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Di ritorno dal parrucchiere, Siiri Kettunen incrociò accanto agli ascensori un uomo che non conosceva ma che aveva un’aria familiare. Per sicurezza – sarebbe stato imbarazzante se si fosse ricordata di conoscerlo solo dopo –, lo salutò e si presentò, come faceva sempre in casi simili.
«Antti Raudanheimo» rispose l’uomo con i capelli leggermente brizzolati e la postura eretta. Doveva essere il figlio di Olavi. Lo stesso viso sottile e il naso dritto.
Era un tipo sveglio, disse di essere riuscito a salvare il padre dal reparto d’isolamento facendolo spostare nell’ospedale di Meilahti, dov’era ancora ricoverato. Parlò di un «terribile episodio», e Siiri sapeva che si riferiva alla violenza nella doccia anche se lui non aveva usato quella parola. Tuttavia, era accaduto un fatto davvero grave, una forma di abuso, e il figlio di Olavi intendeva sporgere denuncia. Aveva provato a discuterne con la direttrice, ma lei si era rifiutata di credere che una cosa così orribile potesse essere successa nella sua residenza.
«Sinikka Sundström è molto cortese, ma forse non è al corrente di tutto quello che capita qui» spiegò Antti Raudanheimo.
Rimasero a lungo nell’atrio a chiacchierare di Olavi e Siiri cominciò ad agitarsi. Non riusciva più a mantenere la concentrazione su quanto le stava dicendo Antti, continuava a controllare con lo sguardo il corridoio degli uffici e quello alle sue spalle. Non si vedeva anima viva, ma lì anche le pareti avevano orecchie, allora afferrò il ragazzo di Raudanheimo per un braccio tirandolo più vicino a sé.
«Credo che non sia il caso di parlare qui di queste cose» bisbigliò.
L’uomo la guardò sbigottito.
«Che altro c’è, oltre a quello che è successo a mio padre?»
Siiri gli chiese di salire da lei. Non lo conosceva né si ricordava di aver mai invitato prima d’allora un uomo in casa sua, ma sembrava una persona affidabile, un tipo per bene che parlava guardando dritto negli occhi con un’equilibrata voce baritonale. Antti entrò nel suo appartamento ma non si tolse la giacca. Si sedette accanto al tavolo e parlò a lungo, meditando ogni parola. Nella descrizione dei particolari era quasi più pedante di Anna-Liisa e a tratti Siiri temette di appisolarsi. Per fortuna non si era seduta sulla sua accogliente poltrona, ma su una sedia scomoda che cigolava a ogni movimento. Fra stanchezza e scricchiolio, non riusciva a memorizzare tutto quello che lui le raccontava, e sapeva che più tardi Irma si sarebbe arrabbiata con lei per quella sua distrazione. Comunque, ciò che le rimase chiaro in mente era che il figlio di Olavi aveva portato via suo padre dal reparto d’isolamento dov’era stato spostato, esattamente come aveva sostenuto Irma.
«Sa se lì c’era anche l’amico di suo padre, il tipografo Reino Lukkanen? Un uomo grande, che porta sempre pantaloni della tuta e la barba incolta.»
«No, non lo so» rispose Antti dispiaciuto. «Non c’è modo di scoprire chi siano quei poveri diavoli lì dentro. Nella stessa stanza di mio padre c’era un altro uomo che dormiva, ma chi può dire da quanto tempo fosse lì o cosa indossasse. Di certo, sia mio padre sia tutti gli altri erano decisamente mal rasati. Chi si prenderebbe la briga di fare la barba a dei reclusi?»
Siiri cercò nella dispensa una bottiglia di vino rosso, ma al figlio di Raudanheimo non andava di bere dell’alcol a metà giornata.
«Sì, nemmeno io bevo molto, ma pare che il vino rosso faccia bene. Contiene sostanze che rallentano l’invecchiamento. Ne prenda almeno un goccio» provò a insistere, ma lui le rispose che aveva fretta di ritornare al lavoro.
Siiri si alzò per accompagnare il suo ospite e lo scortò in ascensore fino al piano terra. Antti le raccontò che voleva lavorare ancora tre anni prima di andare in pensione, che aveva due figli grandi e una moglie splendida. Quando si salutarono le sorrise e la sua stretta di mano virile la rassicurò. Dopo quella visita Siiri si sentiva pittosto agitata. Un bicchiere di vino le avrebbe fatto davvero bene. Indecisa sul da farsi, se ne stava immobile nell’atrio, crucciandosi che la mensa del Lieto Tramonto non fosse un vero ristorante dove poter ordinare un drink, nemmeno la sera. I residenti finivano per chiudersi nelle loro celle con i berretti da notte in testa. A dire il vero, però, era appena pomeriggio.
«Chicchirichì!»
Irma e Anna-Liisa arrivavano dal corridoio della scala C, di ritorno dal laboratorio di manualità. Irma accelerò il passo per mostrarle uno strano rotolo di cartone a cui aveva incollato un mucchietto di fili. «È una pecorella, potrei dartela come regalo di Natale, quando sarà ora.»
«Niente paura, io non ho fatto nulla. Ho solo guardato mentre gli altri si divertivano» si affrettò a precisare Anna-Liisa, per evitare che Siiri la giudicasse una dei rimbambiti del gruppo del bricolage.
«Ah! Che meraviglia che siete qui! Avete un minuto? Sediamoci lì ai divanetti, così potremo starcene in pace.»
«Sei tutta agitata» notò Anna-Liisa mentre sistemava il suo girello rosso accanto alla sedia.
«Deve aver incontrato qualcuno di interessante!» ridacchiò Irma, cominciando a scavare automaticamente nella sua borsa per trovare le carte da gioco. Occhiali da vista, rossetto e borsellino erano già sul tavolo.
«Ebbene sì, un uomo affascinante. E l’ho anche invitato a salire da me.»
Irma in visibilio lanciò un gridolino di ammirazione, smise di svuotare la borsa e iniziò a riempirla di nuovo mettendoci dentro le cose che aveva appena tolto. Anna-Liisa girò fulminea la testa tendendo l’orecchio con cui sentiva meglio verso Siiri, che riferì velocemente cosa aveva saputo da Antti, o meglio quello che ricordava del suo racconto, e soprattutto mise a parte le amiche dell’idea che si era fatta riguardo i trasferimenti dentro e fuori il reparto d’isolamento.
«Ma è davvero terribile, un incubo. Non mi sento per niente bene, mi fischiano le orecchie e ho mal di testa. Quindi, adesso Olavi è all’Hilton completamente lucido, senza alcuna traccia di demenza?» chiese Irma.
«Vuoi dire che è all’ospedale di Meilahti» la corresse Anna-Liisa. «Se sporgerà denucia, serviranno dei testimoni. Qualcuno ha assistito al “terribile episodio” e può testimoniare?»
«C’è solo il racconto di Olavi» disse Siiri con espressione triste. «Dite che la polizia gli crederà?»
«Certo che gli crederà!» gridò Anna-Liisa, dando un colpo sul tavolo come se da tutta quella discussione avesse ricavato una gran energia. «Sarebbe davvero bizzarro se non si desse ascolto alla parola di un veterano di guerra!»
Anna-Liisa aveva di nuovo ragione, e in questo caso era un bene. Sapere che il figlio di Raudanheimo aveva preso in mano la faccenda con tale determinazione aveva tranquillizzato il trio. Fortunatamente esistevano ancora parenti come si deve. Che Sinikka Sundström non fosse propensa a credere a quello che le era stato raccontato sull’abuso nella doccia non sorprendeva nessuno. La direttrice era talmente stressata. Negli ultimi tempi era anche più nervosa e distratta del solito. Molti dipendenti se n’erano andati, per non parlare della morte di Tero e del congedo di Pasi. Che le infermiere cambiassero spesso era normale, ma quell’autunno il ritmo si era fatto insostenibile, e nemmeno lei sembrava riuscire a tenere il passo.
«Oh, mamma mia! Non lo so, chiedi a Virpi, o a qualcun altro» urlava disperata se per caso qualcuno commetteva l’errore di domandarle perché l’infermiera non fosse disponibile, o come mai il fisioterapista avesse cancellato tutti gli appuntamenti, oppure perché l’animatrice non si fosse presentata al club dell’“intrattenimento con brio”.
Al Lieto Tramonto le giovani donne arruolate per inventare sempre nuove attività di svago per i residenti venivano chiamate “animatrici”. Si pensava che i vecchi si rinvigorissero a base di canzoncine del tempo della guerra, film in bianco e nero o, al massimo, bricolage.
Inoltre, Villa del Lieto Tramonto offriva esercizi di riabilitazione e di memoria. Alle pareti venivano incollate immagini e test per giochi mnemonici. Parevano materiali ricevuti in dono da un asilo nido: disegni di fiori, barche, case e animali. Siiri una volta si era davvero infastidita quando aveva trovato affissa accanto alla sua porta l’immagine di una famigliola di coniglietti in gita estiva. Irma invece era una donna curiosa e aveva fatto quei test così tante volte che aveva perso il conto. Anna-Liisa andava alle lezioni pomeridiane a intervalli regolari, «per tenere sotto controllo la memoria», perché sapeva che sarebbe diminuita più lentamente se il cervello fosse rimasto in esercizio. Per continuare a essere una persona «sana di mente» iniziava le sue giornate con un bel cruciverba e la sera ripeteva a letto la declinazione dei pronomi interrogativi.
«Bisogna avere cura di sé. Così lo Stato risparmia denaro pubblico» dichiarava ogni volta orgogliosa.
Con il termine “riabilitazione” si faceva riferimento a un concetto molto ampio, praticamente a qualsiasi cosa, dal sollevare e abbassare le dita dei piedi al massaggio. Per gli uomini era obbligatoria e gratuita, perché erano veterani di guerra, ma le donne dovevano pagare, nonostante molte di loro fossero state sui campi di battaglia come ausiliarie, alcune addirittura al fronte come Siiri. In realtà aveva solo lavato i corpi che poi venivano deposti nelle bare. Forse non un vero e proprio lavoro di prima linea, ma comunque molto duro, soprattutto per una ragazzina. Durante la Guerra d’inverno i cadaveri erano congelati e bisognava prima di tutto farli scongelare; nella Guerra di continuazione, invece, erano pieni di vermi ed emanavano un odore rivoltante.
Siiri e Irma avevano partecipato qualche volta ai corsi di ginnastica o si erano fatte il pedicure solo per rispetto verso le infermiere, anche se non riuscivano a capire fino in fondo a quale scopo dovessero essere riabilitate.
«Per la morte, è ovvio» aveva concluso Irma una volta. «Tic tac, tic tac, tic tac.»
«Ma perché ripeti continuamente quel tic tac?» chiese Anna-Liisa quasi arrabbiata.
La scrittrice svedese Astrid Lindgren, vissuta anche lei fino a tardissima età, in un’intervista televisiva aveva raccontato che con sua sorella parlava soprattutto di chi era morto di recente. E quando si erano rese conto di parlare quasi solo di morti o moribondi, avevano preso l’abitudine di iniziare scherzosamente le loro conversazioni telefoniche imitando il suono del passare del tempo “tic tac, tic tac, tic tac”. Irma l’aveva fatto suo. I libri della Lindgren li leggeva ancora.
«Emil di Lönneberga è il mio protagonista preferito, somiglia tantissimo al mio terzo figlio, scappato a lavorare in Cina. Intendo dire che all’epoca, da piccino, era proprio come lui, allo stesso modo dolce e assolutamente impossibile.»
«Ho sentito dire che quell’aiuto cuoco si è impiccato» disse Anna-Liisa.
«Leggo volentieri anche i Mumin. Sono libri davvero intelligenti!» Irma era dell’idea che una persona invecchiando si trasformasse sempre più in un Mumin. «Alla fine è difficile dire se uno sia uomo o donna. E comunque, non ha davvero importanza. Pensate a quanto sarebbe divertente se anche a noi crescesse la coda. Potremmo tenerla ad angolo retto ogni qual volta le infermiere ci esortano a tirarci su, proprio come fa Papà Mumin all’asilo degli Emuli.»
«Che cosa ci fate qui a poltrire, ragazze?» Jenni, la maestra di ginnastica, interruppe le loro chiacchiere a ruota libera. Sorrise energica, diede dei colpetti a Siiri e ad Anna-Liisa e agitò invitante la sua bacchetta per la ginnastica. Non era sicuro che il suo nome fosse proprio Jenni, ma si erano abituate a chiamare così tutte le giovani istruttrici che facevano la riabilitazione.
«Fate ancora in tempo per la lezione! E oggi giocheremo anche con la palla!»
Anna-Liisa e Irma promisero gentilmente di partecipare e andarono a prendere l’abbigliamento adatto nei loro appartamenti. Siiri non ci pensava proprio. Quell’affannarsi con una mazza e una palla le sembrava in qualche modo una cosa umiliante, soprattutto perché dovevano mettersi davanti a uno specchio grande quanto una parete in cui tutti apparivano così vecchi e rugosi che era difficile riconoscere se stessi. In effetti, con le loro tute grigie sembravano proprio dei Mumin, esattamente come aveva detto Irma.
Invece di andare a ginnastica, Siiri uscì e prese il tram. Arrivò per errore con il 4 alla fermata davanti ai grandi magazzini Stockmann, anche se inizialmente aveva pensato di cambiare e prendere il 10 all’altezza del vecchio deposito dei tram. Finì per dover attraversare il reparto dei profumi e quello dei giornali per raggiungere da via Alessandro I la fermata di via Mannerheim. Il 10 arrivò in un battibaleno. Lungo il tragitto Siiri vide il vecchio ospedale chirurgico, che a breve avrebbe smesso di essere un ospedale. Sul giornale aveva letto che nella zona di Meilahti stavano costruendo ospedali nuovi e costosi per potersi così sbarazzare di quei vecchi e bellissimi edifici. Più la scienza medica progrediva, più dispendiosa diventava l’assistenza sanitaria; più le persone erano sane, più invecchiavano, e semplicemente non morivano più per tempo.
Dopo aver compiuto un lungo giro ed essere arrivata di nuovo in via Alessandro I davanti all’Hotel Marski, Siiri salì sul 6 e proseguì verso piazza Hietalahti, dove si trovava il mercato coperto disegnato da Selim A. Lindqvist, il più bello di Helsinki. Al ritorno scese alla fermata sul Bulevardi e diede un’occhiata alla vetrina del caffè Ekberg. Non ci aveva mai messo piede e non ci sarebbe andata neppure quella volta, anche se Irma non smetteva di decantare quanto si fosse sempre divertita in quel locale, dove aveva l’abitudine d’incontrarsi qualche volta con i suoi ex compagni di scuola.
Attraversò il Parco della Peste camminando in direzione di via Yrjö e si soffermò dinanzi a un palazzo dell’isolato Suomi per ammirare il bassorilievo di Wäinö Aaltonen, con l’imponente cavallo e l’angelo singolarmente grande, quindi avanzò superando la piscina comunale senza riuscire a ricordare il nome dell’architetto che l’aveva progettata. Pensò a quando era stata l’ultima volta che andata a nuotarci, ma non le venne in mente. Fece il giro del brutto centro commerciale Forum, passando davanti al museo Amos Andersson, provò una fitta di nostalgia per suo marito e svoltò in via Simo, per raggiungere infine la fermata del 4 dinanzi al palazzo di vetro.
Per poco non si addormentò sul tram, e una volta arrivata a destinazione era così stanca che dovette fermarsi per riprendere fiato. Si appoggiò al suo bastone e vide tra gli alberi il Lieto Tramonto, quella sgradevole struttura in cemento armato anni Settanta con il tetto piatto e le finestre piccole. Non era possibile costruire niente di bello con quel tipo di materiale. Poi, all’improvviso, nella sua mente comparve il bel Tero con i suoi capelli lunghi e una corda stretta al collo, la faccia tumefatta, scura e deforme, le gambe molli che ciondolavano nel vuoto. Era così che le persone impiccate apparivano in televisione. Ma come mai quella terribile immagine le si era formata dinanzi agli occhi così potente e realistica? Se avesse voluto, avrebbe potuto esaminare i dettagli più spaventosi del cadavere e toccare la maglietta rossa a quadri di Tero, però sapeva che era solo un’invenzione della sua mente confusa. Chiuse gli occhi per liberarsene, ma l’immagine del cuoco impiccato non sparì e il sibilo nella sua testa si fece più forte. Fu colta da un capogiro, il bastone le cadde di mano e dovette aggrapparsi alla ringhiera della fermata per rimanere in piedi. Sperò che al senso di nausea non seguisse il vomito, e si accorse che stava piangendo.