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Siiri Kettunen fu convocata per un interrogatorio alla stazione di polizia di Pasila ovest. L’ultima volta che aveva avuto a che fare con la polizia era stato nell’autunno del 1946, quando tentarono di strapparle informazioni su un nascondiglio di armi, però nemmeno allora si era agitata tanto come in quel momento.
Per fortuna Anna-Liisa andò con lei. Si sentiva in parte responsabile per quell’interrogatorio, era stato l’ambasciatore a sporgere denuncia per l’incendio e di conseguenza ora Siiri era finita nei guai. L’ambasciatore le accompagnò fino alla porta d’ingresso e tenne loro un lungo discorso.
«La polizia è dalla nostra parte. Abbiate fiducia in voi stesse e da questa vicenda nasceranno grandi cose. In nome della legge e della morale, avete una grande responsabilità, ricordatelo. Ho chiesto giustizia e voi sarete le mie delegate» disse con voce vibrante. Baciò Anna-Liisa su una guancia e strinse solennemente la mano a Siiri, come se stessero partendo alla scoperta del nuovo mondo. Lasciò dietro di sé un piacevole profumo di dopobarba.
Siiri non era capace di parlare senza dire la verità. Negli interrogatori della Valpo nel dopoguerra le circostanze erano diverse. All’epoca si agiva per il bene della madrepatria e il suo compito era proteggere amici e parenti. Eppure, anche allora, mentire era stato inutile. Molti uomini valorosi erano comunque finiti in prigione.
Più volte aveva ripassato a mente i fatti dell’incendio. Non poteva sostenere sotto giuramento che la persona che correva nel cortile fosse Erkki Hiukkanen. Dopo quella notte, non si era più visto nei corridoi. I condotti di ventilazione e gli scarichi potevano finalmente otturarsi in pace, il custode era occupato a braccare Siiri. Più ci pensava, più tutto le sembrava confuso. Tuttavia voleva credere che il malfattore, chiunque fosse, avrebbe pagato.
«Non è detto» disse Anna-Liisa, mentre passavano sotto il Ponte dell’Orologio di Pasila est. «Parecchi veri criminali non vengono mai catturati. Sarebbe un fatto ragguardevole se, con la tua deposizione, riuscissi finalmente a far capire alle autorità che razza di gioco si svolge dietro le quinte del Lieto Tramonto.»
La centrale di polizia era uno di quegli edifici deprimenti che a Pasila, sia est che ovest, stavano uno di fianco all’altro. Nell’atrio c’era un banco accettazione, proprio come in banca. Siiri prese il numerino e si sedette con la sua amica in mezzo a criminali di vario tipo. Siiri si guardava intorno preoccupata, Anna-Liisa invece si immerse nella lettura di Topolino.
«Ehi tu, ziastra!»
«Come, scusa?»
«Amelia chiama “ziastro” Paperon de’ Paperoni» spiegò Anna-Liisa. «Una maniera buffa di chiamare un vecchio papero. Guarda, qui c’è una parte in cui la polizia va a casa di Paperino a prendere i nipotini, si ricollega un po’ al nostro tema del giorno. È davvero espressivo, Paperino intendo, e le sue parole sono un esempio del linguaggio ricco di sfumature di questo giornalino. Senti un po’: “Quel difensore della legge col chepì trascinò in galera i miei nipotini sotto gli occhi di un intero quartiere”. Non solo a te capitano cose tanto brutte!»
Quando arrivò il loro turno, venne fuori che si trovavano nel posto sbagliato. Una poliziotta gentile le accompagnò in ascensore fin dove avrebbero dovuto già essere, al terzo piano, in una stanzetta in cui stava seduto un uomo molto giovane. Indossava abiti civili, portava la cravatta e si presentò un po’ timidamente.
«Ispettore Kettunen, molto piacere.»
«Dottoressa in Lettere Petäjä, piacere mio» rispose Anna-Liisa, e capì che doveva sedersi vicino alla parete.
«Anch’io sono Kettunen!» gridò festosamente Siiri, ma quando vide che il poliziotto rimaneva serio, chiese scusa, era comunque improbabile che fossero parenti. In Finlandia il cognome del suo defunto marito era piuttosto diffuso. Da ragazza si chiamava Närviö, ma preferiva di gran lunga essere una Kettunen qualsiasi. Närviö non le era mai piaciuto, era artificioso. L’aveva inventato suo nonno, fennomane convinto, quando nel 1880 decise di essere tra i primi a tradurre in finlandese il proprio cognome, Neovius. Un nome che, di suo, non apparteneva ad alcuna lingua, ma era solo un nome di famiglia dalle risonanze latine ideato per un certo Nyman, il quale, nel 1700, era andato a studiare a Turku.
«Ha un documento d’identità?» chiese il poliziotto.
Era assorto a guardare i fogli sparsi sul tavolo, davvero tanti. Li leggeva esattamente come avrebbe fatto un medico con le carte di un paziente, come se quei documenti non li avesse mai visti prima. Siiri tirò fuori dalla borsa la tessera della previdenza sociale ma, a quanto pareva, non era un documento d’identità. Dopo aver cercato ancora, trovò la patente, di cui da tempo non aveva più bisogno.
«Che cos’è questa?» domandò l’ispettore.
Siiri teneva la sua patente di carta rosa in una custodia di plastica, c’era un timbro macchiato e una foto risalente al 1978, anno in cui aveva dovuto rinnovarla. L’agente era dell’idea che, benché rinnovata, fosse comunque scaduta. Adesso le patenti avevano un aspetto completamente diverso, e per sicurezza le mostrò la propria, una tesserina di plastica simile a un bancomat. Siiri dunque non disponeva di un documento d’identità.
«Neppure il passaporto?» insistette, e Siiri si domandò che cosa potesse mai farci lei con un passaporto. Il suo ultimo viaggio risaliva agli anni Cinquanta, quando aveva preso la nave Oihonna per Amburgo. Non era forse felicemente sposata con un veterano di guerra, uno di quelli che, per guarire dai traumi, andavano per mare a spese dello Stato? Allora Anna-Liisa tirò fuori dalla borsa il proprio passaporto. Era nuovo di zecca, già da marzo se l’era procurato per il suo viaggio a Tallinn, senza dire nulla a Siiri.
«Adesso non è il momento di discuterne» ribatté all’amica, e si rivolse al poliziotto. «Posso certificare io la sua identità. Del resto, abbiamo già fatto chiarezza sul suo albero genealogico.»
L’ispettore accettò la proposta, ma poi mandò Anna-Liisa ad aspettare in corridoio. Leggiucchiò di nuovo i fogli che aveva davanti e, dopo aver fatto passare un bel po’ di tempo, tanto che Siiri era arrivata a contare i raccoglitori sulla libreria per ben due volte, l’interrogatorio ebbe inizio. Le chiese delle ovvietà del tipo «si ricorda come si chiama?», «in che mese siamo?», «chi è il presidente della Finlandia?» Per sicurezza Siiri li elencò tutti, da Ståhlberg a Niinistö. Disse di ricordare perfino il suo codice pin, per il quale aveva escogitato uno stratagemma mnemonico: il secondo numero era il primo al cubo, il terzo era il loro prodotto diviso tre, e il quarto era la somma dei primi due meno tre.
«Oddio! Adesso lei conosce il mio pin, mentre non si dovrebbe farlo sapere a nessuno! Ma ovviamente lei è una persona fidata, perché è un poliziotto. Ha capito, vero, che l’elemento chiave del mio trucchetto è ogni volta il tre?»
L’ispettore Kettunen interruppe quel suo ragionamento e passò finalmente a parlare dell’incendio. Voleva sapere in che giorno fosse scoppiato, in quale area della residenza per anziani e come mai se ne fosse accorta. Siiri raccontò che alle due e mezzo di notte si trovava davanti alla porta del reparto isolamento e che subito si era accorta che dall’interno proveniva del fumo. Dopo un attimo di esitazione, riferì anche di essere entrata adoperando la chiave, perché l’infermiera non si era svegliata alle sue grida.
«Dunque, da quel che capisco, è stata poi l’infermiera a chiamare aiuto, su sua esortazione.»
Il poliziotto non sembrava affatto stupito che Siiri si aggirasse di notte per i corridoi del Lieto Tramonto né era interessato a sapere dove lei avesse preso le chiavi del reparto d’isolamento. Ma come poteva un giovanotto del genere immaginare che razza di posto fosse quello, o quali fossero i suoi regolamenti? Le chiese se aveva visto qualcuno all’esterno.
«A mio avviso, fuori c’era una persona che correva... un uomo» disse Siiri senza aggiungere altro.
L’ambasciatore sarebbe rimasto molto deluso che lei non avesse sfruttato l’occasione per dichiarare Erkki Hiukkanen colpevole dell’incendio. L’agente non sapeva che altro chiedere e nella stanza calò un silenzio imbarazzante. Si sentiva solo il ronzio delle apparecchiature di ventilazione. Poiché l’uomo non sembrava scuotersi dal suo torpore, Siiri cercò di distendere l’atmosfera raccontando la storia dell’artista Sigrid Schauman. Anche a lei, negli anni Sessanta, a seguito di un incidente era capitato di essere interrogata dalle autorità, e quando le avevano domandato se avesse mai avuto a che fare in passato con la polizia, aveva risposto: «Certo. Quando mio fratello ha sparato a Bobrikov.»
Il giovane ispettore la guardò con occhi privi di espressione, quasi come quelli di Irma nei giorni peggiori al reparto d’isolamento. Forse non ricordava chi fosse Sigrid Schauman, o Bobrikov. Siiri allora pensò all’ambasciatore, e ad Anna-Liisa che se ne stava seduta in corridoio. E quando poi nella sua mente apparvero prima Mika con il suo zaino e quindi Irma, che gemeva con la magliettina sudicia sulla sedia a rotelle, non fu più in grado di trattenersi e, senza alcun freno, vuotò il sacco. Ne venne fuori un lungo sfogo. Inizialmente l’agente la guardava sconcertato, poi con crescente concentrazione. Era mancino, prendeva appunti con la mano messa in una strana angolazione e ascoltava con un’aria particolarmente interessata.
«Voi sicuramente avrete da qualche parte, in uno di quei centotrentotto raccoglitori, anche la denuncia per la violenza a Olavi Raudanheimo. E questo Pasi dovrebbe essere una vostra vecchia conoscenza, Mika ha detto così, anche se non ricordo come faccia di cognome. Per quel che ho capito, Pasi è stato interrogato diverse volte e dovrebbe finire in galera.»
Dopo aver terminato il suo fiume di parole, il cuore le batteva forte e le mani le tremavano.
«Ha detto che la caporeparto l’ha lasciata distesa sul pavimento nel suo ufficio. Quando è successo? E di che dimensioni era il pacchetto apparso sopra la sua cassetta postale, quello su cui non erano indicati né il destinatario né il mittente?»
Siiri non ricordava di aver parlato del pacchetto. Non fu in grado di dire quando fosse comparso, ma l’episodio nella stanza di Virpi era indubbiamente avvenuto nello stesso giorno. Allora, quando era successo? Si sentì debole e chiese un bicchiere d’acqua. Ma prima ancora che il poliziotto si alzasse, le si annebbiò la vista.
La stazione di polizia piombò nel caos quando la signora di novantaquattro anni sottoposta a interrogatorio svenne. L’ispettore Kettunen dapprima credette che la vecchina fosse morta sul pavimento del suo ufficio. Si chinò prudentemente alla ricerca di segni di vita e, poiché respirava, seppur debolmente, telefonò a un suo collega per chiedere consiglio. Questi lo aggredì, cosa aspettava a chiamare il 112? Passò un’eternità prima che qualcuno gli rispondesse, poi gli fecero un sacco di domande alle quali non sapeva rispondere.
Il poliziotto cominciò a perdere la pazienza, per cui anche la signorina del centro per le emergenze s’innervosì. L’ispettore era la settantasettesima persona che chiamava quel giorno e in più aveva anche la sfacciataggine di arrabbiarsi, mentre lei stava solo facendo il proprio lavoro esattamente come gliel’avevano insegnato al centro di addestramento Vuokatti – e per giunta, all’esame finale, aveva ricevuto i voti migliori, malgrado i candidati fossero più di cento, provenienti da ogni parte del paese.
Il poliziotto perse definitivamente la calma e cominciò a urlare nel telefono a voce così alta che l’altra vecchina, che lui aveva spedito in corridoio, comparve sulla porta per vedere cosa stesse succedendo. Gli strappò di mano la cornetta e iniziò a dare istruzioni alla tipa del centro, in maniera talmente determinata che la telefonata terminò in un battibaleno.
«L’ambulanza sta arrivando» disse con una smorfia quell’anziana signora con il cappellino in testa, e ordinò al poliziotto di portare dell’acqua.
La nonnina che giaceva a terra riprese conoscenza, bevve un goccio d’acqua e, aiutata dalla sua amica, riuscì a mettersi a sedere. L’agente se ne stava in piedi smarrito e guardava nervosamente l’orologio. Non sapeva che cosa bisognasse fare in situazioni del genere, a parte presentare un reclamo per la lentezza dell’ambulanza. Il collega lo chiamò in corridoio per rimproverarlo e, in poco tempo, metà della centrale accorse sul posto per vedere come i paramedici trasportavano fuori dalla sua stanza in barella una mezza morta di quasi cento anni.
«Ben fatto, Siiri Kettunen!» disse Anna-Liisa nell’ambulanza, e le strinse forte la mano. Il cappellino rosso era storto, i capelli scarmigliati e sembrava un po’ accalorata. A un braccio di Siiri avevano attaccato due tubicini e un paramedico le si affaccendava attorno in quel minuscolo spazio.
«È cosciente» disse, ma Siiri non si prese la briga di presentarsi, aveva già imparato che i paramedici non perdevano tempo con le buone maniere. «Portiamola alla residenza!»
L’ambulanza sfrecciava a gran velocità e a sirene spiegate lungo via Mannerheim, proprio come se lei fosse in pericolo di vita.
«Perché avete messo le sirene?» chiese.
«Per distrarci un po’. Così è più divertente.»
Siiri pensava fosse da prepotenti disturbare il traffico in quel modo. Si vergognò, provò imbarazzo e si dispiacque. Anche per quel giro in giostra, prima o poi, le avrebbero presentato il conto.