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«Che cos’hai?» chiese Siiri preoccupata. Irma non aveva voglia di leggere il giornale, nemmeno le pagine dei necrologi. «Stai male?»

Ogni domenica, dopo il loro caffè, aprivano il quotidiano e Irma domandava in svedese: «C’è qualche morto simpatico?» Sfortunatamente, di morti simpatici ce n’erano sempre meno, perché tutti i migliori se n’erano già andati. Se tra i necrologi non trovavano nessuno di loro conoscenza, li leggevano ad alta voce e cercavano di indovinare che tipo di persone fossero i defunti di quella settimana. Quando andava bene, trascorrevano piacevolmente un paio d’ore in loro compagnia, ma quella domenica Irma non ce la faceva neppure a dare un’occhiatina alle pagine.

«Irma, sei depressa. Hai smesso di prendere la pillolina di amaryl?»

Irma non rispose. Si era addormentata sulla poltrona. Siiri non riuscì a svegliarla e nemmeno a sistemarla in una posizione più comoda. Si sentì angosciata, impotente, e per far passare quella brutta sensazione di ansia cercò qualcosa da fare. Girava in tondo, spostava gli oggetti che aveva attorno e raccontava ogni genere di sciocchezza, cercando di far sì che l’amica si riprendesse. Aveva letto da qualche parte che l’ultimo senso a venir meno è l’udito.

«Tic tac, tic tac, tic tac» le sussurrò infine in un orecchio. Poi tornò nel proprio appartamento.

Ma Irma non era morta. Siiri aveva fatto appena in tempo a dare una scorsa agli annunci di battesimo e a sorridere per un neonato che avevano chiamato Toivo, come suo fratello, quando sentì forti colpi alla parete. Era Irma che batteva con il suo Cavalier Gastone per chiedere aiuto. Siiri abbandonò il giornale aperto sul tavolo per precipitarsi da lei. Le chiavi erano nella borsa, che però non era al solito posto vicino alla porta. La cercò affannosamente, finché non la vide in bagno. Chi era stato l’idiota che l’aveva messa sulla lavatrice?

Irma era ancora seduta in poltrona, stringeva in grembo un cuscino con le rose e si dondolava avanti e indietro canticchiando a bocca chiusa. Il bastone era sul pavimento. I suoi occhi fissavano nel vuoto e qualcosa le colava dalla bocca.

«Cosa ti succede?» gridò Siiri spaventata.

«Grazie di essere venuta. Lei è una nuova? Perché qui sono sempre tutti nuovi?»

Siiri non sapeva cosa rispondere. Non le piaceva mentire, ma era sgradevole dire apertamente alla sua amica che stava sragionando. Non c’era tempo per queste riflessioni. Il telefono era staccato, e Irma aveva subito bisogno di un medico. Poco importava se, nel suo delirio, la scambiasse per un’infermiera thailandese o per sua madre.

«Ce la fai ad alzarti?» le chiese tirandola su dalla poltrona. Non era facile, non aveva la forza delle infermiere né i loro attrezzi. Riuscì però, piano piano, ad accompagnarla fino all’ascensore e scesero per raggiungere l’ufficio della caporeparto. Per tutto il tragitto non si scambiarono nemmeno una parola, Siiri non ne aveva il coraggio, e Irma non ne aveva la forza. Si limitarono a guardarsi l’un l’altra, senza espressione, nello specchio dell’ascensore.

«Ah! Irma è di nuovo confusa?» disse Virpi appena entrarono, come se tutti i giorni andassero da lei a darle noia con i loro capricci. La caporeparto prese il braccio di Irma, le misurò la pressione, sfogliò alcuni documenti e scrisse qualcosa senza mai guardarla.

«Potrei ora finalmente avere la mia documentazione medica?» chiese tutt’a un tratto Irma. «E potrebbe ridarmi anche il mio raccoglitore verde, quello che siete venuti a rubare? Lo so che ce l’ha lei.»

Virpi si voltò e la guardò con un’espressione strana, quasi di vittoria. Si sistemò gli occhiali, mise la gomma da masticare nella tazza sulla scrivania, afferrò la cornetta e compose un numero. «Stessi sintomi» disse senza nemmeno dire il proprio nome quando qualcuno rispose all’altro capo, squadrando Irma. «No, stavolta non è aggressiva, ma confusa e paranoica.»

«Adesso basta!» strillò Siiri. «Con chi sta parlando? Perché mente, perché dice che la signora Lännenleimu è paranoica?»

Scaricò sulla caporeparto tutto il suo malessere, l’ansia per il peggioramento di Irma, i timori per l’aumento dei farmaci e la scomparsa della documentazione medica. Virpi la guardava impassibile, tirò fuori una siringa e spinse Siiri con forza nel corridoio. Irma era sprofondata di nuovo nel suo mondo e sedeva prostrata, senza più comprendere quello che le accadeva intorno.

«Quando un’infermiera sta visitando un paziente non devono esserci estranei. Danno solo fastidio» disse Virpi chiudendo la porta in faccia a Siiri, che vacillò fino a un divano per riprendersi. Era debole e spaventata. Il cuore le batteva troppo forte, anche se con un buon ritmo. Quando sollevò lo sguardo al di sopra del tavolo, vide Virpi che spingeva in gran fretta Irma su una sedia a rotelle. Irma sembrava priva di vita, lasciava penzolare il capo come se fosse immersa in un sonno profondo. Con le lacrime agli occhi Siiri provò a gridare il suo nome, ma dalla bocca non le uscì alcun suono.

«Faccio le carte?» chiese l’ambasciatore.

Ormai senza forze, Siiri guardò quell’uomo anziano sempre abbigliato di tutto punto che la fissava supplicante. Non ebbe il coraggio di rifiutargli una partita a canasta. In quel momento giocare a carte le sembrò l’unica cosa saggia da fare.

«...neben, über, unter, vor, zwischen. Questo sarà un Natale senza neve. Toh! Mi è capitato un due!»

Siiri prese un fazzolettino dalla borsa, si asciugò le lacrime e si meravigliò della facilità con cui, negli ultimi tempi, avesse ricominciato a piangere.