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«Chicchirichì!» si sentì risuonare vivacemente nell’atrio d’ingresso dell’ospedale Meilahti. «Ma dov’eravate finite?»

Irma aveva già fatto in tempo a spazientirsi mentre aspettava Siiri e Anna-Liisa. Stranamente era arrivata in orario e si era ritrovata a sostare in quella che le piaceva chiamare “la reception dell’Hilton” forse addirittura per quattro minuti. L’area dell’ospedale di Meilahti era completamente cambiata da quando Siiri ci era stata l’ultima volta, alla fine del secolo scorso, per far visita a suo marito. Senza Anna-Liisa probabilmente non avrebbe ritrovato quel posto conosciuto come il Triangolo Ospedaliero, il cui ingresso era stato guastato con un fastidioso color arancione.

«Neanche fosse una stazione della metro» sbuffò anche Irma, pensando ai tipici vagoni arancioni della metropolitana cittadina.

Aveva notato su una parete delle fotografie artistiche di Helsinki e si soffermò a osservarle più attentamente per vedere se, lei che abitava in quella città da dieci generazioni, sarebbe riuscita a riconoscere qualche luogo. Anna-Liisa e Siiri la lasciarono sola con quel giochino e nel frattempo andarono a informarsi in quale reparto si trovasse Olavi. Siiri chiese all’impiegato di scriverle su un foglietto il piano e il numero della stanza, e con quello in mano si misero tutte e tre a seguire la linea bianca tracciata sul pavimento.

Camminavano in fila indiana, come bambine dell’asilo che andavano in gita allo zoo o al museo tenendosi strette a una lunga corda. A Siiri sembrava un test della polizia stradale. Aveva visto nei film che, per controllare se avevano bevuto troppo, gli agenti chiedevano agli automobilisti di camminare in linea retta. Forse i percorsi sul pavimento erano stati tracciati proprio per vedere se qualche paziente fosse ubriaco. Irma fantasticò di essere un’acrobata del circo in equilibrio sulla corda, ma le vertigini la obbligarono a fare un passo di lato.

Avanzando in quel modo, con gli occhi puntati sulla linea bianca, finirono per non fare più attenzione a dove stavano andando. Dopo essersi fermate per far riposare Irma, si resero conto di aver raggiunto lo scantinato. La stanza di Olavi si trovava invece al dodicesimo piano e chiesero di nuovo indicazioni su come raggiungere la loro meta. Anna-Liisa si rifiutava di credere che bisognasse prima scendere di due piani per poter poi risalire in alto, mentre Irma voleva che un vero medico, ancora meglio un primario, le garantisse che non era necessario seguire quella riga bianca.

«Il personale è molto gentile» disse Irma compiaciuta. «Molto meglio che al Lieto Tramonto. Questi almeno ti guardano negli occhi mentre ti parlano.»

Anche Anna-Liisa era contenta.

«Conoscono persino il finlandese. Avete notato che sanno ancora dare correttamente del lei? È una cosa rara ormai. “Come butta?” o “ciao bella!”, ecco cosa siamo costretti a sentire continuamente.»

A Olavi era stata assegnata una bella stanza, c’erano solo quattro letti e anche un bagno privato. Era silenziosa, senza la televisione che sparava dal suo angolino le solite sciocchezze. Dalla finestra si poteva ammirare un bel panorama, fino all’isola di Lauttasaari, se non addirittura fino alla cittadina di Espoo. Siiri, Irma e Anna-Liisa contemplavano il paesaggio cercando di individuare dove iniziasse il quartiere di Töölö. Il compagno di stanza di Olavi, che diceva di essere un vero uomo di città, s’intromise nella conversazione.

«A via Stenbäck» sostenne, tossendo forte. «È proprio lì che comincia Töölö.»

Anna-Liisa non era per niente d’accordo, mentre Irma si chiedeva se quell’uomo fosse un ubriacone. Secondo lei, tutti quelli che si definivano “veri uomini di città” erano ubriaconi. Alla fin fine, però, nessuna delle due disse nulla. Si erano ricordate di essere lì per far visita a Olavi, che sedeva molto dimagrito ma vispo nel suo letto.

«Certo che qui sei sistemato bene» esordì allegramente Irma, ma Anna-Liisa andò dritta al punto, come un’esperta.

«Cos’è successo nella doccia? Te lo ricordi? Hai dei testimoni?»

Siiri avrebbe voluto chiedergli anche del tipografo, magari sapeva dov’era finito. Ma per Olavi sembrava difficile rispondere anche a una sola domanda. Raccontò che in un primo momento era stato trasferito con i dementi al reparto d’isolamento, ora invece era molto soddisfatto di essere atterrato all’Hilton. Dell’isolamento non ricordava nulla e non avrebbe nemmeno saputo di esserci stato, se non gliel’avesse raccontato suo figlio.

«Qui mi hanno fatto tantissimi esami e hanno trovato un sacco di cose» disse quasi orgoglioso, come se stesse parlando dei suoi successi. E mentre si vantava delle sue tante cisti, dell’ernia e delle occlusioni, Anna-Liisa ne ebbe abbastanza e pretese di sentire come procedeva la denuncia.

«Non siamo venute per sentire la tua anamnesi medica» spiegò, e Olavi sembrò spaventato.

Poi scoppiò in lacrime. Non singhiozzava e imprecava come Reino. Piangeva in silenzio, trattenendo in gola i singhiozzi per poi liberarli. Faceva stringere il cuore. L’ubriacone uomo di città ebbe l’accortezza di uscire sul balcone a fumare. Stabilire se gli altri pazienti nella stanza fossero vivi o morti era difficile, e così Olavi riuscì in qualche modo a raccontare quello che era successo.

«Sono stato io a chiedere che fosse un infermiere a occuparsi delle faccende del bagno e della doccia» cominciò. «In un certo senso mi dava fastidio che delle donne giovani dovessero lavare un uomo così... brutto e vecchio. Credevo che un uomo avrebbe svolto il compito in maniera naturale, non mi è neanche passato per la mente che... cioè, volevo dire... per l’appunto che... che si potesse pensare di...»

Cominciò di nuovo a mugolare. Irma gli diede un colpetto sulla spalla, Siiri gli strinse la mano e Anna-Liisa sistemò la coperta.

«Abbiamo capito» disse Anna-Liisa, con l’espressione di una professionista navigata che di devianze sessuali sapeva tutto. «E oltretutto c’è una tale carenza di infermieri, che la scelta è davvero ridotta.»

Olavi raccontò Jere, l’infermiere, era arrivato da poco, ma non ne ricordava il cognome. Suo figlio aveva promesso che l’avrebbe scoperto. In ogni caso, proprio perché era nuovo alla residenza, con lui quella mattina c’era anche l’assistente sociale Pasi.

«Ma allora hai un testimone!» lo interruppe Siiri.

«No, è stato proprio lui quello che più... Io piangevo e pregavo di uscire da quella doccia ma loro non facevano che ridere... Ed è stato... terribilmente umiliante. Voi mi credete?» chiese sottovoce, guardandole in un modo tale che tutte e tre poterono scorgere nei suoi occhi una profonda vergogna. Irma tirò fuori dalla borsa un fazzoletto di pizzo, ma non l’offrì a Olavi.

«L’infermiere è dunque omosessuale» affermò Anna-Liisa.

«Non necessariamente. E in ogni caso non è un omosessuale sano» disse Irma, e si soffiò rumorosamente il naso.

«Alla residenza non ci posso più tornare» confessò Olavi sospirando. «Ma mio figlio non può prendermi a vivere con sé, e non sono nemmeno abbastanza malato per restare in ospedale. Adesso, ditemi voi, dove posso andare?»

La voce di Olavi sparì quasi del tutto e lui rimase con lo sguardo fisso fuori dalla finestra. Non sapevano cosa dire, rimasero lì immobili per un tempo che sembrò un’eternità, finché il silenzio non si fece intollerabile.

«Dai, qualcosa inventeremo» disse Siiri, senza sapere che cosa intendesse per davvero, e intanto sistemò meglio il cuscino.

«Pasi è stato licenziato nel momento in cui Tero è morto. Oppure è accaduto dopo? Qualcuno si ricorda il cognome di Pasi?» domandò Anna-Liisa solerte, innescando una nuova conversazione. Nessuno fu in grado di rispondere. Un’infermiera molto grassa entrò nella stanza con il carrello del pranzo, facendo un gran chiasso.

«Non dev’essere una struttura di altissimo livello» disse Irma guardando quel cibo acquoso.

L’infermiera sudava e aveva l’aria di essere una tipa irascibile. Pensarono fosse meglio andarsene alla svelta, e nella fretta non fecero neppure in tempo a salutare per bene Olavi.

In tram, Siiri si accorse di aver dimenticato il suo bastone in ospedale e decise che sarebbe andata a riprenderlo l’indomani mattina. Non rinviava mai di molto quello che doveva fare, perché così era più facile non accumulare impegni. Suo figlio, quello morto per colpa dell’alcol, lasciava sempre le cose a metà e lei non si spiegava come avesse potuto crescerlo così male. In realtà si poneva la stessa domanda anche riguardo agli altri due. Neanche che sua figlia avesse voluto diventare prima insegnante di yoga e poi si fosse fatta suora era molto normale.

A dire il vero, il bastone non le serviva, ma era un oggetto costoso e “un buon cavaliere”, come piaceva dire a Irma.

«Il mio Cavalier Gastone torna sempre da me» aveva ripetuto la mattina seguente a colazione, prima che Siiri tornasse all’ospedale.

Arrivata alla reception dell’Hilton, Siiri chiese se qualcuno l’aveva per caso ritrovato, ma le impiegate non seppero aiutarla. Aveva l’impressione di averlo lasciato nella stanza panoramica di Olavi, e ripercorrendo mentalmente la strada, decise che l’avrebbe cercato lì. Più che un ricordo, era una sensazione vaga, non avrebbe potuto giurare che fosse davvero così.

Olavi fu felice quando Siiri lo sorprese al momento del pranzo. Negli ospedali si pranzava davvero di buon’ora, ma forse era necessario, visto che i pazienti si alzavano molto presto per la colazione. Quella mattina, per l’esattezza, Olavi era stato svegliato qualche ora prima della colazione, alle cinque e mezzo, per misurare la temperatura. Il motivo non l’aveva capito, non si ricordava nemmeno più quando era stata l’ultima volta che gli era salita la febbre. Ma negli ospedali le procedure erano quelle, non restava che sottomettersi. Sul vassoio c’era un piatto bianco con sopra una patata insieme a qualcosa di grigio.

«Probabilmente è spezzatino di maiale» ipotizzò Olavi. «Non ne sono sicuro. Non ho ancora visto un solo pezzo di carne.»

«Forse si può esprimere un desiderio, se un pezzetto di carne finisce nel piatto» scherzò Siiri, e Olavi rise davvero forte, ma il suo pranzo non lo toccò nemmeno.

Era così piacevole stare lì a chiacchierare che Siiri si dimenticò la ragione della visita. Pensò di dover chiedere del tipografo Reino, visto che il giorno prima non l’aveva fatto. Grazie a suo figlio, che aveva cercato informazioni anche su di lui, Olavi sapeva che Reino era nel reparto d’isolamento.

«Un uomo sano e nemmeno tanto vecchio» disse serio. «Non ha ancora ottantasette anni.»

Era bene informato su tutto, e Siiri meditò sulla definizione di sano e malato nel sistema sanitario, con quanta rapidità si poteva passare dall’uno all’altro gruppo. Nemmeno l’Alzheimer arrivava all’improvviso, ma Olavi le spiegò che chiunque poteva sembrare affetto da demenza dopo aver assunto la giusta quantità di medicine.

«Così mi ha detto mio figlio. Reino sta seduto legato a una sedia a rotelle e non ricorda neppure il proprio nome. Un’infermiera russa gli cambia il pannolone una volta al giorno e gli dà da mangiare con un cucchiaio. Ecco il destino di un veterano di guerra.»

Suo figlio l’aveva salvato, inventando che doveva essere portato in ospedale per degli accertamenti. Ed ecco che Olavi era improvvisamente guarito dalla demenza.

«Una guarigione miracolosa, non c’è che dire! Qui non ti fanno niente se prima non ti hanno ripulito da tutti i farmaci. Ma Reino di figli non ne ha, e non c’è nessuno che lo aiuti. Il suo unico figlio è morto due anni fa per infarto mentre faceva jogging. Si era messo in testa di fare sport, che follia!»

Una volta che lo spezzatino di maiale si raffreddò e divenne solido, Olavi mise da parte il vassoio e tirò fuori il giornale. Era divertente leggere insieme le notizie del giorno. Un articolo parlava delle residenze per anziani integrate, costruite cioè a stretto contatto con gli asili. A entrambi sembrava una buona idea. I bambini avrebbero animato la quotidianità di quelle strutture e gli anziani si sarebbero resi utili badando ai piccoli. Avrebbero potuto mangiare insieme, disegnare, cantare e leggere, senza bisogno di animatrici incaricate di escogitare occupazioni per i vecchietti. Sul giornale dicevano però che si era dovuto mettere fine a quell’esperimento perché i genitori si erano lamentati: i vecchi erano pericolosi, confusi e imprevedibili, e ingerivano potenti medicinali.

Risero così tanto da farsi venire le lacrime agli occhi e alla fine Siiri disse che doveva andarsene, e se ne andò, senza il bastone. Più tardì si augurò che quel suo “andarsene” non fosse malinterpretato, per molti significava infatti morire. Una volta, una simpatica signora aveva lasciato il Lieto Tramonto per tornarsene nel suo appartamento in via Solna, secondo lei lì alla residenza erano tutti vecchi e sdentati. A lungo si credette che fosse morta, finché non riapparve sullo stesso tram di Siiri.

«Ah, ma allora lei non è morta!» aveva detto Siiri senza pensarci troppo. «A noi era stato detto che se n’era andata.»