1. DALLA CRISI PETROLIFERA DEL 1973 ALLA RIPRESA.
Nei primi anni Settanta iniziarono a profilarsi in Giappone i segni della crisi. Le cause principali sono da ricercare in decisioni esterne al Giappone. Nel 1971, il Presidente statunitense Richard Nixon annunciò l'abbandono del "gold standard", istituito a Bretton Woods nel 1944. Con questa misura le monete, il cui valore non era più ancorato al prezzo dell'oro, iniziarono a fluttuare e nel 1973 il cambio yen/dollaro giunse al rateo di 308/1. Da allora, l'apprezzamento della moneta giapponese è proseguito, per giungere alla parità di 120 yen per dollaro nei tardi anni Ottanta e fluttuare intorno ai 122-123 yen per dollaro nel 1999; di recente, lo yen si è apprezzato rispetto all'euro, con un rateo di circa 128/1. Inoltre, gli Stati Uniti, al fine di ridurre il forte saldo commerciale in passivo con il Giappone, iniziarono a porre restrizioni alle importazioni di prodotti giapponesi.
In questo contesto si inserì la crisi petrolifera del 1973, conseguente alla decisione dei Paesi dell'Opec di ridurre le esportazioni di petrolio, misura che provocò un consistente rincaro di questa materia prima, indispensabile all'industria giapponese per la produzione sia di derivati, sia di energia elettrica. Infatti, se nel 1953 il petrolio contribuiva alla produzione di energia elettrica con la quota del 15,3 per cento, nel 1963 concorreva per oltre la metà e nel 1973 copriva il 77,4 per cento del fabbisogno.
Le condizioni per il superamento della crisi e per la ripresa dello sviluppo ebbero radici sia endogene sia esterne. All'interno, agì da propulsore lo stesso sistema economico-sociale che può essere rappresentato come un insieme di sottosistemi. In essi, i singoli cittadini e ogni istituzione hanno ruoli e svolgono funzioni precise. Concorrere all'affermazione della propria squadra di lavoro significa contribuire al miglioramento dell'impresa e, quindi, della holding di appartenenza, sostenendo, in sostanza, l'azienda Giappone. Ciò avviene in quanto i rapporti sociali e di lavoro sono fondati sull'affermazione dell'individuo "all'interno" del gruppo di appartenenza (sia l'ufficio o la scuola o la squadra sportiva eccetera) secondo la tradizione del comunitarismo. Pertanto, al superamento della crisi contribuì l'intera nazione: politici, burocrati, uomini d'affari, sindacalisti, lavoratori, fornitori e cittadini in genere.
Come di consueto, il governo operò attraverso Programmi redatti dall'Agenzia per la programmazione economica. Fino al 1992, furono approvati cinque Programmi. Le misure adottate per uscire dalla crisi consentirono all'economia giapponese una razionalizzazione di cui essa si sarebbe giovata negli anni Ottanta. Innanzi tutto, per quanto attiene al rapporto tra moneta statunitense e moneta giapponese, se l'apprezzamento dello yen diminuiva la concorrenzialità dei beni prodotti dalle imprese giapponesi, queste avrebbero tratto vantaggio dalle migliori condizioni nell'approvvigionamento delle materie prime. Dunque, si contrassero le entrate, ma diminuirono anche le uscite della bilancia commerciale. Se nel 1975 il valore delle importazioni superava quello delle esportazioni di circa 2 miliardi di dollari, a partire dal 1982 si registrò un'inversione di tendenza, tanto che nel 1987 il valore delle esportazioni fu superiore a quello delle importazioni di 80 miliardi di dollari.
Sul piano più generale, nel 1978 e nel 1983 il governo approvò due leggi che, secondo le linee dei Programmi economici, permisero agli imprenditori la riorganizzazione con l'assistenza dello Stato. Un esempio paradigmatico è costituito dal settore della cantieristica. La crisi petrolifera del 1973 ebbe vaste ripercussioni sui cantieri navali giapponesi che producevano il 50 per cento del fabbisogno di tonnellaggio commerciale. La costruzione di grandi petroliere (fino a 500 mila tonnellate), iniziata alla fine degli anni Sessanta, a seguito della caduta delle forniture di petrolio, dovette essere quasi totalmente sospesa. Per tre anni, i grandi e i piccoli cantieri navali giapponesi soffrirono del calo della domanda. I grandi cantieri uscirono dalla crisi traendo vantaggio dalla loro capacità tecnologica e diversificando la produzione con la costruzione di piattaforme oceaniche e di grandi attrezzature. I cantieri medi e piccoli, impossibilitati a ricorrere al credito bancario, in parte riuscirono ad autofinanziarsi, in parte dovettero chiudere le attività. Molti dei lavoratori che persero il posto di lavoro furono reimpiegati in altre aziende del keiretsu o in imprese appositamente create per utilizzarli. Inoltre, il governo favorì le fasi di transizione dei lavoratori disoccupati con l'assegnazione di sussidi, di indennità di formazione e di spese per lo spostamento di residenza. Scelte politiche simili furono adottate per gli altri settori in declino.
Se per alcuni tipi di industrie la crisi fu intensa, in altri settori, a partire dal 1974, la crescita fu colossale. Ciò avvenne soprattutto nella fabbricazione di automobili, di prodotti elettrici ed elettronici. Tra il 1974 e il 1989, la produzione di autoveicoli crebbe da circa 7 a 13 milioni di unità annue per diventare, nel 1990, la prima nel mondo. Le vendite aumentarono sia all'interno sia all'estero, dove le auto giapponesi si imposero per i prezzi contenuti e per l'alta qualità. Nel 1974 le esportazioni di autovetture era del 30 per cento della produzione, ma nel 1989 raggiunse il 40 per cento. La concorrenza dei veicoli giapponesi provocò tensioni commerciali, soprattutto da parte del governo statunitense che, incalzato dai costruttori nazionali, nel 1981 iniziò a negoziare restrizioni alle importazioni dal Giappone. I grandi fabbricanti, soprattutto Toyota e Nissan, risposero costruendo negli Stati Uniti loro impianti. Con questa scelta, aggirarono le restrizioni dovute a contingentamento, tasse d'importazione e altre barriere non doganali. Inoltre, poterono avvantaggiarsi dall'apprezzamento dello yen e da costi del lavoro inferiori negli Usa. In sostanza e in modo inaspettato, la politica protezionista di Washington promosse investimenti giapponesi negli Stati Uniti e favorì una maggiore interdipendenza tra le due economie.
Anche il settore delle costruzioni elettriche ed elettroniche trasse grande vantaggio dalla crisi. Tra le prime nove imprese del settore, sette erano giapponesi. La Hitachi e la Toshiba, che nella scala mondiale seguivano la G.E. e la Westinghouse, fabbricavano attrezzature di ogni tipo. Le altre cinque imprese producevano piccoli manufatti. Tra queste la maggiore era la Matsushita, seguita da Fujitsu, Nec, Sony e Mitsubishi denki, orientate al solo mercato interno. Tuttavia, dai tardi anni Settanta, tutte queste imprese iniziarono la produzione di videocassette, registratori, computer, semiconduttori, circuiti integrati, fax e telefoni cellulari. Dapprima invasero il mercato interno grazie alla vendita di prodotti innovativi, che successivamente riscossero grande successo anche sul mercato mondiale.
La rapida crescita delle industrie dell'auto e delle apparecchiature elettriche stimolò l'espansione delle medie e piccole imprese dei due settori che in molti casi confluirono in associazioni di aziende dell'indotto che operavano, in quanto a processi di lavorazione e a qualità del prodotto, in stretto contatto con l'impresa madre. A seguito di questi sviluppi, il termine "keiretsu" assunse un più ampio significato. Infatti, accanto ai keiretsu tradizionali che controllano capitali finanziari, industriali e commerciali (come, per esempio, Mitsui e Mitsubishi), quelli nuovi si fondarono su apparati produttivi integrati per la fabbricazione di un unico prodotto. La dinamicità dei nuovi keiretsu permise loro di inserirsi tra i gruppi di imprese di maggiore importanza nel Giappone degli anni Ottanta. Accanto ai settori dell'auto e delle apparecchiature elettriche ed elettroniche, nacque un gran numero di medie e piccole imprese che si avvantaggiarono delle opportunità offerte dall'incremento di domanda di nuove tecnologie, nuovi processi produttivi, nuovi prodotti.