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Dopo aver saputo della morte di Tero, Siiri non era più andata a mangiare in mensa. Alla sua età non aveva più bisogno di molto cibo, l’importante era che si ricordasse di bere anche qualcos’altro oltre al vino rosso. Al supermercato, poi, si poteva comprare il pasticcio di fegato e riso con uno sconto del trenta per cento, quando aveva una scadenza ravvicinata. Siiri pagava sempre i suoi acquisti in contanti, non si fidava degli apparecchi tecnologici dei negozi e nemmeno delle carte. Preferiva prelevare i suoi soldi da uno sportello con il bancomat, quella era una cosa facile. Per non dimenticare il codice pin aveva sviluppato una regola matematica: il secondo numero era il primo al cubo, il terzo era il loro prodotto diviso per tre, il quarto era la somma dei primi due meno tre. Quanto a Irma, non c’era verso che ricordasse il suo.
«E ora, qui devo digitare quello 0668?» chiese al momento di pagare il pasticcio in offerta al supermarket Alepa, che si trovava nella parte alta di Munkkiniemi ed era pertanto soprannominato Altalepa. La cassiera aveva inserito la sua carta in un piccolo dispositivo.
«Chiede il codice pin» le aveva spiegato, ma a Irma la cosa non era stata d’aiuto.
«Ma il mio pin è 0668? Ehm, no, forse è il codice della previdenza sociale.»
«No, quello non serve» disse la cassiera, lanciando un’occhiata verso la fila che si era formata alle loro spalle.
«Tanto non lo conosco nemmeno» replicò Irma preoccupata. «Magari provo con 0668. Mi pare che la parte finale del mio codice di previdenza sia 132H, ma su questa macchinetta non ci sono lettere, o sono io che non le vedo? Perché...»
«Qui il codice della previdenza non serve» la interruppe la donna.
La macchinetta non accettò il pin di Irma. La gente in fila dietro di loro allungava il collo per vedere come mai ci mettesse così tanto tempo. Siiri prese il borsellino di Irma e, in una taschina, trovò un grosso post-it con su scritto 7245.
«Eccolo qui!» disse Irma allegra come se avesse rivisto un caro amico, ricordandosi in quell’istante perché il biglietto fosse tanto grande. «Così lo vedo pure senza occhiali. Ma che cosa sarà mai 0668?»
Come Irma spensieratamente usava dire, forse un giorno o forse mai lo avrebbero scoperto. Presero i loro pasticci precotti e tornarono al Lieto Tramonto per ritirarsi a cenare nell’appartamento di Irma e organizzare i preparativi per il funerale di Tero.
Il progetto di Irma di una grande scampagnata d’autunno stava per realizzarsi, perfino la nuova coppia della scala A aveva dato la propria adesione. Irma e Anna-Liisa erano così agitate che erano state all’ambulatorio per farsi dare una confezione di tranquillanti. Le aveva accolte un medico dalla pelle scura, il cui nome non si capiva se fosse da uomo o da donna, né aiutava a capire da dove venisse.
«Gioca a basket?» gli aveva chiesto Anna-Liisa a voce alta scandendo bene le parole, ma quello non aveva capito che cosa intendesse. Irma si era allora affrettata a spiegare il motivo della loro visita, mentre Anna-Liisa l’interrompeva ogni volta che trovava opportuno correggerla.
«...e questo Pasi lavorava da noi come cuoco ormai da più di dieci anni, senza dubbio capirà cosa significhi per noi tale perdita...»
«Il nome del cuoco era Tero, Tero Lehtinen, non Pasi. E non è possibile che sia stato al Lieto Tramonto per dieci anni, cara Irma, perché nemmeno noi siamo qui da tutto questo tempo.»
«Lo vede! Lo vede quanto siamo confuse!» aveva esclamato Irma, e allora il medico aveva scritto una ricetta per ciascuna, chiedendo che la volta successiva tornassero separatamente.
Siiri non aveva alcuna intenzione di toccare quelle pillole, neanche per il funerale di Tero, anche se piangeva la morte del cuoco più di quella del suo gatto, che se n’era andato due anni prima. Ora le dispiaceva di non averne preso un altro. All’epoca era convinta che sarebbe morta molto presto, probabilmente già la settimana successiva, e il gatto sarebbe diventato un problema, nonostante Irma le avesse proposto di lasciarle la bestiolina in eredità.
Sul giornale avevano letto di gatti robot giapponesi che facevano compagnia agli anziani. In quel modo si risparmiavano un sacco di soldi, non c’era più bisogno d’ingaggiare infermieri o assistenti. Nella foto dell’articolo, i pallidi vecchietti giapponesi, anche loro simili ad automi, sedevano con quei gatti in grembo e Siiri si era domandata perché mai i gatti dovessero essere dei robot.
«I gatti veri sarebbero sicuramente più economici, no?» si chiese ripensando a quella faccenda.
Irma iniziò a calcolare quanto sarebbe costato prendersi cura dei gatti. Sicuramente molto più che degli anziani. La Finlandia era un paese pieno di animalisti e di attivisti vari, per cui la gestione degli animali era un’attività strettamente sorvegliata. Dovevano essere garantiti spazio a sufficienza, tranquillità, luce solare, regolari passeggiate all’aria aperta, svaghi specifici per ogni specie, alimentazione diversificata e altre cose del genere, che per gli anziani era inutile anche solo sognare.
«Perfino i polli oggigiorno sono liberi e felici grazie agli attivisti!»
«Dal finestrino del tram, ho visto in via Snellman un negozio di solo cibo per cani» raccontò Siiri, e risero allegre all’idea che nel posto in cui oggi si trovava quella gastronomia per cani, quando erano giovani ci fosse stata probabilmente una macelleria che vendeva alle persone quattro ossi in croce.
«Cosa indosserai per il funerale?» domandò Irma tutt’a un tratto, come se in una circostanza simile fosse possibile indossare qualunque cosa. Negli ultimi dodici anni Siiri era andata a tutti i funerali sempre con lo stesso vestito di lana nero, ma l’amica aveva così tante opzioni che desiderava sentire la sua opinione.
«E ora, che la sfilata abbia inizio!» esclamò Irma scomparendo nel guardaroba, dopo aver versato a Siiri un po’ di vino rosso perché non si annoiasse nell’attesa. Dall’armadio si udirono tintinnii, rumori sordi e qualche minuto più tardi Irma riapparve piroettando in soggiorno con un vestito nero ampio e un cappellino tondo dalla calotta piatta e rigida.
«L’abito è troppo grande, ti sei raggrinzita» osservò Siiri.
Irma si fermò, allungò una gamba in avanti e si guardò da sopra la spalla nello specchio dell’ingresso.
«Hai ragione.»
Molti anziani non si prendevano la briga di comprare dei vestiti nuovi a mano a mano che si facevano più esili, con il risultato che gli abiti penzolavano in maniera goffa. Le persone in età avanzata non hanno la forza di prestare attenzione a questi dettagli, ma Siiri sì. Anzi, più invecchiava, più desiderava prendersi cura di sé. Ogni settimana andava dal parrucchiere e due volte all’anno faceva la permanente. Era difficile lavarsi e sistemarsi i capelli da sola, e oltretutto andare dal parrucchiere rappresentava quel piccolo gesto di attenzione che amava concedersi di tanto in tanto nella vita.
«Già, tu ti ricordi pure di strapparti i peli dal mento ogni mattina» commentò Irma guardandosi preoccupata allo specchio.
Al Lieto Tramonto si vedevano fin troppi anziani dall’aspetto penoso. Potevano essere stati ispettori, capi distrettuali, infermieri, impresari edili o insegnanti ma, a conti fatti, finivano sempre per trascinarsi alle serate del coro con i pantaloni della tuta sporchi e un bavaglino al collo. A volte sembrava che non avessero conservato nulla di un sano rispetto per se stessi.
Rinunciare a qualcosa era inevitabile, ma arrendersi no. Siiri e Irma ne avevano parlato spesso. Il mondo girava fin troppo intorno al lavoro e poi, una volta in pensione, nessuno si godeva l’agognata libertà. Si diventava prigionieri della propria età, di interminabili giornate vuote. Non c’era da stupirsi che la generazione dei loro figli rifiutasse la vecchiaia con tutte le forze. Ogni giorno sul giornale si leggeva di un qualche pensionato che dichiarava di non essere ancora pronto per la sedia a dondolo.
«Cosa c’è di male nella sedia a dondolo?» chiese Irma. «Io mi cullo tutti i giorni sulla mia ed è così divertente. Alla radio ho sentito dire che dondolarsi fa bene al cervello. Perlomeno a quello dei bambini.»
«Ciò che fa bene ai bambini fa bene anche a noi» disse Siiri, per poi tornare al suo argomento ricorrente: le persone in età lavorativa dovevano capire che la carriera rappresenta solo una piccola parte dell’esistenza. Se i suoi figli avessero lavorato meno, non si sarebbero consumati prima della pensione, almeno il più piccolo non di certo.
«E tutti diventiamo sempre e comunque degli ex» aggiunse. «Ex tipografo, ex operatore radiofonico, ex correttore di bozze. Pensa che il mio lavoro non esiste nemmeno più!»
Nella sua vita Irma si era concentrata sulle cose importanti. Aveva studiato per diventare infermiera, ma per i bambini era rimasta a casa. Non mancava mai di ripetere che dei suoi sei figli, solo l’ultima era stata messa al mondo di proposito. Siiri sospettava che agli altri cinque, nati accidentalmente, forse non avrebbe fatto piacere sentire quella storia, ma Irma la pensava diversamente.
«Anche un figlio inaspettato è un figlio amato!» gridò con voce stridula da dentro al guardaroba. «Oltretutto, nessuno di noi aveva metodi di contraccezione, ce li saremmo dovuti procurare dall’altra parte del ponte. I bambini nascevano, andava così. Gli altri semplicemente non ne parlano come me perché io, quanto meno, ne ho fatta una di proposito. E i tuoi, com’è che sono venuti al mondo?»
Siiri aveva sempre desiderato una famiglia numerosa ed era stata fortunata, aveva avuto tre bimbi sani. Ma Irma aveva ragione. I figli semplicemente nascevano, non si programmavano. In passato la gravidanza era temuta e ora invece servivano costose cliniche per la fertilità perché la gente non riusciva più a procreare.
Irma fece nuovamente la sua comparsa, piroettando intorno al tavolo da pranzo. Indossava un’elegante giacca nera e una gonna splendidamente plissettata.
«Questo completo va bene. Quand’è che l’hai comprato?»
«L’ho preso per il funerale di mio genero. Aspetta, da quella volta però sono già passati cinque anni. Non è possibile, devo averlo comprato appena un anno fa, ma non ricordo più per il funerale di chi. Forse per quello di mio cognato.»
In fatto di funerali, gli ultranovantenni non lasciano nulla al caso. Il venerdì sera Siiri e Irma avevano già organizzato tutto con puntuale precisione: i fiori erano stati ordinati da quella ragazza simpatica che aveva il negozio nel quartiere di Katajanokka, i vestiti erano stati sistemati con cura e le medicine di Irma erano state dosate nel portapillole, custodito accanto al cartone del vino sul mobile del lavello. Sin dal mattino Siiri aveva messo sulla sedia dell’ingresso il suo cuscino verde per ricordarsi di portarlo con sé, le sedie della cappella erano davvero molto dure. Avevano anche deciso di andare a dormire prima del solito, o comunque di mettersi a letto a leggere, e si augurarono la buonanotte.
«Vedi di non morire proprio stanotte. Senza di te mica ci vado» disse Siiri.
«Tic tac, tic tac, tic tac!» La voce di Irma riecheggiò sorda per il corridoio.