5. LA PACE DI VERSAILLES E LA «VITTORIA MUTILATA».
Lo sviluppo economico e le trasformazioni sociali conseguenti alla prima guerra mondiale crearono nella società giapponese grandi attese per il dopoguerra. In ampi strati della popolazione si diffuse un profondo senso di orgoglio nazionale, alimentato dai nazionalisti e favorito dalla propaganda del blocco di potere dominante. Il Giappone era una nazione vittoriosa che doveva sedere a pieno titolo al tavolo dei vincitori occidentali. Tuttavia, le aspettative, certamente sovradimensionate rispetto al contributo dato alla vittoria (il Giappone non aveva inviato contingenti militari in Europa), andarono in parte deluse.
L'espressione «vittoria mutilata», propria dello sciovinismo italiano dopo la prima guerra mondiale, ben si attaglia al sentimento diffuso in Giappone nella classe dominante e fra i ceti popolari all'indomani della firma del Trattato di pace. Durante il primo conflitto mondiale, il Giappone aveva tentato di consolidare la propria egemonia in Asia Orientale. Pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, l'Esercito e la Marina giapponesi avevano attaccato le isole del Pacifico e i possedimenti in Cina sotto la giurisdizione della Germania. Il Giappone prese così possesso della penisola dello Shandong e delle isole Caroline, Marianne e Marshall. La diplomazia di Tokyo, a fronte delle crescenti difficoltà degli Alleati dell'Intesa completamente assorbiti dallo sforzo bellico in Europa e, dunque, senza possibilità alcuna di vigilare in Asia, attuò una politica finalizzata a trasformare la Cina in colonia giapponese. A tale scopo, nel 1915 presentò al presidente della Repubblica cinese, Yuan Shikai, le «Ventuno richieste», attraverso le quali Tokyo intendeva controllare le scelte economiche e di politica internazionale della debole repubblica, fondata il primo gennaio 1912. Anche se il governo cinese accettò soltanto sedici delle ventuno clausole, l'imposizione di Tokyo accrebbe l'egemonia giapponese in Cina. In ciò, Tokyo fu favorita sia dalla mancanza di una presenza politica occidentale a causa del conflitto europeo, sia dalla frammentazione della Cina. Infatti, dopo l'avvento della Repubblica, ben presto in Cina presero il sopravvento i «Signori della guerra», despoti regionali in grado di contenere gli sforzi unitari dei nazionalisti di Sun Yatsen.
Nel periodo bellico, il governo giapponese intensificò la propria offensiva diplomatica che, come dimostrano le «Ventuno richieste», aveva al centro la questione cinese. Tokyo strinse una serie di accordi segreti finalizzati al mantenimento di una condizione privilegiata al termine del conflitto. Inoltre, spinto da questa esigenza e dal timore, peraltro comune alle Potenze imperialiste, di una vittoria della Rivoluzione bolscevica, il governo giapponese aderì alle sollecitazioni degli Alleati e partecipò alla «spedizione» in appoggio ai generali e alle armate «bianche» che in Siberia combattevano contro i bolscevichi. La preoccupazione del blocco di potere dominante in Giappone per l'eventuale vittoria bolscevica era dettata, oltre che dall'intento di difendere i propri interessi in Cina, dal timore che, a causa della vicinanza con il Giappone, una massiccia penetrazione dell'ideologia comunista destabilizzasse i rapporti di potere esistenti a seguito di una massiccia adesione del proletariato al marxismo. Segnali preoccupanti per il blocco di potere dominante vennero nel 1919, con i movimenti del Primo marzo in Corea e del Quattro maggio in Cina. Infatti, in entrambi i casi gli organizzatori seppero coagulare ampi settori dell'opinione pubblica intorno alla protesta antimperialista, che si sostanziò nel sabotaggio dei prodotti giapponesi. Contro lo spettro del comunismo, quindi, l'armata giapponese fu mantenuta in Siberia fino al 1922, nonostante che le truppe degli altri Paesi partecipanti alla spedizione internazionale avessero abbandonato l'impresa da tre anni.
Alla Conferenza di pace di Versailles la delegazione giapponese, guidata da Saionji Kinmochi, non riuscì a far accogliere tutte le richieste presentate. Al Giappone fu assegnato il mandato di «tipo C» sulle isole del Pacifico ex tedesche e fu riconosciuta l'acquisizione dei diritti sulle miniere e sulla ferrovia (lunga 400 chilometri) nella penisola cinese del Jiaochou precedentemente in affitto alla Germania; la questione dello Shandong fu tuttavia rinviata a trattative dirette fra il Giappone e la Repubblica cinese, anch'essa alleata dell'Intesa. Il punto di maggiore attrito tra il governo di Tokyo e gli Alleati fu rappresentato dal mancato riconoscimento della parità razziale, cui si opposero il Presidente statunitense Woodroow Wilson e quello australiano Charles Evans Hughes. La mancata accettazione della richiesta avanzata dal Giappone è da ricercarsi nel timore da parte dei governi statunitense e australiano per la crescente immigrazione di asiatici, in particolare cinesi e giapponesi; timore, questo, che nella prima metà degli anni Venti avrebbe determinato la restrizione totale dei flussi migratori dall'Asia. La sconfitta diplomatica ebbe notevoli ripercussioni. All'interno del blocco di potere dominante, crebbe l'opinione che le Potenze occidentali, nonostante il supporto economico del Giappone agli Alleati dell'Intesa, intendessero mantenerlo in una posizione di subordinazione politica e, dunque, anche economica. Tra ampie masse della popolazione venne rafforzandosi uno sciovinismo che, partendo dal presupposto della quasi identità tra razza, società e nazione, accentuò ancor più l'antioccidentalismo, fondandolo sui princìpi della «liberazione dei popoli e dei Paesi dell'Asia» dall'«imperialismo bianco».
La Conferenza di pace di Versailles, dunque, determinò nuovi, ma assai precari, rapporti non soltanto in Europa ma anche in Asia. Poco tempo dopo, dal novembre del 1921 al febbraio del 1922, si tenne la Conferenza di Washington delle nove Potenze (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia, Belgio, Olanda, Portogallo, Cina e Giappone) che registrò il declino del primato mondiale della Gran Bretagna e sancì il contenimento delle aspirazioni giapponesi nell'area del Pacifico. Nel corso della Conferenza, fu sancita la fine del Trattato anglo-giapponese, sostituito da un Trattato del Pacifico firmato da Giappone, Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia; il Giappone fu costretto a restituire alla Cina la penisola del Jiaochou. Inoltre, il Trattato navale stipulato il 6 febbraio fissò la formula 5 : 5 : 3 : 1,5 : 1,5 per codificare il rapporto delle grandi navi da guerra di Stati Uniti, Gran Bretagna, Giappone, Francia e Italia. I risultati degli accordi internazionali di Versailles e Washington furono accolti come sconfitte diplomatiche da una parte del blocco di potere e dai gruppi nazionalistici, i quali intensificarono la propaganda sciovinista conquistando sempre maggior seguito fra i quadri intermedi dell'Esercito e i ceti piccolo-borghesi. In sostanza, in Giappone prevalse un giudizio fortemente negativo sulla volontà degli Stati dell'Intesa di riconoscere il ruolo di sostegno svolto dal Giappone durante il conflitto mondiale. Comparvero le prime invettive contro l'«imperialismo bianco», riproposizione aggiornata dello slogan antecedente all'apertura del Paese: "joi", «cacciare i barbari», allora dal Giappone, ora dall'Asia. Le rivendicazioni dei gruppi nazionalistici trovarono fertile terreno in una società percorsa da forti tensioni. Nel novembre del 1921 un fanatico nazionalista assassinò il primo ministro Hara, il quale era stato oggetto di accuse di corruzione e ritenuto responsabile principale dei «cedimenti» giapponesi a Versailles. I ceti medi delle grandi aree urbane e gli intellettuali sostenevano rivendicazioni di stampo liberale, chiedendo in particolare l'istituzione del suffragio universale e la revisione della Costituzione. Nelle fabbriche e nelle campagne erano ancora presenti le conseguenze della crisi economica provocata dalla drastica riduzione delle esportazioni dopo la fine della prima guerra mondiale, espresse anche sotto forma di scioperi operai e lotte per l'affittanza.