1. LA REPRESSIONE.

 

Nel ventennio che seguì l'approvazione della Chian ijiho, il regime adottò una politica sempre più repressiva contro i propri oppositori, tanto che si può affermare che da autoritario divenne compiutamente fascista, seppure con caratteri particolari che si discuteranno nel quarto paragrafo. I primi interventi furono attuati in chiave antimarxista e antiproletaria: nello stesso 1925, furono incriminati gli studenti di sociologia dell'Università di Kyoto, associati nella Gakuren (Unione studentesca), rei di non limitarsi a discussioni accademiche, ma di propagandare nella società l'ideologia marxista e di sostenere il sindacato rivoluzionario. Nel 1928, furono arrestati i dirigenti e la quasi totalità dei militanti del Partito comunista, sottoposti a processo per le loro idee rivoluzionarie. In tale occasione, il «sistema imperiale» (tennosei) mostrò la sua vera natura, con la piena saldatura fra la teoria e la pratica politica. Infatti, a processo iniziato, l'Imperatore Hirohito emendò con un proprio decreto la Chian ijiho introducendovi la pena di morte.

Tuttavia, il regime fascista giapponese non si limitò a imprigionare militanti e a reprimere organizzazioni del proletariato, ma perseguitò anche personalità vicine al liberalismo. Sebbene molti episodi non siano ancora stati studiati, anche a causa delle difficoltà di accedere ai documenti, alcuni «incidenti» danno l'esatta misura della stretta autoritaria sempre più oppressiva del fascismo giapponese. In questo senso, emblematici sono il «caso Minobe», verificatosi nel 1935 e il «caso Tsuda» del 1940157. Il «caso Minobe» indica un intervento repressivo contro Minobe Tatsukichi. Costituzionalista di assoluto rilievo, nel 1911 egli aveva enunciato la «teoria dell'organo», secondo la quale l'Imperatore era un organo dello Stato e non al di sopra di esso. Nel 1935, l'Associazione dei riservisti organizzò un ampio movimento di massa che attaccò Minobe in quanto la sua interpretazione della Costituzione avrebbe offeso il kokutai (sistema nazionale). Minobe fu costretto a dimettersi dalla Camera dei Pari e ad abbandonare l'insegnamento universitario, che avrebbe ripreso solo nel 1946.

Tsuda Sokichi fu tra i più autorevoli studiosi di storia antica del Giappone e delle civiltà cinese e giapponese. Nei primi anni Trenta pubblicò alcuni studi che posero scientificamente in discussione la cronologia ufficiale che fissava all'11 febbraio del 660 a.C. la fondazione del «Paese degli dèi» e, quindi, i fondamenti stessi del tennosei (sistema imperiale). Accusato da studiosi reazionari di screditare la dignità della famiglia imperiale, nel 1940, insieme con il suo editore, fu processato e condannato a tre mesi di detenzione. Quattro sue opere furono messe al bando e anche egli fu sospeso dall'insegnamento che poté riprendere soltanto nel secondo dopoguerra. Questi due «casi» sono emblematici della stretta autoritaria del regime fascista giapponese, in quanto rappresentano l'epilogo della storia della repressione di ogni dissenso, iniziata nel 1925 con l'arresto degli studenti del Gakuren e dei militanti e dirigenti del Partito comunista giapponese nel 1928.

Per rendere efficace l'applicazione della Chian ijiho, il regime ricorse a una serie variegata di misure. Per quanto concerne i 'reati di opinione', il ministero degli Interni compilò un elenco di riviste e di libri dei quali fu vietata la circolazione; il ministero dell'Educazione accentuò la sua azione di controllo sulla ricerca e sul dibattito accademico, sia intervenendo per «nipponizzare» le idee provenienti dall'estero, sia inserendo propri «supervisori» nei gruppi di ricerca, in specie delle scienze sociali. Questi avevano un duplice ruolo, in quanto agivano come consiglieri degli studenti e, inoltre, vigilavano affinché non operassero organizzazioni considerate illegali. I più temibili strumenti della coercizione furono il Tokubetsu koto keisatsu (o Tokko, Apparato di polizia speciale superiore) e i «procuratori del pensiero», insediati presso ogni tribunale. Il Tokko svolse le funzioni proprie di una polizia segreta, contribuendo alla diffusione del terrore tra coloro che non erano in perfetta sintonia con l'ideologia del blocco di potere fascista. I «procuratori del pensiero» ebbero ampi margini di manovra all'interno della dicotomia consenso/coercizione.

Nella sfera della estorsione del consenso, fu messa in atto la pratica del "tenko" (abiura della posizione ideologica). Avviando tale procedura, il «procuratore del pensiero» sospendeva il giudizio nei confronti dell'imputato e lo affidava a un garante individuale o collettivo che si impegnava a convincere il «sovversivo» che la sua posizione ideologica era errata. Questi, se dichiarava di abbandonare le «idee pericolose», ritornava a essere un «buon suddito» e poteva, quindi, reinserirsi a pieno titolo nella società. Il "tenko" fu un utile strumento di condizionamento psicologico e sociale e un'efficace, nonché vischiosa, arma politica. Con essa, infatti, veniva messa in atto la capacità di pressione della microstruttura sociale (famiglia, gruppo di amici, colleghi di lavoro, comunità di villaggio, eccetera) che con l'imputato aveva contatti frequenti e intensi e che, pur avendo idee diverse, non era composta da estranei. Inoltre, con l'abiura di un imputato, si dimostrava l'errore della sua posizione ideologica ad altri «sovversivi» che, in tal modo, venivano sottoposti a forti pressioni psicologiche.

L'attività di repressione di ogni forma di dissenso fu estesa ed efficace, sostanziandosi in 6124 condanne - un numero assai maggiore di quelle comminate in Italia dal Tribunale speciale fascista (4596). Inoltre, di pari efficacia si dimostrò la pratica del tenko alla quale si adeguarono oltre 6000 incriminati. L'efficacia della repressione e della pressione psicologica del tenko favorirono la soffocazione di ogni forma di dissenso, palese o organizzato che fosse. In Giappone non sarà riscontrabile alcuna forma di resistenza attiva al regime fascista, come in Italia, né nella forma di complotto contro Hitler, come avvenne in Germania. Alcuni intellettuali non allineati presero posizione semplicemente rinunciando a pubblicare le loro opere, ovvero rifiutandosi, dopo il 1937, di trasformarsi in corrispondenti di guerra.

Entrati in una clandestinità «passiva», il Partito comunista e il sindacato ad esso collegato, le restanti organizzazioni politiche e sindacali sopravvissero a condizione di attenuare la loro azione entro i limiti consentiti dal blocco di potere fascista. Nonostante le intimidazioni e la repressione, negli anni Trenta, il movimento operaio condusse una serie di vertenze a difesa dei propri interessi. Il loro numero raggiunse gli apici nel 1930-32 e nel 1937. Tuttavia, il limitato livello di elaborazione teorica e l'appiattimento ideologico emersero in concomitanza con il richiamo all'unità nazionale dopo l'inizio della guerra contro la Cina nel luglio del 1937. La Sodomei, nel suo congresso di ottobre, deliberò la sospensione di tutti gli scioperi per non sabotare la produzione bellica. Il suo appello ebbe successo: agli oltre 1500 conflitti sui luoghi di lavoro (comprendenti anche gli scioperi), nella prima metà del 1937 aderirono oltre 185 mila lavoratori, contro i circa 27000 impegnati in 600 conflitti nel secondo semestre dell'anno.

 

 

Storia del Giappone
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