esserci un trambusto terribile là dentro» disse Irma. «La sera ti svegliano alle otto e ti fanno buttare giù un sonnifero. Al mattino, altra sveglia alle otto e vai con una bella pillola per tirarti su. Non è vita. Veikko ha fatto la cosa giusta, ha fumato ed è morto per tempo. Non pensi che converrebbe anche a noi metterci a fumare? Altrimenti qui non moriamo mai. Tic tac, tic tac, tic tac.»

Al centro di salute un medico aveva detto a Siiri che ogni sera alle otto e mezzo avrebbe dovuto prendere un sonnifero perché era bene che gli anziani a quell’ora andassero a letto. La cosa l’aveva fatta ridere a crepapelle.

«Alle otto e mezzo? Quando c’è il telegiornale?» strillò Irma, così forte che le andò di traverso la toorta e lei iniziò a tossire.

«Non ti strozzare. Ti prendo qualcosa da bere!»

Siiri andò in cucina e accanto al lavello trovò un cartone di vino rosso, che se ne stava lì al sicuro vicino al flacone del detersivo per i piatti. Una delle regole di Irma era di non bere nulla che non fosse vino. Per lei l’acqua serviva solo a lavarsi e il latte era per i bambini. A pranzo beveva spesso un paio di bicchieri di vino e di sera il whisky che il medico le aveva prescritto. A volte però faceva confusione tra giorno e sera e si versava del vino al posto del whisky, o viceversa.

Il vino funzionò a meraviglia. Dopo averne prese due belle sorsate Irma riuscì di nuovo a parlare.

«Volevo dire che con quei telegiornali ci si addormenta comunque, anche senza pasticca!»