1. OCCIDENTE E ORIENTE.
Il Giappone fa parte di un contesto geografico-culturale che l'Occidente ha a lungo designato come Estremo Oriente, ovvero l'Oriente più remoto dall'Europa. Più che riflettere le articolate e dinamiche realtà sociali che si svilupparono nella zona orientale del continente asiatico, questo termine rispecchia l'idea che l'Europa andò plasmando di sé e del mondo esterno in seguito alla cosiddetta «rivoluzione atlantica». Si trattò di una radicale trasformazione delle rotte del traffico commerciale e del contenuto merceologico che interessò l'economia europea dopo la scoperta dell'America nel 1492, la quale avrebbe sottratto al Mediterraneo la funzione economica e politica detenuta per secoli e conferito al commercio una dimensione mondiale. Fu sulla scia di questi avvenimenti che nel 1498 le navi europee raggiunsero Calicut, sulla costa sud-occidentale dell'India, quindi la Malacca, le Filippine, la Cina e infine il Giappone.
Pur ponendosi al centro dell'universo mondo (in fondo, non differentemente da quanto la Cina aveva fatto autodefinendosi Zhongguo, ovvero «Paese di mezzo»)1, l'Occidente non sempre guardò all'ambiente extra-europeo in termini negativi. Infatti, all'epoca delle grandi scoperte geografiche e delle grandi navigazioni la presenza di popoli esterni non fu percepita con diffidenza né con ostilità. Se, ad esempio, le popolazioni pagane vennero identificate dal mondo cristiano con le tribù perdute di Israele e, dunque, come simboli viventi della narrazione biblica, il mito del «buon selvaggio», divulgato in primo luogo da Jean-Jacques Rousseau e contrapposto all'immagine dell'europeo corrotto e intollerante, esercitò un certo fascino sino a buona parte del Settecento. Molte tra le popolazioni con cui l'Europa entrò in contatto divennero oggetto di una benevola curiosità, così come accadde ai cinesi, la cui immagine fu proposta da numerose memorie e relazioni redatte e inviate in Europa dai missionari gesuiti, che a loro volta furono alla base di opere destinate a un più ampio pubblico. Il favore con cui fu accolta l'immagine della Cina è testimoniato dalla diffusione, in Francia e, quindi, in altri Paesi europei, della moda delle "chinoiseries" (porcellane, seta, ricami, lacche, mobili, paraventi, carte da parati, giardini, pagode, padiglioni e persino finti villaggi cinesi), che spesso assunse la forma di una vera e propria sinofilia. Neppure la pittura, la musica e il teatro restarono insensibili alla moda cinese; in Italia basterà ricordare la «stanza cinese» decorata da Gian Domenico Tiepolo nella Villa Valmarana a Vicenza o la Turandot scritta da Carlo Gozzi nel 1762. Altrettanto importante fu l'influenza esercitata sul pensiero europeo dalla civiltà cinese, la quale fu oggetto di una incondizionata considerazione da parte di molti pensatori: vi fu chi (come Leibniz nella prefazione alla "Novissima Sinica") ne lodò i «precetti dell'etica e della politica applicata alla vita sociale» per denunciare la corruzione dei princìpi morali nella società europea, o chi (come Auguste Comte e Voltaire), al fine di combattere i residui feudali nell'Europa del tempo, ne elogiò l'assenza di un'aristocrazia ereditaria. Questo entusiasmo sinofilo fu tale da indurre alcuni (specie Rousseau e, prima di lui, François Fénelon) a confutare l'idea che quella cinese fosse una civiltà superiore e persino a minimizzare i vantaggi derivati dalle scoperte e dalle invenzioni lì compiute, come la stampa, la polvere da sparo o la porcellana. Per quanto riguarda l'impatto che la Cina ebbe sulla mentalità europea, il riflesso più evidente riguarda forse il carattere di saggezza attribuito al cinese, che entrò a far parte di una visione condivisa e che sopravvisse in alcune pieghe del nostro immaginario collettivo anche quando l'atteggiamento nei confronti dell'Oriente mutò in modo significativo.
La cultura europea del Seicento e del Settecento non ebbe significative forme di interazione con gli altri Paesi situati nella regione orientale dell'Asia, i quali restarono quasi del tutto ignorati e comunque confinati a una estrema periferia dell'Oriente. D'altra parte, i contatti che per circa un secolo alcuni Paesi europei avevano intrattenuto con il Giappone furono interrotti dalle misure adottate dopo l'instaurazione del regime dei Tokugawa (1603-1867). L'intolleranza manifestata nei confronti dell'attività missionaria, la censura sulla circolazione di idee e libri stranieri e le limitazioni imposte al commercio estero non consentirono all'Europa di acquisire conoscenze specifiche riguardo al Giappone, né di forgiare un'immagine del suo popolo e della sua cultura. Ancora più netta fu la chiusura opposta dalla Corea all'influenza occidentale, in ambito commerciale così come religioso. Pertanto, in questa fase fu soltanto la cultura cinese, tra quelle dell'Asia Orientale, a essere conosciuta in Europa. La favorevole accoglienza che essa ricevette fu il riflesso del rapporto, complesso e articolato, che l'Europa aveva instaurato con l'Asia durante la fase di espansione geografico-mercantile caratterizzata non dal dominio territoriale, ma dal controllo dei traffici mercantili. In effetti, l'Europa non poteva ancora vantare quel primato che, dalla fine del Settecento, le avrebbe consentito di edificare un sistema coloniale fondato sull'idea che esistesse un unico esempio di civiltà e un solo modello economico-sociale, entrambi nati e sviluppatisi nel contesto europeo. D'altra parte, il grado di sviluppo tecnologico e dei modi di organizzazione economica che caratterizzava l'Europa del Cinquecento non consentiva ancora la messa a punto di quel moderno «sistema mondo» che si sarebbe dimostrato capace di dominare le sorti della vita economica e sociale di regioni sempre più estese. Anzi, per quel che concerne i traffici commerciali con l'Est, occorre ricordare che a beneficiarne furono soprattutto i partner asiatici, i cui prodotti (assai richiesti nei mercati europei) non venivano scambiati con merci prodotte in Europa, la cui domanda era assai scarsa nelle società dell'Asia. Fu così che ingenti quantità di argento giunto dall'America, assieme a una buona parte del metallo prezioso disponibile in Europa, transitarono verso l'Asia per compensare l'acquisto di cotone, tè, seta, spezie o pregiate porcellane. Né, in questa fase, la presenza europea in Asia riuscì a sortire un impatto aggressivo sulle istituzioni politiche e sociali, sui sistemi economici o, anche, sulle modalità di rapporto reciproco che governavano le relazioni tra gli Stati dell'Asia Orientale. Un aspetto, questo, che peraltro induce a prendere le distanze da talune interpretazioni fornite in merito agli effetti che la presenza europea avrebbe sortito su alcune società asiatiche laddove, ad esempio, si parla di «secolo cristiano» in riferimento alla storia del Giappone successiva all'arrivo dei portoghesi nel 1543.
Nel complesso, dunque, gli asiatici e le loro civiltà non occuparono una posizione di subalternità nell'immaginario collettivo europeo tra il Cinquecento e il Settecento, e il mito del «buon cinese» si perpetuò sino a quando non intervennero mutamenti significativi che alterarono il rapporto tra Occidente e Oriente e, con esso, la reciproca percezione del valore delle rispettive civiltà. Ciò avvenne allorché in Europa si verificò un generale innalzamento del livello di vita, che ebbe l'effetto di rendere più evidente la debolezza politica, la vulnerabilità economica e l'inferiorità militare delle società dell'Asia. La rivoluzione industriale, lo sviluppo del sistema capitalista, l'evoluzione della scienza e della tecnologia moderne, assieme alle ripercussioni che queste trasformazioni ebbero sull'attività produttiva, sull'ambito sociale, sui ritmi lavorativi e sull'esistenza quotidiana dell'individuo, rappresentano i molteplici aspetti di un fenomeno storico che riguardò non solo l'Europa, dato che ciò contribuì a rendere funzionante un «sistema mondo» teso a collegare le varie realtà sociali attraverso un legame di interdipendenza. Tale sistema, infatti, non si limitò a interessare i soggetti attivi, rilevanti all'interno di quel sistema, ma andò investendo zone periferiche e coinvolgendo anche quelli che potremmo definire soggetti passivi, tra cui i Paesi oggetto della colonizzazione occidentale. Prese così avvio un nuovo ciclo di espansione assai diverso da quello precedente, innanzi tutto in quanto lo sviluppo di tecniche industriali e di modi di organizzazione economica e del lavoro in cerca di nuovi spazi si fondò sullo sfruttamento di zone periferiche, che furono via via assorbite all'interno di questo sistema. Una ulteriore novità rispetto al passato è costituita dal fatto che i traffici commerciali non riguardarono più soltanto beni di lusso o materiali preziosi, ovvero prodotti richiesti in ristretti ambiti delle società interessate; il commercio si basò su merci di consumo, un consumo destinato a settori sempre più ampi delle società interne al sistema. E se, fino ad ora, erano stati i prodotti dell'Asia a transitare verso l'Europa, dalla prima metà del Settecento alcuni prodotti europei (come lana, rame e altri tessuti) cominciarono a essere sempre più richiesti nei mercati asiatici.
Al mutato rapporto economico e politico tra Europa e Asia corrispose una diversa percezione delle società asiatiche, considerate sempre più come immobili e stagnanti, nonché l'affermazione del mito dell'«uomo» bianco e, con esso, della superiorità dei valori e dei sistemi economico-sociali e politici di cui egli era portatore. D'altronde, l'industrializzazione fu soltanto una parte di quella che Eric Hobsbawm definisce come la «duplice» rivoluzione avvenuta nell'Europa tra fine Settecento e inizio Ottocento; l'altra è rappresentata da una serie di trasformazioni delle idee e dei modi di organizzazione politica, che concorsero alla definizione di forme di governo costituzionale e di ideologie nazionaliste necessarie per attivare tutte le potenziali risorse di una nazione. In altre parole, il modello economico-sociale, le tecniche e i modi di produzione che si svilupparono dal processo di industrializzazione in Europa furono sorretti da un'ideologia tesa a sottolineare la validità del modello di civiltà occidentale. Pertanto, la nascita della società capitalistica nell'Europa moderna, lo sviluppo degli Stati nazionali e la definizione di un nuovo sistema di relazioni tra le entità statali furono accompagnati sia da una progressiva alterazione del rapporto politico e militare tra Europa e Asia, sia da un radicale mutamento del giudizio espresso dagli europei verso gli asiatici. Si andò così affermando una nuova visione dell'Oriente come ennesima proiezione della nuova idea che l'Occidente aveva coniato di sé: una realtà barbara, arretrata e decadente situata alla periferia del mondo civile, progredito, moderno. Il mito del «buon cinese» fu superato per lasciare spazio al modello rappresentato ora dall'«uomo» bianco, dotato di una naturale superiorità culturale, morale e intellettuale rispetto a tutti gli altri popoli. Un modello, questo, che sarebbe stato dapprima imposto, quindi accettato e infine rifiutato, in Asia come altrove. Ciò sarebbe avvenuto con modalità ed esiti diversificati nelle varie società orientali ma, in termini generali, appare lecito dire che questo processo si articolò attraverso alcune fasi principali e comuni a molte di esse:
- una penetrazione commerciale attuata con gli strumenti propri del colonialismo e, se necessario, con l'uso delle armi, che incontrò forme di resistenza più o meno aperte e vigorose;
- un tentativo di liberarsi dalla propria condizione di subalternità attraverso la ricerca del «segreto» della superiorità economica e militare delle Potenze, che aprì la strada a forme di imitazione quali l'industrializzazione, la modernizzazione o la «occidentalizzazione»;
- il consolidamento di una coscienza nazionale e lo sviluppo di movimenti di liberazione nazionale che avrebbero aperto la strada a rivendicazioni anticoloniali e a prospettive di indipendenza2.
La nuova immagine di Oriente si riflette nei metodi e nei contenuti che l'Occidente privilegiò nel descrivere la storia dell'Asia o, piuttosto, la propria storia in Asia. Il giudizio sulle società asiatiche si basò sempre più sull'individuazione di caratteristiche definite per affinità o per contrasto rispetto al mondo occidentale, il quale costituì il termine di confronto per classificare e valutare il loro grado di sviluppo, di civilizzazione, di progresso. La visione eurocentrica, più o meno direttamente ispirata da un progetto di espansione economica e territoriale e, comunque, attestata su una prospettiva di osservazione unilaterale, fu incline a porre in risalto il ruolo positivo svolto dalla presenza occidentale nei Paesi di questa regione, specie per quanto riguarda l'opera di modernizzazione, di progresso e di civilizzazione, e a trascurare invece il contributo che alcuni di essi (specie la Cina e, pur se in misura assai minore, l'India)3 avevano dato allo sviluppo della civiltà occidentale.
A partire dagli anni Ottanta del diciannovesimo secolo, la transizione dal colonialismo all'imperialismo coincise con la trasformazione degli obiettivi dei Paesi occidentali (non più limitati all'ottenimento di nuovi mercati e aree di investimento, ma volti piuttosto ad acquisire il diretto controllo delle fonti di materie prime ricorrendo a nuove forme di penetrazione economica, dirigendo un crescente flusso di investimenti di capitale nelle colonie e mantenendo le regioni periferiche in condizioni di subordinazione), implicando un ulteriore decadimento dell'Oriente agli occhi del mondo europeo4. Ciò si rifletté nella cultura europea, dove si diffusero tendenze nazionaliste, xenofobe e razziste che, seppur in misura assai diversa, pregiudicarono il lavoro di quanti andavano specializzandosi negli studi sull'India, la Cina o il Giappone. Gli «orientalisti», infatti, pur se spesso mossi da un genuino desiderio di comprensione e dotati di strumenti filologici nelle loro ricerche, stentarono a riconoscere la soggettività delle popolazioni e delle civiltà asiatiche e difficilmente riuscirono a guardare alla storia di questi Paesi alla luce di un significato diverso da quello che essa aveva rivestito per l'Occidente. Nel complesso, questi orientamenti, chiaramente collegati al contesto storico-politico contingente, seguitarono a dominare la storiografia (e, anche, l'immaginario collettivo) occidentale sull'Asia almeno sino alla metà del Novecento.
Il progressivo superamento della visione della storia delle società dell'Asia come mera proiezione di quella europea e nordamericana è stato accompagnato dall'affermazione di una storiografia che ha allargato l'orizzonte intellettuale europeo, che è orientata ad analizzare dall'interno le società extra-europee e che si è dotata di nuovi strumenti filologici e metodologici. L'attività di una ricerca fondata su basi rinnovate, peraltro arricchita da tematiche inedite e da un proficuo scambio tra storici di formazione e provenienza diverse, ha contribuito non solo a superare il carattere unilaterale della storiografia sull'Asia, ma anche a fornire una visione che, ribaltando la prospettiva di osservazione, ha modificato in profondità le forme e i contenuti della narrazione storica e ne ha ampliato gli orizzonti. Questi sviluppi hanno risentito anche della sfida lanciata da studiosi di Paesi sottoposti al dominio dell'Occidente, i quali, attraverso l'affermazione della propria identità nazionale, intendevano affrancarsi dalla dominazione coloniale e dall'egemonia della storiografia eurocentrica. E' grazie a questi progressi che, oggi, è possibile ricostruire il processo storico dei Paesi dell'Asia partendo da una prospettiva di analisi collocata non più nel cuore dell'Occidente, ma all'interno delle singole società, che consente di cogliere la specificità delle loro dinamiche economiche, politiche, sociali e culturali. Il nuovo orientamento assunto dalla storiografia ha condotto all'affermazione dell'uso di Asia Orientale per indicare un contesto geografico-culturale al quale appare sempre più inadeguato guardare come all'Oriente più remoto dall'Europa.
Eppure, vale la pena di non sottovalutare i residui che l'eurocentrismo ha lasciato nella storiografia così come nella cultura del nostro Occidente progredito e industrializzato; residui che sono tuttora ravvisabili in espressioni, convinzioni e, anche, pregiudizi che fanno parte della nostra quotidianità. La tesi dei giapponesi come campioni dell'imitazione, ad esempio, viene spesso adoperata per spiegare il successo raggiunto in campo tecnologico, ma si fonda sulla negazione di una loro effettiva capacità di cogliere i princìpi che regolano le leggi del mondo «meccanico» degli occidentali, oltre che sull'implicita accusa di essere un popolo di plagiari; analogamente, l'immagine di una giapponese che, indossando un "kimono", parla a un telefono cellulare ripropone in genere il paradosso di una «persistenza della tradizione nella modernità» che apparterrebbe all'Oriente in modo pressoché esclusivo, e al Giappone in modo particolare, dato l'alto livello di industrializzazione da esso raggiunto. Tutto ciò alimenta una distorta visione del Giappone, così come di altre realtà culturalmente distanti dal mondo occidentale, e testimonia come la percezione dell'Asia Orientale in termini di "Oriente" continui ad agire a molti livelli della nostra immaginazione e conoscenza, pregiudicando una reale comprensione di quelle società.
Questa pur sommaria rassegna sul modo in cui il nostro mondo ha guardato all'Asia Orientale intende dunque suggerire un possibile approccio alla storia del Giappone, la cui difficoltà risiede spesso più nei limiti culturali e psicologici dell'osservatore occidentale che nella complessità delle vicende in essa racchiuse. Per comprendere il Giappone, infatti, occorre resistere alla tentazione di assumere il nostro mondo come unico termine di confronto, di servirsi in modo acritico di categorie e concetti propri della storiografia occidentale o, anche, di accogliere le interpretazioni, spesso semplicistiche e talvolta persino grossolane, che vengono proposte da un'informazione di massa impegnata a svelarci i «misteri dell'enigma giapponese». D'altra parte, il Giappone resta per molti versi un enigma anche per chi, pur continuando a esaminarlo, si trova ogni volta ad affrontare questioni nuove, a formulare domande inedite, a trattare aspetti singolari, talvolta perfino sorprendenti. Si tratta, tuttavia, di un problema comune a chiunque si interroghi sulla storia, passata e presente, di una determinata società, e dunque il Giappone non è in fondo più enigmatico di altri Paesi, compreso il nostro. Il problema riguarda piuttosto la necessità di dotarsi di strumenti interpretativi in grado di decodificare modelli culturali, comportamenti sociali o atteggiamenti collettivi fondati su un sistema di valori e di credenze poco noto, ma non per questo indecifrabile. Si tratta di capire, ad esempio, quale impronta abbiano dato certi valori confuciani alle modalità di relazione sociale, o quale sia l'influsso esercitato da talune credenze shintoiste sulla mentalità collettiva e individuale, in modo da rintracciare il rapporto che collega il sistema di valori alla pratica sociale, all'azione politica, alle tensioni economico-sociali o alle norme di comportamento e di comunicazione sociale. Occorre cioè considerare contestualmente una serie di aspetti cogliendone le reciproche connessioni che caratterizzano il processo storico giapponese, il quale scaturisce da una vicenda collettiva, ma è pure eco di valori intrinseci.
Una precisazione merita, infine, il ricorso a talune generalizzazioni necessarie per sintetizzare un processo storico che risulta essere ben più articolato e complesso di quanto sia possibile far emergere nelle pagine che seguono. Parlare di Giappone o di giapponesi, ad esempio, significa porre in rilievo quegli elementi comuni e costanti che, nel loro insieme, caratterizzano la nazione, il popolo e la società, e che conferiscono un senso compiuto, in qualche misura unitario, a un periodo o a un processo storico. Si tratta di una sintesi necessaria, che non deve comunque indurre a sottovalutare la composita e diversificata realtà racchiusa nell'uso generalizzato di astrazioni. Infatti, se provassimo ad analizzarlo nelle sue singole e differenziate espressioni sociali, politiche, economiche o culturali, un periodo o un evento storico tenderebbe ad apparire assai meno coerente e lineare. Così, parlare di Giappone o di giapponesi significa porre in secondo piano un mondo sommerso, più silenzioso, spesso assente dalle cronache e dalla storia ufficiale, il quale ha pur agito all'interno di un certo periodo o di un certo evento storico. Ma in un manuale di storia del Giappone non è possibile dare il giusto rilievo alle tante «altre storie» che potrebbero essere narrate a proposito della povertà rurale, dell'emarginazione sociale, delle esperienze religiose, della condizione femminile, del mercato del lavoro urbano e di molti altri mondi periferici, marginali o subalterni. D'altra parte, il presente lavoro è finalizzato a fornire gli strumenti fondamentali per comprendere le linee generali del processo storico del Giappone; e se alla fine della lettura resterà la curiosità di saperne di più, allora vorrà dire che lo scopo che esso si propone è stato raggiunto.