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Con la lente d’ingrandimento Siiri esaminava le pillole nella ciotola. Era molto strano che sulle compresse non ci fosse scritto niente, né il nome del farmaco né quello della casa farmaceutica né il quantitativo di principio attivo, assolutamente nulla. In quel mucchietto non riusciva nemmeno a distinguere la pasticca di amaryl, l’unica che avrebbe dovuto prendere quotidianamente e che le era stata prescritta dal medico serbo. Era curioso che le pasticche fossero così diverse: rotonde, piccole, oblunghe, piatte, grosse, blu, rosse, arancione chiaro e ovviamente bianche.

Ogni giorno ne spostava alcune dal portapillole alla ciotolina, in modo da dare l’impressione di mandarle giù diligentemente. Una volta alla settimana lo ritrovava pieno, come se fosse passato un fantasma. Guarda caso, le infermiere se ne occupavano sempre mentre dormiva o non era in casa.

Qualcuno doveva averle prescritto tranquillanti e stimolanti, pillole per addormentarsi e per svegliarsi, anche se di notte Siiri aveva sempre dormito a meraviglia. Forse c’erano pure le pastiglie per l’aritmia, quelle che volevano farle prendere a tutti i costi. Quel portapillole era la prova del complotto ordito dal personale del Lieto Tramonto. Se avesse preso tutti quei farmaci avrebbe cominciato a dare i numeri. E se invece si fosse rifiutata, sulla sua cartella clinica si sarebbero accumulate note negative a dimostrazione che stava perdendo lucidità: non riconosce le proprie cose, non ricorda di prendere le medicine, rifiuta le cure e di collaborare.

Prese le tre pillole del mattino, le mise nella ciotola e la ripose in uno stipetto della cucina, dietro il semolino di riso e la farina di grano saraceno. Riportò la lente d’ingrandimento al suo posto sulla libreria, ma poi la spostò nel cassetto delle camicie da notte, lì sarebbe stata più al sicuro. Ma si sarebbe ricordata di averla messa lì? Quella era una giornata importante, lei e Anna-Liisa avevano deciso di andare a trovare Irma all’ospedale di Töölö.

Erano entrambe talmente emozionate all’idea di rivederla che, prima di andare da lei, fecero un giro sul tram numero 8 fino a Ruoholahti e Jätkäsaari. Nuovi quartieri, nuove cose da vedere, nuove energie.

Ruoholahti sembrava un posto carino. C’era parecchia gente, un grande centro commerciale, edifici massicci, il centro culturale Kaapelitehdas e attività curiose, come un ristorante nepalese, un negozietto iperspecializzato in aquaristica, un centro estetico dedicato alla sola cura delle ciglia. E, ovviamente, c’era il mare.

Per collegare Ruoholahti a Jätkäsaari avevano costruito un nuovo ponte. Chissà perché l’avevano chiamato Bernhard Henrik Crusell. A Siiri non risultava che il compositore fosse stato spesso a Helsinki, e di sicuro non era mai stato a Jätkäsaari.

«Comunque, sempre meglio del Ponte dell’Orologio di Pasila Est. Il nome richiama la torre di Venezia ma, a guardarlo, viene piuttosto in mente la Germania dell’Est!» disse Anna-Liisa ammirando il canale che proseguiva all’interno di Ruoholahti.

Jätkäsaari si rivelò alquanto deprimente, ma in modo diverso da come immaginava Siiri. Forse un giorno sarebbe diventato un vero e proprio quartiere cittadino. Al momento c’erano solo fanghiglia, cumuli di ghiaia, cavi e anelli in cemento. I binari del tram, comunque, erano già stati posati, un inizio promettente.

«Qui non ci siamo mai state prima. Che cosa ci saremmo venute a fare al porto? Neppure da giovani arrivavamo fin qui» borbottò Anna-Liisa. «Tanto più che noi la giovinezza non ce l’abbiamo neanche avuta.»

La giovinezza l’avevano inventata solo più tardi, quando loro due erano già nel pieno della vita famigliare e lavorativa, impegnate a ricostruire la società dalle macerie della guerra. Dopo il conflitto, Siiri era mamma di tre bambini e non aveva certo il tempo di rimpiangere il tempo perduto.

«E io a venticinque anni ero vedova e divorziata» aggiunse Anna-Liisa. «Il terrore di tutte le mogli di una piccola città!»

Notarono un uomo brizzolato che saliva sul tram, portava un codino lungo e sottile e dei jeans, sebbene dimostrasse almeno sessantacinque anni. Doveva aver avuto una giovinezza tanto spensierata che non intendeva rinunciarvi. Siiri e Anna-Liisa chiacchieravano a ruota libera di qualsiasi cosa passasse loro per la mente, così da distrarsi. Speravano che il miracolo della guarigione di Olavi si ripetesse per Irma, ma poi ricordavano che lui non c’era più e ricadevano in preda all’agitazione.

«Non tutto è andato come previsto dal nostro Piano» affermò Anna-Liisa, e a Siiri parve di cogliere nella sua voce un tono lievemente accusatorio. «Speriamo solo che tu non finisca in galera.»

«Perché dici così?»

«Non hai capito che Virpi vuole fare ricadere su di te la responsabilità dell’incendio? Il portapillole serve a questo. Se tu, da brava, prendessi le pasticche, in poco tempo andresti totalmente fuori di testa, la tua testimonianza sarebbe carta straccia e tutto ti si rivolterebbe contro. Il risvolto positivo è che, grazie all’incendio, non abbiamo dovuto rapire Irma per riportarla nel suo appartamento. Quella sì che era un’idea balorda!»

Siiri provò a pensare a come sarebbe stato trascorrere i suoi ultimi anni dietro le sbarre. Immaginò di parlarne con Irma, come spesso faceva nelle situazioni difficili. In passato fantasticava di chiacchierare con suo marito, ma di recente la sua interlocutrice immaginaria era diventata lei. Le avrebbe senz’altro detto che la galera non era più terribile del Lieto Tramonto. E, una volta buttata sullo scherzo, la prospettiva della prigione non sarebbe più stata così male.

Si allontanarono da Jätkäsaari e da Ruoholahti. Passando per via Mechelinin, proseguirono verso Töölö e superarono il palazzo della Fondazione Reitz con il suo museo dove non andava mai nessuno e, al piano terra, il ristorante Elite, sempre molto frequentato. Quando Siiri era bambina, al posto di quell’edificio c’era un grande masso, sul quale giocava d’inverno.

Scesero alla fermata in piazza Töölö. Siiri si fermò per ammirare Casa Sandels, progettata da Juha Leiviskä, a cui Anna-Liisa non aveva mai prestato molta attenzione.

«Struttura moderna, piuttosto ordinaria.»

«No, non è così, è un edificio di rara bellezza, la luce entra ed esce in maniera suggestiva. Guarda quelle finestre!»

Anna-Liisa aveva smesso di ascoltare e, a capo chino, stava già scendendo lungo via Topelius.

L’ospedale di Töölö era in uno stato penoso, cadente all’esterno e all’interno un grande caos. Nei corridoi circolavano pazienti sotto l’effetto di sedativi ed erano ammucchiati sacchi della spazzatura. L’intonaco si staccava dalle pareti, vecchi computer, tavoli, sedie e letti erano accatastati in ogni dove, come se quel posto fosse un deposito e non un ospedale universitario. Un medico stava lavorando in mezzo a tutta quella confusione e chiunque passasse poteva vedere sullo schermo del pc il femore fratturato di un paziente.

Anna-Liisa e Siiri trovarono Irma al quinto piano, in una stanza per sei persone. Era coricata nel letto, stesa sul fianco sinistro. Indossava il camice rosa dell’ospedale e il suo aspetto era di gran lunga migliore di quello che aveva nel reparto d’isolamento, con quella maglietta sudicia con su scritto “sexy-qualcosa”. I capelli le erano stati lavati e pettinati: pareva quasi se stessa. Anna-Liisa rimase in piedi un po’ in disparte, ma Siiri, tutta felice, si andò a sedere accanto a lei sul letto prendendole la mano.

«Chicchirichì!»

Irma non la riconobbe. Non fiatò né sorrise. Gli occhi erano privi della loro luce, quella che Siiri aveva tanto sperato di scorgere.

«Irma! Sono con Anna-Liisa, siamo venute a vedere come te la passi in attesa di essere operata all’anca. Irma, sono Siiri, ti ricordi di me?»

Sembrava che non capisse dov’era né che cosa fosse successo. Non reagì in alcun modo. Turbata, Siiri si alzò e si avvicinò ad Anna-Liisa. Rimasero a lungo in silenzio a guardare la loro amica, aspettando che succedesse qualcosa. Anche Irma le fissava priva di espressione. Ma poi sul suo viso si diffuse un sorriso. Allungò entrambe le braccia verso Siiri ed esclamò: «Mamma! Sei venuta a trovarmi. Mamma, ho una sete terribile!»

Gli occhi di Siiri si colmarono di lacrime, non riuscì a dire nulla, si limitò a stringere la propria borsa e a deglutire.

«Irma vuole dell’acqua» disse Irma.

Solo quando Anna-Liisa le diede un colpo energico con il gomito, Siiri si mosse.

«Sì, certo, naturalmente, scusami.»

Con le mani che le tremavano, versò l’acqua nel bicchiere sul comodino e, affranta, si sedette di nuovo accanto al letto.

«Ecco, Irma, bevi. Al momento non ho altro da darti. Sono Siiri. Ti ricordi, Irma? Sono la tua buona amica Siiri... Vuoi che ti canti la canzoncina di August?»

Irma mandò giù l’acqua tutta d’un fiato, con grandi sorsi rumorosi, com’era solita fare nei rari casi in cui le andava di bere acqua. Svuotato il bicchiere, lo restituì a Siiri e la scrutò a lungo.

«Grazie.»

Chiuse gli occhi e si voltò dall’altra parte. Sembrava che volesse essere lasciata in pace. Siiri la coprì, le accarezzò la schiena, poi si alzò e fece un profondo sospiro. Confusa, guardò Anna-Liisa e, con sua sorpresa, vide che anche le sue guance erano bagnate di lacrime.

«Siiri, andiamo via. Qui non siamo di conforto a nessuno» disse, e voltò il girello in direzione della porta.