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Era un pomeriggio molto tranquillo, in altre parole, assolutamente normale. Dopo pranzo si erano tutti ritirati per il riposino e verso le tre scesero in salotto per giocare a canasta. La partita pomeridiana non era una delle attività offerte da Villa del Lieto Tramonto. Era nata spontaneamente, quando i residenti si erano accorti che molti di loro amavano giocare a carte, e in particolare a canasta.
Irma mischiò il mazzo e distribuì undici carte per ciascuno. Considerava quel compito oltremodo spassoso ed era decisamente abile a mescolare e rapida a distribuire. Non giocavano a squadre perché ne venivano fuori solo discussioni e questo non avrebbe permesso a tutti di partecipare. Una volta che ognuno aveva le sue carte, il rituale si ripeteva sempre identico. Irma rivelava le sue gongolando per le pinelle e per i jolly, Anna-Liisa s’innervosiva per la confusione che faceva e Siiri, il tipografo e l’ambasciatore ordinavano le proprie carte in perfetto silenzio. L’ambasciatore sedeva alla sinistra di Irma, così da poter aprire la partita.
«Calo» disse, posando dinanzi a sé tre fanti. Irma restò a bocca aperta per quel colpo e Anna-Liisa si schiarì nervosamente la voce, anche lei mirava al tris di fanti. Al suo turno Siiri pescò dal mazzo un jolly, provò a non sorridere e scartò un quattro di quadri.
«Ti è capitato qualcosa di speciale?» domandò Irma. «Reino, tocca a te.»
Ma il tipografo non prese la carta dal mazzo, non sembrava neppure seguire il gioco, teneva semplicemente lo sguardo fisso avanti a sé, mormorando qualcosa e ammucchiando le carte tra le mani alla rinfusa. Tutti lo fissavano, in attesa.
«Olavi Raudanheimo... sulla sedia a rotelle e veterano di guerra! Se non me lo avesse raccontato lui in persona... dannazione, non può essere!»
Scosse la testa e gridò così forte che la saliva gli schizzò fuori dalla bocca e le carte volarono sul pavimento. Si dimenò e strepitò, finché non cadde di schianto, privo di forze, e iniziò a piangere. Quell’uomo grande e grosso, di solito sempre allegro, piangeva singhiozzando come un bambino e tremava in tutto il corpo. Era una cosa spaventosa. Irma gli offrì il proprio fazzoletto, Siiri lo prese per mano e si chinò verso di lui, chiedendogli quale fosse il problema. Anna-Liisa si scostò con la sedia dal tavolo e guardò con occhi severi quell’uomo che piagnucolava e farfugliava.
«Articola per bene le parole» gli disse. «Non si capisce nulla di quello che dici.» Aveva ragione, ma il tipografo piangeva sempre più disperato, gemeva e mugolava, e nessuno capiva cosa stesse dicendo.
Olavi Raudanheimo era il vicino di Reino nella scala C. Abitava in un monolocale e si muoveva in carrozzella, ma si vedeva di rado. Qualche volta Reino lo portava fuori al parco più vicino perché Olavi non si sentiva a proprio agio nelle occasioni conviviali del Lieto Tramonto. Era piuttosto un tipo da lettura, cruciverba e tg alla radio. Aveva perso tutte e due le gambe in guerra e la sua retta veniva pagata dallo Stato.
«Olavi è morto?» chiese Irma concitata.
«Nonono, magari...» rispose Reino grattandosi e soffiandosi rumorosamente il naso con il fazzoletto in pizzo di Irma. «Un uomo anziano che deve sopportare una cosa del genere, maledizione!»
«È un vecchio fazzoletto di mia madre...» disse Irma guardando preoccupata quel fagottino bagnaticcio, «ma non m’importa di quello straccetto» proseguì sorridendo. Provava sempre a rallegrare l’atmosfera, qualunque fosse la situazione. «Già, noi non moriremo mai! Tic tac, tic tac, tic tac. Toh! Lì c’è una carta, è un re. Olavi è caduto nel suo appartamento? Gli è forse venuto un ictus? O è morto uno dei suoi figli? Tocca a me? Di prendere la carta, intendo.»
«È stato violentato! Olavi è stato violentato ieri sera in casa sua!» gridò Reino, e subito calò il silenzio. Poi sospirò e tornò a singhiozzare. Irma lasciò cadere le carte sulle gambe e Siiri guardò perplessa Anna-Liisa senza lasciare la mano di Reino, mentre l’ambasciatore si concentrava sulle sue carte come se nulla fosse successo.
«Ma un uomo non si può violentare!» disse alla fine Siiri.
«Non è anche il titolo di un libro di Märta Tikkanen?» riflettè ad alta voce Irma, giocherellando con la sua collana di perle. «Non si possono violentare gli uomini, sì, ecco, penso si chiami proprio così. L’hai letto? Per quel che ricordo, io no. Certo, i libri di Henrik Tikkanen li ho letti, quelli dedicati alle strade, Mariankatu e Majavatie e anche altri, perché Tikkanen era compagno di classe di mio fratello. Siiri, ma non si chiamava Tikkanen anche la tua donna delle pulizie, quella che poco tempo fa è morta di cancro? A mia cognata proprio non piaceva quando Tikkanen parlava delle cose intime degli altri, cioè, mi riferisco a Henrik Tikkanen, non alla tua donna delle pulizie. Non è morto anche lui di cancro? In quel romanzo sul quartiere di Kulosaari, c’era quella ragazza morta di tumore dopo la scuola, era in classe con mia cognata, e allora...»
«Stai zitta una buona volta!» l’interruppe piuttosto sgarbatamente Anna-Liisa, anche se Siiri l’avrebbe ascoltata volentieri per capire di quale ragazza stesse parlando. Quella storiella non l’aveva mai sentita prima, ma proprio in quel momento Reino si alzò in piedi in tutta la sua altezza e la sedia cadde per terra rumorosamente.
«Olavi Raudanheimo è stato violentato ieri nella doccia!» gridò ancora più forte di prima. Aveva un’aria spaventosa. Quell’omone in pantaloni della tuta che gridava, con la camicia sporca svolazzante sui fianchi e la barba mal rasata, aveva il viso pieno di lacrime e rabbia.
«Questo l’avevamo già capito» disse con calma Anna-Liisa. «Che cosa intendi dire, esattamente, con “è stato violentato”? Bisogna ricordare che una violenza è sempre un esercizio di potere. Non necessariamente ha a che fare con godimento o desiderio, se capite a cosa mi riferisco. Un abuso è legato a umiliazione e sottomissione.»
«A chi tocca?» chiese seccato l’ambasciatore. Avrebbe voluto che la partita continuasse, gli erano capitate buone carte.
Reino provò a sollevare la sedia caduta a terra, ma s’innervosì perché non riusciva a tirarla su e iniziò di nuovo a sbraitare. «Quel dannato infermiere... finocchio, satanasso! Ieri mattina, quando gli ha fatto la doccia... è stato Olavi a dirmelo, dannazione!»
«Reino, siediti. Hai detto che è successo di sera o di mattina? Qualcuno potrebbe aiutarlo con quella sedia?» chiese Anna-Liisa, che da ex insegnante era abituata ad avere a che fare con piantagrane esagitati. Irma fu la prima a ubbidire, rimise in piedi la sedia e provò a mettere Reino seduto. Non fu facile, lui opponeva resistenza, tremava e si strofinava ossessivamente il viso con la manica.
«An, auf, hinter, in... Tris rosso» canticchiò l’ambasciatore continuando a giocare da solo. Le carte di Irma e Reino erano sparse sul pavimento, mentre Siiri stringeva ancora in mano le sue, tanto che le dita le facevano male.
«Non mi ricordo, non lo so. Fa lo stesso» rispose Reino che finalmente, dopo essersi tranquillizzato, si era messo a sedere. Respirò a fondo e si soffiò di nuovo il naso nel fazzoletto di pizzo. «Ma, santo cielo, un veterano di guerra... che non riesce nemmeno a lavarsi da solo.»
«Perché il signor Reino è tanto arrabbiato?»
La caporeparto Virpi Hiukkanen andò loro incontro. Prima d’allora nessuno l’aveva mai vista correre, ma questa volta si era affrettata tanto che si potevano chiaramente udire le sue ciabatte rimbombare sul pavimento. Afferrò saldamente Reino per un braccio e fu allora che il tipografo si arrabbiò per davvero. Il girello fu scaraventato via, il mazzo di carte volò per aria, la sedia cadde di nuovo e perfino Virpi si spaventò. Con una velocità sorprendente, una squadra di infermiere si materializzò dal nulla. Erano tutti volti sconosciuti, a eccezione di Virpi, la cui voce sottile ma tagliente spiccava nel baccano generale.
«Ricoverate il paziente al reparto d’isolamento, somministrazione immediata del farmaco!»
«Izvinite! Ostorožno!»
Quattro infermiere di origine russa lo afferrarono e Reino, che da residente era ora diventato paziente, venne portato via per essere sedato. Il tipografo gridò una serie di oscenità sputacchiando dappertutto e la sua voce echeggiò a lungo nel corridoio che conduceva al reparto d’isolamento. Irma raccolse le carte da terra benché facesse fatica a chinarsi, era grassoccia e prosperosa. L’ambasciatore si chinò a sua volta affrettandosi a darle una mano, e approfittandone per dare una sbirciatina nella sua ampia scollatura.
«Secondo me, “dannato” e “dannazione” non sono parole così brutte» disse Irma ansimando con il viso paonazzo dopo aver appoggiato il mazzo di carte sul tavolo. E poi, ancora una volta, raccontò di quando suo marito Veikko aveva cercato di fissare con il trapano una mensola alla parete, ma quella gli era caduta addosso con i libri e tutto il resto e a lui era sfuggito un “dannazione”. La madre di Irma lo aveva sentito ed era inorridita perché, a suo avviso, un buon genero si sarebbe limitato a dire semplicemente “diavolo”. «Ma io non sono per nulla d’accordo. Diavolo è una parola ben più brutta di dannazione» affermò Irma, che concludeva sempre la storia ribadendo quella sua convinzione.
Su richiesta dell’ambasciatore, decisero di iniziare una nuova partita, così Irma tornò a mescolare il mazzo e a distribuire le carte. L’ambasciatore voleva rifarsi delle due canaste pulite che aveva perso a causa del trambusto provocato da Reino.