6. LE GRANDI CAPITALI IMPERIALI.

 

Nel 694 fu sperimentata la prima capitale stabile a Fujiwara, poco a nord di Asuka, dove l'edificazione della residenza imperiale trasse ispirazione dai modelli architettonici e dalla geomanzia cinese. La scelta di questa località non si sarebbe rivelata felice, dato che dopo soli sedici anni la sede del governo imperiale fu trasferita a Nara, situata in una zona ben più ampia e con una migliore posizione nella rete di comunicazioni. Proprio durante questa breve parentesi fu completato il codice di leggi avviato in precedenza, che venne emanato nel 702 e che è noto sia con il nome Taiho (dall'era omonima), sia come Codice Ritsuryo, componendosi di due parti distinte: le leggi penali ("ritsu") e le norme amministrative ("ryo"). Esso costituì l'ultimo atto del processo di riforme, avviate sin dai tempi di Shotoku Taishi e passate attraverso la promulgazione dell'editto Taika, finalizzate a stabilire un saldo controllo della famiglia e del governo imperiale sulla popolazione e sulle risorse economiche del Paese. In genere, questo codice è posto in relazione con il periodo Nara (710-784), così come d'altra parte appare opportuno fare se si considera che fu proprio il periodo in cui ebbe qui sede la capitale a vedere la piena applicazione delle norme in esso contenute.

Entrato in vigore nel 702 e revisionato nel 718, il Codice Ritsuryo gettò le basi del sistema amministrativo che sarebbe rimasto in vigore sino alla metà del diciannovesimo secolo. Infatti, anche quando il potere fu assunto da membri dell'élite militare e il sistema amministrativo subì alcune modifiche, non venne mai meno, almeno sul piano formale, un atteggiamento di rispetto verso il sistema gerarchico in esso stabilito, il quale prevedeva il definitivo superamento delle realtà uji (che divennero soggetti all'autorità del governo imperiale) e la creazione di una massa di «sudditi», intesi come «persone pubbliche» ("komin") sottoposte all'Imperatore e classificati sulla base del rapporto che li legava al sovrano. Al di sotto dell'Imperatore e della sua famiglia stavano i sudditi liberi ("ryomin"), che potevano essere funzionari ("kannin") e coltivatori delle terre dello Stato ("komin"), mentre alla base di questa gerarchia figuravano i sudditi non liberi ("senmin"). In generale, questo codice seguiva le forme e i princìpi di quelli cinesi, specie per quanto concerne le leggi penali, e alcuni studiosi ritengono che esso segni il punto massimo dell'influenza cinese sulle istituzioni del Giappone antico. Tuttavia, anche in questo caso è possibile riscontrare alcuni interessanti esempi della capacità dei compilatori di coniugare il modello straniero con le esigenze indigene, come nel caso del divieto imposto dal Codice Tang al matrimonio endogamo. Le leggi penali adottate in Giappone, pur definendo varie tipologie di reato puniti con la relativa condanna (dall'esilio e dai lavori forzati sino alla pena capitale), non introdussero alcun limite alla possibilità di scegliere un coniuge all'interno del gruppo familiare. Né fu accolta l'idea di una burocrazia prescelta attraverso il sistema degli esami imperiali. Questa soluzione, adottata in Cina per selezionare i funzionari governativi, avrebbe infatti consentito l'accesso a mansioni di potere anche a persone di basso lignaggio; all'adozione del criterio meritocratico si preferì pertanto il mantenimento di un'aristocrazia ereditaria legata alla famiglia imperiale, dato che lo stesso potere del tenno (v. supra, par. 5) era basato sul lignaggio e, dunque, ereditario.

La struttura di governo risultò organizzata sulla base di quanto già previsto nell'editto Taika e specificata a livello centrale e locale ricalcando il modello cinese delle istituzioni statali Tang, pur conservando alcune caratteristiche genuinamente indigene. Al già menzionato Dajokan, il Consiglio di Stato incaricato dell'amministrazione civile, infatti, si affiancava un ministero delle Divinità, designato con il termine Jingikan, composto di tre caratteri, il primo dei quali era quello di kami, a testimonianza del fatto che le competenze di questo organismo riguardavano appunto il culto shintoista. All'inizio del periodo Nara le province in cui era stata suddivisa l'amministrazione del Paese erano sessantasette, mentre i distretti erano circa seicentocinquanta.

Queste, dunque, furono le istituzioni politiche, economiche e sociali adottate dal governo imperiale che, nel 710, si trasferì a Nara (all'epoca chiamata Heijokyo26), inaugurando un periodo che vide l'attuazione delle riforme adottate sino ad allora. Edificata in una zona pianeggiante e in una favorevole posizione strategica prendendo a prestito numerosi suggerimenti dallo stile architettonico e urbanistico cinese, la nuova capitale copriva un'estensione di circa venti chilometri quadrati e ben presto assunse un aspetto tale da esprimere anche visivamente il potere che la Corte imperiale intendeva affermare. I sovrani, ferventi sostenitori di una religione da cui volevano attingere forza e prestigio e che fu assunta come religione di Corte e quindi dello Stato, finanziarono la realizzazione di magnifiche opere buddhiste, edificate anche con l'intento di proteggere il Paese da calamità e sciagure di varia natura. Ad esempio, durante il suo regno (724-749) l'Imperatore Shomu non solo ordinò la realizzazione del Grande Buddha del Todaiji a Nara, una tra le più grandi statue buddhiste di bronzo esistenti al mondo, la cui imponenza si riteneva fosse in grado di far giungere la sua benedizione anche al di là della capitale, ma donò pure le terre necessarie alla costruzione di un tempio per ciascuna provincia, allo scopo di fornire anche a livello locale la protezione che il Buddhismo sembrava in grado di garantire. Il completamento della maestosa opera, alta quasi sedici metri, fu celebrato nel 752 con una cerimonia che prevedeva la «apertura degli occhi» del Buddha e alla quale presero parte personaggi provenienti da Paesi molto lontani, tra cui la Corea, la Cina e persino l'India. L'intensità dei contatti con le regioni d'oltremare è testimoniata dalla varietà degli oggetti che furono conservati nello Shosoin di Nara, un magazzino dei tesori imperiali di inestimabile valore e di grande interesse storico e artistico.

Oltre che con l'Asia Orientale e Centrale, d'altra parte, il Giappone aveva all'epoca instaurato contatti pure con l'Indonesia, il Vietnam e la Malesia, anche se il partner privilegiato era costituito dalla Cina, con cui i rapporti erano stati ripristinati nel 701, a seguito dell'invio di una missione alla Corte dei Tang. Ciò segnò l'inizio di una proficua stagione di scambi culturali, caratterizzata da numerose altre ambascerie che partivano dal porto di Naniwa, nella zona dove attualmente sorge Osaka. Ciascuna di esse portava in Cina cinque o seicento persone, tra cui studenti e studiosi desiderosi di apprendere le novità qui sperimentate, dalla filosofia e dall'arte sino ai riti ufficiali e alle tecniche militari. Tuttavia, anche in ambito culturale, pur ispirandosi alle concezioni cinesi, il Giappone coniò soluzioni originali, visibili nell'architettura, nell'arte, nella poesia e nella storiografia.

Nel 712 fu ultimata la compilazione del "Kojiki", in tre volumi, il primo dei quali si riferisce all'epoca mitologica, descrivendo le vicende cosmogoniche e teogoniche svoltesi in Cielo sino alla leggendaria fondazione dell'Impero a opera di Jinmu, nel 660 a.C.; nel secondo volume la narrazione prosegue sino agli inizi del 300 d.C., mentre nel terzo arriva sino al 628. Scritto in puro giapponese con un complicato uso dei caratteri cinesi, questa opera presenta uno stile narrativo da cui traspare l'ampio uso di fonti orali necessarie alla sua stesura. Pur contenendo numerose informazioni sulla vita, gli usi e le credenze diffuse nelle isole giapponesi nel periodo protostorico, da un punto di vista storico esso risulta essere assai meno attendibile. Eppure, sarebbe stato proprio il genuino spirito indigeno prevalente nel "Kojiki" ad attirare, molti secoli dopo, l'attenzione di un gruppo di intellettuali intenzionati a confutare il primato cinese e a rivalutare gli ideali più sacri alla nazione. Assai più attendibile da un punto di vista storico è invece il "Nihon shoki", ultimato nel 720 e ispirato al modello delle storie ufficiali cinesi. Scritto in lingua cinese, esso si compone di trenta volumi che narrano le vicende sino al 697, riportate con un rigoroso ordine cronologico e abbastanza attendibili in riferimento agli ultimi tre secoli della narrazione. Entrambe le opere avevano come scopo la glorificazione del passato e la legittimazione del diritto perpetuo della dinastia regnante, rappresentando pertanto una sorta di coronamento all'opera di riforme. E, sebbene nel sottolineare le qualità del sovrano si fece ricorso anche alle virtù confuciane, fu soprattutto dal patrimonio indigeno che i compilatori attinsero per glorificare il tenno.

D'altra parte, nonostante il successo incontrato dal Buddhismo sia in termini prettamente religiosi sia nelle sue manifestazioni culturali, lo Shintoismo continuò a esercitare un forte sostegno all'istituto imperiale e, come culto popolare, restò ancorato alla vita quotidiana dei giapponesi. Le due concezioni agirono a livelli distinti e risposero a esigenze spirituali diverse, e con il tempo si sarebbe persino giunti a una loro completa fusione. Ma il sostegno accordato dall'aristocrazia di Corte alla religione straniera assorbì molte risorse economiche dello Stato e conferì al clero buddhista un potere che andava al di là di quello spirituale, nonostante le norme introdotte a garanzia della separazione tra le istituzioni civili e quelle religiose. Questo legame tra istituzioni buddhiste e affari di governo fu collegato anche alla pratica, assai diffusa tra la nobiltà di Corte e tra gli stessi sovrani, di diventare monaci. Infatti, non solo la «carriera» monastica poteva risultare attraente per molti membri della nobiltà che si vedevano preclusa l'ascesa a elevati incarichi civili, ma per un certo periodo la scelta di ritirarsi nei templi buddhisti, specie in quelli militarmente efficienti e ben fortificati, sarebbe stata compiuta da alcuni Imperatori per meglio esercitare il loro potere politico. Nel corso del periodo Nara, il nesso tra religione e Stato fu tale da aprire una pericolosa disputa per il potere all'interno della stessa Corte imperiale, di cui furono protagonisti un'Imperatrice e un monaco buddhista.

Salita al trono nel 749 come quarantaseiesimo sovrano e preceduta in questa carica da altre sei donne, Koken fu una fervente buddhista, sotto il cui regno avvenne la grandiosa cerimonia di inaugurazione del Grande Buddha a Nara27. Ella raccolse cinquemila monaci nel Todaiji incaricati di recitare i "sutra", e impose pene assai rigide contro chiunque uccidesse un essere vivente, coerentemente ai princìpi della sua fede. Nel governo, Koken fece affidamento su due ministri della famiglia Fujiwara sino a quando, nel 758, ella abdicò a favore dell'Imperatore Junnin, per ritirarsi a vita monastica. La fiducia riposta in un monaco, Dokyo, che ella riteneva l'avesse guarita da una malattia, la indusse a concedergli vari titoli e privilegi, grazie ai quali il monaco assunse un potere tale da richiedere, nel 764, un intervento armato contro di lui. Ma Dokyo riuscì a sventare l'attacco militare, mentre l'ex Imperatrice riaccedette al trono in quello stesso anno con il nome di Shotoku e provvide a condannare all'esilio il suo predecessore. L'Imperatrice poté quindi elevare la posizione del monaco attribuendogli alte cariche: non solo quella di gran ministro, ma anche la carica di "hoo" con cui si designava un Imperatore che aveva abdicato per ricevere i voti buddhisti e dunque rigorosamente riservata a un ex sovrano. Il potere buddhista dominava ormai la Corte e l'ambizioso monaco pretese di essere nominato Imperatore, così come predetto da un oracolo di un famoso santuario shintoista. Si narra che pure l'Imperatrice si fosse consultata con le divinità, le quali avrebbero sentenziato che mai un suddito avrebbe potuto accedere al trono e che, in seguito a questo responso, ella avesse deciso di non abdicare a favore del monaco. Di fatto, la fine del potere di Dokyo fu determinata dalla morte dell'Imperatrice, avvenuta nel 770, a seguito della quale egli fu esiliato dalla capitale.

Dopo questo episodio, solo altre due donne sarebbero diventate Imperatrici, una nel diciassettesimo e una nel diciottesimo secolo, sebbene la successione al trono non fu ufficialmente limitata ai maschi sino al periodo Meiji28. Probabilmente, ciò fu in qualche modo legato al dubbio ruolo svolto dall'Imperatrice Shotoku come garante della continuità dinastica della stirpe Yamato, ma di certo questo costume si affermò anche a causa della bassa condizione accordata dal Buddhismo alle donne, in genere reputate come una categoria inferiore a quella maschile. D'altra parte, il premio più alto che spettava a una donna che aveva condotto un'esistenza esemplare era quello di incarnarsi in un uomo di umili condizioni; un fatto, questo, che di per sé precludeva alle monache la possibilità di raggiungere il "nirvana". Queste concezioni avrebbero via via influenzato il costume e la mentalità collettiva e, specie con l'affermazione di una società fondata sull'etica guerriera, le donne sarebbero state relegate a una posizione del tutto secondaria. Un'oasi fu invece rappresentata dalla vita di Corte, dove le aristocratiche mantennero una posizione elevata e in alcuni casi, come nel campo letterario, avrebbero detenuto un primato indiscusso nei confronti della controparte maschile, così come dimostrano i grandi capolavori della letteratura Heian partoriti dal pennello di raffinate e brillanti dame.

La vicenda di cui fu protagonista Shotoku spinse la Corte ad assumere un più equilibrato rapporto con il Buddhismo e a guardare con maggiore interesse a una filosofia laica, il Confucianesimo. Le forme di sostegno alle istituzioni religiose furono drasticamente ridotte e si cercò di adottare una più rigorosa politica economica, in considerazione anche di altri eventi che si andavano verificando nelle province. Infatti, buona parte del mecenatismo che aveva sostenuto il Buddhismo si era fondata sulla pressione fiscale esercitata sugli agricoltori, tra i quali la situazione divenne grave al punto da imporre, già verso la metà dell'ottavo secolo, una riduzione delle tasse per arginare un fenomeno sempre più diffuso, l'allontanamento cioè dei contadini dalle terre. L'estensione delle aree coltivabili, che avrebbe dovuto rispondere alla crescita demografica e portare nuove risorse nelle casse dello Stato, favorì invece l'affermazione di diritti nelle nuove zone messe a coltura che si distanziavano dalle concezioni basilari di «terre pubbliche» o di «diritti dell'Imperatore sulle risorse agricole del Paese», le quali rappresentavano il cardine delle grandi riforme attuate. Infatti, due provvedimenti (adottati nel 723 e nel 743) introdussero la possibilità di assumere il controllo privato delle terre bonificate per una o tre generazioni e perfino in perpetuo. La grande nobiltà e le istituzioni religiose poterono quindi acquisire il possesso privato di terre estese, che vennero esentate dal pagamento delle tasse al governo centrale e che richiesero la manodopera di quei contadini allontanatisi dalle risaie. Queste profonde contraddizioni del sistema fondiario generarono una crisi nel governo centrale, che fu avvertita anche a nord-est, dove le tribù di frontiera diedero vita a una violenta ribellione.

In questo clima, l'Imperatore Kanmu, che regnò dal 781 all'806, decise di allontanare la Corte dai grandi templi che, in gran numero, erano stati edificati nel perimetro di Nara e, nel 784, diede ordine di trasferire la capitale a Nagaoka. Una serie di sciagure, interpretate come funesti presagi e rivelatrici dello spirito di superstizione diffuso anche tra le classi dirigenti, indusse tuttavia a spostare nuovamente la sede del governo imperiale in un'area più propizia e amena, anche se è più verosimile ritenere che alla base della decisione vi fossero dispute politiche legate alla successione al trono che diedero origine a trame e assassinii. Nel 794, la Corte e il governo si mossero nella residenza imperiale edificata nella città cui Kanmu diede il nome di Heiankyo (la «capitale della pace e della tranquillità»), che per quasi undici secoli sarebbe rimasta la capitale imperiale e che fu poi ribattezzata Kyoto. Qui, come a Nagaoka, la costruzione della città richiese l'ingente impiego di manodopera rappresentata in gran parte dal lavoro di corvée dei contadini. In questa nuova sede, Kanmu tentò di rafforzare il controllo sugli affari di Stato. Oltre a vietare la costruzione di templi buddhisti all'interno del perimetro della capitale, il sovrano rese più solida l'amministrazione centrale creando nuovi organi di governo di cui egli e i suoi stretti consiglieri si servirono per esercitare un potere più efficace, e migliorando l'amministrazione locale e la riscossione delle tasse. Al fine di disporre di un più efficiente esercito da impiegare in primo luogo nelle zone di frontiera, nel 792 fu abolito l'obbligo del servizio di leva e introdotto un sistema di milizie locali (dette "kondei") arruolate tra la piccola nobiltà provinciale.

L'esempio di Kanmu fu seguito anche dai suoi tre successori, che come lui cercarono di tenere in vita i princìpi enunciati nel Codice Ritsuryo, ma ben presto una serie di fattori generò un allontanamento da queste concezioni, con immediate ripercussioni sull'esercizio del potere effettivo del sovrano. Come vedremo, a beneficiare di questa situazione furono le grandi famiglie di Corte e le istituzioni buddhiste, mentre nelle province riemersero i vecchi interessi legati alla realtà e alla logica degli uji. Le contraddizioni del sistema fondiario, già emerse nel periodo Nara, si fecero più acute, portando a crescenti aree di immunità fiscale che privarono il governo centrale di importanti entrate. Così, l'era Heian, che in genere viene identificata con un periodo di circa quattro secoli in cui questa città rappresentò il centro politico, sociale e culturale del Giappone, presenta molte fratture al suo interno, che interessano la struttura sociale, lo stile dell'amministrazione, l'organizzazione economica e il governo locale. Il periodo Heian evoca il mondo brillante e raffinato che le grandi opere letterarie del periodo ci hanno descritto. In effetti, si tratta di lavori redatti da una nobiltà che parla di sé ai propri simili. La realtà rappresentata dalle zone rurali e dalle province è del tutto assente dalle loro narrazioni, sebbene proprio da qui si sarebbero sviluppate quelle tensioni destinate a travolgere il loro mondo splendente.

 

 

Storia del Giappone
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