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AGATHA
Pensavo che il ritiro si svolgesse in un hotel. Invece Josh varca con l’auto il cancello di una villa all’interno di una comunità recintata. La sua macchina sportiva non fa rumore, non usa carburante e non ha nemmeno un sedile posteriore decente.
«Questo quartiere è abitato quasi interamente dai membri della NowNext» ci spiega. «La maggior parte dei fondatori vive qui.»
Ginger si mostra impressionata. Io solo rispettosa.
Veniamo accolti da una giovane capace, coperta di piercing e tatuaggi. È l’elemento più decorativo della casa. Tutte le riunioni dei NowNext si svolgono in posti come questo: ville mastodontiche in stile minimalista. Questa finora è la più mastodontica e la più minimalista di tutte, come se per il proprietario fosse un vanto aver ridotto a zero gli arredi pur avendo a disposizione il massimo spazio. Mia madre resterebbe accecata dall’assenza di tappezzeria e decorazioni alle pareti.
Personalmente, preferirei alloggiare in un hotel anziché in quest’enorme casa vuota: quando io e Ginger entriamo in camera, scopriamo che la porta non si può chiudere a chiave.
«Perché disfi la valigia quando sai benissimo che dormirai con Josh?» le chiedo.
«Macché. Quell’ala della casa è riservata ai membri effettivi. Ti toccherà sopportarmi tutte le notti.»
Ginger non intende perdersi un solo evento incluso nel programma del ritiro. Mi trascina al party di benvenuto che si tiene in terrazza. Beviamo Cocktail Champagne e nessuno mi chiede se ho compiuto ventuno anni (li faccio tra quattro mesi). La maggioranza è composta da uomini, le donne sono poche. Tutti i membri anziani portano uno spillino d’oro a forma di otto. (Mi ricorda quell’oggettino d’argento che i miei tengono in bagno, il serpente che si morde la coda e che pare impedisca ai basilischi di salire dalle tubature.)
Al party di benvenuto seguono una seduta di meditazione in una stanza e un seminario in un’altra. Io, Ginger e Josh scegliamo la meditazione. A me piace la meditazione. Almeno c’è silenzio.
Poi parteciperemo tutti al grande discorso di apertura – “Il mito della mortalità” – in uno dei salotti che per dimensioni paiono più dei saloni da ballo. Chi abita qui evidentemente possiede una cinquantina di divani, tutti neri, bianchi o di un colore neutro. E tutti così lisci che mantengono la forma anche quando ti ci siedi sopra.
Me ne sto lì a friggere per venti minuti. Praticamente sembra di essere in chiesa. Il tizio che parla dice che i Normali – insomma, gli esseri umani – sono stati creati per vivere in eterno, e che a mettersi in mezzo sono stati il peccato, la vergogna e i fattori ambientali. Conquista Ginger con le parole “fattori ambientali”.
Per me sono tutte stronzate. Nemmeno noi maghi viviamo in eterno, con tutte le migliaia di incantesimi che abbiamo. «Vivere è morire» sostiene mio padre. È il miglior dottore di arti magiche di tutta l’Inghilterra. Cura tutto il curabile. Però non può curare la morte. O, come dice lui stesso: «Non posso curare la vita».
Per quanto mi sforzi di considerarlo noioso, trovo il discorso irritante. Mi infastidisce vedere le persone annuire mentre ascoltano simili sciocchezze. Credono davvero di poter sfuggire alla morte bevendo succhi di frutta tropicale e pensando positivo? Mi fanno venire in mente l’Arcimago.
Così ripenso a quella notte nella torre.
Penso a Ebb.
Mi alzo. Dico a Ginger che vado a cercare il bagno, invece voglio solo andarmene. Finisco in una stanza deserta che si trova sullo stesso piano ma dal lato opposto, una biblioteca con un finestrone che dà su un campo da golf.
Avevo in programma un festival, questa settimana. Avevo comprato la vernice per il body painting e mi ero cucita delle piume sul bikini. Sarebbe stata un’esperienza ridicola e fantastica. Non ridicola e triste, come questa.
Frugo nella borsa in cerca della sigaretta che tengo per le emergenze. In Inghilterra non avevo mai fumato veramente. Simon e Penny odiavano il fumo e, come ho detto, mio padre è medico. Ma poi mi sono trasferita in California, dove non fuma nessuno, e farmi una sigaretta ogni tanto è un po’ come brindare alla salute della Regina.
Scommetto che al proprietario della casa si aggroviglierebbero le budella se la accendessi.
Tenendola fra le dita mormoro un: «Ardi, o fuoco, calderon gorgoglia!», uno dei tre incantesimi che eseguo anche senza bacchetta, e l’unico che riesco a lanciare a voce bassa. (Un talento raro che ho accuratamente evitato di coltivare quando ho capito che piaceva tanto a mia madre.) L’estremità del mozzicone si accende. Inspiro e soffio il fumo su uno scaffale di libri.
«Ne hai una anche per me?»
Mi volto. Sulla porta c’è un uomo con uno di quegli stupidi spillini a forma di otto.
«Mi dispiace, era l’ultima che avevo.»
Lui entra nella biblioteca. È un po’ più grande di me, piuttosto giovane per gli standard dei NowNext, ma curato e atletico quanto gli altri. Mi solletica l’idea di traviare uno di loro. Una sola sigaretta basterebbe a rovinare il suo intero programma settimanale. Sarebbe costretto a confessare, purificarsi e forse persino digiunare.
«Puoi dare un tiro, se vuoi» propongo.
Lui lascia la porta aperta, un gesto che apprezzo. (Maledetti uomini, cercano sempre di intrappolarti.) Poi mi si avvicina e, appoggiato allo scaffale accanto a me, dà una bella tirata alla sigaretta che gli ho appena offerto.
«Ora non potrai più diventare immortale» gli dico.
Scoppia a ridere e si strozza con il fumo. Gliene esce un po’ dal naso. «Accidenti, avevo un sacco di progetti.»
«Dimmene uno.»
«Curare il cancro con la terapia genica.» Mi sembra sincero.
«Mi dispiace, caro, hai sbagliato stanza. I tuoi simili sono nella sala accanto.»
«Tu non ci credi, vero?» mi chiede.
«No, per niente.»
«Allora perché sei qui?»
«Perché avevo capito che ci sarebbero stati i massaggi linfatici e i dolcetti vegani.»
«Ci saranno, infatti» replica lui con un sorriso.
Sospiro e soffio il fumo oltre il suo viso. «Sono venuta con un’amica.»
Annuisce e mi fissa. Mi contempla i capelli. A volte capita. Ho i capelli lunghi e di un biondo chiaro. «Un biondo burro» lo definiva Simon. Qui nessuno mangia il burro.
«Tu invece ci credi eccome, vedo» commento, guardando lo spillo. «O almeno ci hai creduto.»
«Sono uno dei fondatori.»
«Davvero?» Non dimostra più di venticinque anni. «Cos’eri, un bambino prodigio?»
«Più o meno.»
Guardo gli scaffali che ho intorno. Sono tutti libri moderni, molti in formato tascabile. Nessun volume rilegato in pelle in bella mostra.
«Non sembri particolarmente colpita» commenta.
Scrollo le spalle. «Conosco il tipo.»
La sigaretta si è consumata fino al filtro. Mi volto in cerca di un posto in cui spegnerla. Lui solleva un piatto di bronzo dalla scrivania, è una specie di premio. «Tieni.»
«Sono irriverente ma non maleducata.»
Ride. Non è niente male quando ride. «Usalo pure, tanto è mio.»
Spengo il mozzicone. «Questa è casa tua?»
«Ah-ah. Sei colpita, adesso?»
«Per Morgana, no. Che se ne fa uno della tua età di un campo da golf?»
«A me piace il golf. E mi piace avere la casa grande. Per organizzare dei fine settimana come questo.»
«Il mondo è bello perché è vario.»
«Puoi essere cinica quanto vuoi.»
«Lo sono, infatti.»
«Ma il cinismo non porta a niente.»
«Questo non è vero. Il cinismo salva la vita.»
«Mai.»
«Ci sono tante di quelle cose che non mi uccideranno mai per il semplice fatto che non le farei neanche morta.»
«Tipo?»
Mi levo della cenere dal vestito. «Scalare una montagna.»
«Questo è cinismo o codardia?»
«Sinceramente…» Mi interrompo. «Come ti chiami?»
«Braden.»
«Ci avrei scommesso…» borbotto, squadrandolo da capo a piedi. «Sinceramente, Braden, sono così cinica che non me ne importa niente.»
Si avvicina di un passo. «Mi piacerebbe farti cambiare idea.»
«Grazie, ma sono appena uscita da una setta. Non cerco una setta di ripiego.»
Sorride. Sta flirtando con me, adesso. «Noi non siamo una setta.»
«Secondo me sì» rispondo, quasi flirtando.
«La chiesa cattolica è una setta, allora?»
«Sì. Vuoi davvero fare un paragone tra voi e il cattolicesimo?»
Mi fissa incredulo. «Aspetta, pensi veramente che la chiesa sia una setta?»
Ci guardiamo negli occhi. Nota che i miei sono di un’insolita tonalità nocciola. Ma è un sollievo che non lo dica.
«Noi vogliamo solo aiutare le persone» spiega.
«Volete aiutare voi stessi» lo correggo.
«Uno: siamo anche noi persone; due: perché non possiamo aiutare noi stessi? Noi siamo i differenziatori.»
«In quest’accezione è una parola inventata, Braden.» Braden è un nome inventato.
«A me non dispiacciono le parole inventate. Io voglio reinventare il mondo. Le persone nella sala accanto stanno già cambiando il mondo. Io sono qui per nutrirle e incoraggiarle, in modo da ottimizzare il loro effetto.»
«Per questo ho lasciato la sala» commento. «L’ultima cosa che voglio è fare la differenza.»