25
SIMON
Mi accorgo del furgone grigio metallizzato un’ora prima di notarlo sul serio.
Stesso paio di fari nello specchietto retrovisore. Stessa griglia cromata e lucente. Non ci sorpassa mai, non lascia mai la superstrada. Immagino non ci sia molto, qui, per cui valga la pena di lasciare la superstrada, giusto?
Avrebbe dovuto superarci, quando ci siamo fermati ad acchiappare le lucciole. O a guardare il girotondo di folletti. (Io non li ho visti, i folletti. Perché sono tornato Normale, ovvio, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo apertamente.)
Invece è ancora dietro di noi.
Potrebbe anche essere un altro furgone grigio metallizzato. O magari è lo stesso e le persone a bordo hanno fatto una sosta come noi e ora, casualmente, ci stanno raggiungendo.
È possibile.
Imbocco l’uscita successiva. Baz inarca un sopracciglio, ma non fiata.
«Niente più soste per vedere i folletti!» grida Penny. «A meno che non gestiscano un albergo. Sono stanca e ho la vescica che mi scoppia!»
Controllo nello specchietto. Dopo poco vedo il solito paio di fari distanziati. Abbasso la radio. «Qualcuno ci sta seguendo.»
«Cosa?» grida Penny. «Chi?!»
«Non guardare!» ordino.
Lei si volta ugualmente. Baz invece scruta dallo specchietto retrovisore. «Da quanto?» domanda.
«Da almeno un’ora, quasi due. Da prima delle lucciole.»
Estrae la bacchetta.
Mi è già capitato di essere seguito. Di essere vittima di un’imboscata. Erano goblin, licantropi marini, maghi sfigati che ce l’avevano con l’Arcimago. Allora però ero armato. Avevo una spada leggendaria e una bella riserva di magia in corpo. Le bacchette non sono mai state il mio forte, ma la mia magia annientava qualunque cosa minacciasse di uccidermi.
Ora non mi resta niente.
Se non due amici molto potenti.
Penny si slaccia la cintura e si avvicina a me e Baz. «Ora lancio un incantesimo!»
«Non fare del male a nessuno!» la frena Baz, bloccandole la mano su cui porta l’anello.
«A me preoccupa più l’idea che possano fare del male a noi!» grido io. Stiamo strillando per sovrastare il rumore del vento.
Baz tiene ancora Penny per il braccio. «Non possiamo lanciare incantesimi a tutti i Normali che ci guardano storto!»
Lei lo ignora. «Difficile cacciarsi in guai peggiori di quelli in cui siamo!»
«Non è questo il punto, Bonnie e Clyde!»
Penny si è già voltata. È in ginocchio sul sedile posteriore, con la minigonna che svolazza al vento. Protende la mano destra e strilla: «Sparisci!».
I fari non hanno il minimo cedimento.
«Dagli il tempo di fare effetto» dice Baz.
Aspettiamo che il furgone si fermi o svolti. Passiamo due incroci, poi tre. Al quarto, sterzo di colpo e lascio la superstrada a due corsie per imboccare una strada sterrata. Le ruote affondano nella ghiaia e si sentono i sassi colpire il telaio.
Baz e Penny fissano il buio dietro di noi. Io controllo nello specchietto.
I fari ricompaiono.
«Cazzo» dice Baz.
Penny pronuncia un altro incantesimo: «Bloccati!». Non succede niente. Divarica le dita…
«No!» esclama Baz. «Così esaurisci le energie.»
«Potrebbero essere i vampiri!» replica lei.
«Potrebbe essere chiunque!» intervengo io. Uno spettro, un lich, un ghoul. Qualcosa di specificamente americano: come un demone delle armi, un predatore delle praterie, una di quelle sirene che vivono nei pozzi. I coyote sanno guidare? So che giocano a poker, me l’ha detto l’Arcimago.
«Conosci il tuo nemico prima che sia lui a conoscere te» era una delle sue lezioni preferite. Mi ha istruito su ogni potenziale minaccia, anche la più improbabile. Mi ha consigliato di evitare a ogni costo l’America: «Là si sono avventurati maghi e creature magiche di ogni genere. Ci convivono magia antica e magia moderna. Ci sono ibridi e variazioni che non puoi prevedere. È il luogo più pericoloso del mondo». Avevo tredici anni e pensavo che l’America fosse un’autentica figata. Magie e incantesimi di ogni genere concentrati in un unico posto.
«Fermati alla prossima cittadina» mi dice Baz. «Saremo più al sicuro, se ci sarà della gente.»
Ma non ci sono città in vista.
Passo da una strada sterrata all’altra. E i fari ci seguono.
Baz non posa mai la bacchetta. Penny fissa i fanali per un altro po’ e poi si acquatta dietro il sedile, perché ciò che finora ha osservato non possa più osservare lei. La ghiaia risuona su tutte le parti metalliche dell’auto.
Procediamo così per trenta minuti.
«La pipì ti scappa ancora?» grido a Penny.
«Sì!»
«Mi devo fermare?»
«No!»
Nessuna città in vista. Niente luci. Non vedo altro che pochi metri di strada di fronte e dietro di noi. Baz e Penny sono solo ombre.
Il furgone che abbiamo alle calcagna appare e scompare.
Chiedo a Penny di cercare sul telefono il centro abitato più vicino, ma non c’è campo.
I fari nello specchietto retrovisore si spengono e poi si accendono.
«Che vorrà dire?!» strilla lei.
«Accosta» rispondo.
«Non ci provare!» esclama Baz.
I fari lampeggiano di nuovo. Lentamente. Volutamente.
«Alfabeto Morse?» domanda Penny, stretta fra i nostri due sedili.
«Credo voglia semplicemente dire “accosta”» ripeto.
«Non farlo!» insiste Baz.
«Non lo farò, okay?»
«Ci serve un piano» dice Penny.
«Ce l’abbiamo già!» esclama Baz, deciso. «Troviamo un centro abitato.»
«Non ce ne sono!» replico.
«Ci serve un piano di battaglia!» dice Penny.
«Giusto!» faccio io.
«Ma vi sentite?!» grida Baz, quasi inudibile. (Sentiamo a stento le nostre stesse voci.) «Non possiamo permetterci di combattere!»
«Noi siamo in tre» protesta Penny.
«Potrebbero essere in tre anche loro!» replica lui. «E poi, anche se fossimo più forti, non possiamo permetterci di dare ancora spettacolo!»
«Guardati intorno…» Penny abbraccia con un gesto il nulla che ci circonda. «Non ci sono testimoni!»
«Magari ci stanno già filmando, Bunce!»
«Insomma, non possiamo andare avanti così» protesto. Impazzisco a starmene qui ad attendere che capiti qualcosa. Non ho mai aspettato tanto prima di un combattimento.
«Così non corriamo alcun pericolo!» dice Baz. «La situazione sta sbollendo. A nessuno sta succedendo niente.»
Il furgone ci si avvicina più di quanto abbia mai fatto finora, i suoi fari acuiscono il pallore di Baz. Lui si para gli occhi con la mano. Le luci si spengono di nuovo e, dopo qualche attimo di buio, si riaccendono.
«Vaffanculo.» Cambio marcia e affondo il piede sull’acceleratore.
Il rumore è mostruoso. Penny e Baz si reggono con entrambe le mani.
BAZ
Un tempo ammiravo questi due: in molte situazioni difficili riuscivano sempre a cavarsela.
Adesso so che sono scampati per la frequenza in cui si cacciano nei guai! Ecco che cos’ha spinto la Monamour a trasferirsi in California.
La Mustang è rumorosa quanto un pipistrello in fuga dall’inferno. E in questa fuga è Simon il suo autista. Avanza in quarta su una strada sterrata, gli occhi azzurri ridotti a due fessure. Il foulard mi vola dalla testa. Con uno scatto della mano Snow lo riacchiappa e, per un secondo, mi guarda, reggendolo come fosse uno stendardo.
SIMON
Il furgone grigio metallizzato perde di nuovo terreno, ma tiene il passo.
Faccio un’altra curva a gomito. Tornare sull’asfalto ci fa guadagnare velocità. Forse anche troppa. Ormai non potrei fermarmi neppure se fossi costretto, è la strada a corrermi incontro.
Baz ha la bacchetta già pronta, e Penny ha la mano destra sollevata.
«Rallenta!» strilla lui.
Ma io non lo faccio. Non voglio. Sono stanco di questo stallo. Sono stanco di essere tallonato.
Di colpo mi esplodono le ali… non so perché, non ho sentito campane. La loro forza è tale che finisco contro il volante, e la decappottabile sobbalza.
Baz pronuncia una formula magica, solo che non distinguo le parole. Poi grida qualcosa a Penny e anche lei prova a lanciare un incantesimo.
«Non c’è magia!» grida Baz.
«È una zona morta!» replica Penny, battendomi la mano sulla spalla. «Non possiamo fermarci qui!»
«Non mi sto fermando!» rispondo, ma subito il motore comincia a scoppiettare. «Che cosa hai fatto?» grido a Baz.
«Niente. Io non c’entro!» mi risponde.
Il motore rallenta. Premo l’acceleratore. Provo a cambiare marcia. Il furgone guadagna terreno troppo in fretta. Alla mia destra spunta un passo carraio. Sterzo all’ultimo secondo, sbando e la Mustang finisce con un testa coda in uno spiazzo di ghiaia.
Si ferma proprio ai piedi di Stonehenge.
PENELOPE
Quando la macchina esce di strada, chiudo gli occhi e afferro la testa con le mani. Ogni incantesimo ha fallito. Non mi resta che pensare a tutte le automobili moderne dotate di airbag che ho scartato… e prepararmi all’impatto.
Invece non c’è nessun impatto.
Quando finalmente ci fermiamo, apro gli occhi e sono pronta a giurare di avere di fronte Stonehenge. E il mio primo pensiero è: Sia lodata Morgana, stranamente siamo a casa.
Ma non è Stonehenge. Non può esserlo. Per prima cosa, qui non c’è magia, è una zona morta. (Il Tedio è stato nel Nebraska occidentale? Esiste anche un Tedio americano? Sarà anche questo dovuto a Simon?)
E poi le pietre verticali non sono pietre. Sono… macchine. Grosse macchine vecchie, verniciate di grigio e posizionate come i massi del Wiltshire. Alcune sono a testa in giù e conficcate nella terra, altre sono impilate l’una sull’altra. Che razza di posto è?
Non abbiamo la magia.
Non abbiamo campo.
Ci serve un piano.
Simon si volta e mi accarezza il braccio. «Ti senti bene?»
«Abbiamo ancora Baz» dico. «E abbiamo ancora le tue ali. Combattiamo come orchi se siamo costretti.»
Baz salta giù dall’auto e si piazza tra i fanali posteriori. Io mi sistemo accanto a lui e raddrizzo le spalle. Sono abituata a combattere al fianco di chi è molto più potente di me. «Prima di tutto prendiamo i loro cellulari» dico.
Di fianco a Baz c’è Simon che dispiega le ali.
Il furgone entra nel parcheggio e avanza lentamente, ora che ci ha messo all’angolo. Si ferma proprio davanti a noi. Motore e fari si spengono.
Scende una sola persona. Un ragazzo di colore che ha all’incirca la nostra età. Indossa un giubbotto di jeans e un paio di occhiali con la montatura di metallo.
In mano non ha niente e, dopo qualche secondo, ci saluta con un cenno. «Ciao.»