4. L'INTRODUZIONE DEL BUDDHISMO.

 

Nato verso la fine del sesto secolo a.C. in India, il Buddhismo individuava le cause della sofferenza umana nelle passioni, da cui era possibile liberarsi attraverso il progressivo annullamento della propria individualità, di quello che, in termini moderni, potremmo definire il «senso di sé»; una pratica, questa, che si esplica nel corso di una serie di reincarnazioni sino al raggiungimento del "nirvana", uno stato di completo annullamento dell'io che interrompe il ciclo delle reincarnazioni e segna il passaggio alla felicità e alla salvezza finale. Fu soprattutto la prospettiva di una salvezza nella vita ultraterrena contenuta nel messaggio buddhista a renderlo popolare tra i diversi strati sociali e a favorirne la diffusione in Asia Centrale, e quindi verso l'Asia Orientale e Sud-orientale. La progressiva trasmissione del Buddhismo (che a Occidente fu ostacolata dalla presenza di un'altra religione universale, il Cristianesimo) lo portò a interagire con vari contesti storico-culturali e, anche, ad adeguarsi a esigenze politiche differenziate. In Cina esso giunse verso il primo secolo d.C., non senza suscitare una reazione da parte di chi sosteneva la validità del messaggio di Confucio, secondo cui neppure dei barbari governati da un sovrano avrebbero potuto competere con una Cina priva della guida imperiale. Questo impulso etnocentrico non impedì comunque la diffusione del Buddhismo in un Paese che, all'epoca, assisteva a un deterioramento dinastico, accompagnato da lotte, carestie e miseria, e che trovò forse nel messaggio buddhista una qualche risposta alle incertezze del presente. Inoltre, l'addomesticamento della terminologia e del linguaggio originario, attraverso un'opera di traduzione che rese questa dottrina compatibile con il sostrato filosofico e religioso indigeno, favorì la diffusione del Buddhismo, che non solo divenne la religione più professata in Cina ma rappresentò anche una forza ideologica capace di sostenere la riunificazione politica avvenuta nel 589 sotto la dinastia Sui. Dalla Cina, esso era transitato nella penisola coreana nel quarto secolo, nel periodo dei Tre regni, dapprima guadagnandosi un progressivo favore da parte delle élites dominanti e, quindi, fornendo la giustificazione ideologica della monarchia assoluta affermatasi con l'unificazione del Paese sotto la guida di Siila, nel 668.

Quando, nella prima metà del sesto secolo, il Buddhismo cominciò a entrare nell'arcipelago giapponese, era trascorso circa un millennio dalla sua nascita, ed esso aveva ormai stabilito un solido legame con la sfera politica, dimostrando di essere in grado di offrire un buon servigio alle classi egemoni e al potere dello Stato. L'introduzione della nuova religione è posta in relazione a un episodio che, secondo il "Nihon shoki", risalirebbe al 552, mentre molti studiosi la collocano più verosimilmente attorno al 538, anche se occorre ricordare come, tra gli immigrati coreani e cinesi giunti nel periodo precedente a questo episodio, molti dovessero essere buddhisti. Si narra comunque che il sovrano di Paekche inviò a Kinmei, il capo della confederazione Yamato, una statua e alcune scritture buddhiste, assieme a un messaggio dove il Re coreano spiegava i vantaggi derivanti da questa dottrina, la quale poteva «soddisfare tutti i "desideri" in proporzione all'uso» che di essa si faceva. Appare evidente come, da disciplina spirituale finalizzata ad annullare i desideri, il Buddhismo si fosse trasformato in una sorta di potente forma magico-rituale in grado di soddisfarli. Il 538, dunque, è la data convenzionalmente assunta per segnare l'ingresso del Buddhismo, che tuttavia non diede avvio a un fenomeno destinato a interessare le masse popolari (tra le quali il messaggio buddhista sarebbe stato diffuso solo molti secoli dopo), ma determinò una contrapposizione fra le élites al potere, divise in favorevoli o avverse a introdurlo nel Paese.

Infatti, dopo aver ricevuto questi doni, Kinmei consultò altri importanti capi uji, tra i quali emersero pareri contrastanti in merito al futuro da destinare a questa nuova dottrina. In quel periodo, il clan Yamato aveva consolidato una posizione suprema all'interno di una confederazione di uji, con ciascuno dei quali aveva stabilito vincoli di parentela attraverso una proficua politica di matrimoni atta a rinsaldare le alleanze. Il sistema di titoli onorifici (noti come "kabane") assegnati ai singoli clan serviva a stabilire una sorta di graduatoria di potere, che era proporzionale al grado di vicinanza che ciascuno di essi aveva rispetto alla stirpe egemone. Per i capi legati da lontani vincoli di parentela con il clan Yamato, la massima ambizione era quella di ottenere il titolo di "omi", mentre il titolo più elevato riservato a tutti gli altri era quello di "muraji". Fu dal contributo fornito da alcuni tra questi potenti uji (specie il clan Mononobe, il quale aveva il compito di mantenere un corpo di guerrieri professionisti) che dipese l'attività militare nella penisola coreana cui si è già accennato. Lo status dei singoli clan corrispondeva a una funzione precisa, che andava dall'esecuzione dei riti ufficiali shintoisti al diritto di fornire consorti al capo Yamato. Tuttavia, non sempre le alleanze, i legami parentali o il conferimento dei titoli onorifici riuscivano a preservare l'autorità dell'uji Yamato dalle ambizioni dei potenti capi locali, che ostacolavano così il processo di consolidamento di un potere centralizzato e la sua eventuale trasformazione in una vera e propria struttura statale. Lo stesso problema relativo all'accettazione della religione straniera non poteva dunque essere affrontato all'interno dell'uji Yamato, tanto più che molti clan vedevano in ciò una minaccia alla posizione che essi occupavano anche grazie alla loro presunta discendenza da importanti divinità locali.

La contrapposizione tra i fautori e gli avversari dell'introduzione del Buddhismo può pertanto essere considerata come uno scontro tra clan che cercavano di tutelare i loro interessi e prerogative. Non a caso, infatti, a favore dell'accettazione della nuova dottrina si schierarono i Soga, che di recente erano immigrati dalla penisola coreana e che, occupando un ruolo di mediazione tra le due zone, erano favorevoli al proseguimento degli scambi con il continente, così come all'introduzione di tecnologia e idee nuove. La legittimazione del potere di questo uji, che pur aveva stabilito vincoli di parentela con il clan Yamato, non si fondava dunque sui culti indigeni, a differenza di quanto accadeva per altri uji di ben più antiche origini, come i Mononobe, che motivarono la loro ostilità con il fatto che l'ingresso di una dottrina straniera avrebbe potuto offendere i kami locali e persino «scatenare la loro ira». Al di là di un più o meno genuino sentimento di devozione che stava alla base del fronte «conservatore», appare evidente che la difesa del culto indigeno fu sostenuta da quanti ricavavano potere da esso, come nel caso dei Nakatomi, il clan che forniva i sacerdoti addetti ai riti ufficiali shintoisti. Il confronto tra i due schieramenti giunse a una soluzione solo a seguito di uno scontro militare, che portò i Soga a uscirne vittoriosi nel 587. Ciò conferì a questo clan una solida posizione di potere grazie alla quale furono in grado di proseguire la loro politica favorevole all'apertura verso il continente. Da questo momento in poi, infatti, un costante flusso di nuove idee e concezioni provenienti dalla Cina, dove nel frattempo era andata maturando una forma di governo progredita, contribuì allo sviluppo di uno Stato unificato sotto la guida di un sovrano.

L'introduzione del Buddhismo stimolò una trasformazione dei costumi, dell'architettura e dei riti funebri, tra cui il superamento della sepoltura a favore della cremazione; pertanto, vi fu un progressivo abbandono della pratica di costruzione delle tombe a tumulo (definitivamente vietata nel 646) a favore di ricchi templi, che divennero un nuovo simbolo del potere. Questa transizione si verificò a partire da circa la metà del sesto secolo, che segnerebbe quindi la fine del periodo Kofun. Alcuni studiosi individuano con maggiore precisione la data conclusiva di questo periodo nel 587, anno in cui la vittoria del clan Soga determinò l'effettiva adozione della nuova religione tra le élites dominanti, mentre altri (in prevalenza archeologi) sono concordi nel porre in relazione la fine del periodo non con l'ingresso del Buddhismo, ma con lo stabilimento della capitale imperiale a Nara, avvenuto nel 710. In questo caso, tuttavia, più che di periodo Kofun (il quale ha appunto un valore innanzi tutto in termini archeologici), sarebbe più opportuno parlare di periodo Yamato, ponendo così in evidenza la continuità del processo che si sviluppò pressappoco dal terzo secolo d.C. e che vide una graduale affermazione del potere del clan egemone nell'omonima regione sino all'istituzione dello Stato imperiale. Occorre poi considerare come a partire dalla metà circa del sesto secolo, oltre al superamento dell'uso di costruire questo tipo di monumenti funebri e ai mutamenti collegati alla vittoria del fronte pro buddhista, si registrino altre importanti novità che riguardano in primo luogo l'accresciuta disponibilità di fonti scritte cui far riferimento per ricostruire le vicende svoltesi nell'arcipelago giapponese.

L'introduzione del sistema di scrittura cinese (che avvenne sotto forma di testi religiosi e filosofici buddhisti e confuciani e che, secondo la cronologia ufficiale, fu opera di due coreani giunti verso la fine del terzo secolo) non diede un immediato avvio alla stesura di opere e di cronologie ufficiali, come invece accadeva già da molto tempo in Cina, e solo in seguito la classe dominante si rese conto del servigio che la scrittura poteva offrire alla trasmissione del pensiero politico, filosofico e religioso così come al consolidamento e all'esercizio del potere18. Pertanto, ben pochi documenti di questo periodo (costituiti per lo più da iscrizioni su spade e specchi) sono giunti sino a noi, ma le fonti cinesi del tempo e le opere redatte dai giapponesi agli inizi dell'ottavo secolo contengono numerose informazioni relative alla vita nell'arcipelago giapponese nei secoli precedenti. In particolare, il "Kojiki" e il "Nihon shoki", pur riferendosi al periodo Kofun in termini in parte mitologici e in parte semileggendari, contengono notizie attendibili anche sul piano storiografico in relazione al periodo successivo al sesto secolo. E' a questo punto che si compie anche un importante passaggio nella cronologia della successione imperiale, in quanto si chiude la lista degli Imperatori mitologici e prende avvio la successione dei sovrani storici. Ciò significa che, se per il periodo Kofun disponiamo di una serie di informazioni contenute in fonti scritte a posteriori di per sé non sufficienti a ricostruire l'evoluzione politica, economica e sociale senza l'ausilio delle ricerche archeologiche, a partire da circa la metà del sesto secolo è possibile far riferimento a documenti scritti, che aumentano in termini numerici e qualitativi e che diventano lo strumento privilegiato nel lavoro storiografico. In definitiva, in questo periodo si può individuare un momento di transizione assai rilevante: quello tra il periodo protostorico e quello propriamente storico.

 

 

Storia del Giappone
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