1. LA CRISI DELLA SOCIETA' FEUDALE E I PRODROMI DELLO STATO NAZIONALE.
Nell'ultima parte del periodo Edo, si ravvisavano ormai i sintomi evidenti della crisi che investiva la società e il sistema economico feudale. Il malessere nelle zone rurali si manifestava con crescente ricorrenza sotto forma di insurrezioni contadine rivolte contro le autorità feudali, che avevano assunto le sembianze di un fenomeno endemico, raggiungendo punte estreme nel corso dell'era Tenpo (1830-1844). Un ulteriore indice del disagio economico e sociale che affliggeva vari settori della classe agricola è rappresentato dal proliferare di movimenti religiosi di natura messianica e di nuove sette popolari i quali, negli ultimi decenni del periodo, si guadagnarono un forte seguito tra le masse contadine in cerca di un sollievo e di una sicurezza in grado di alleviare le incertezze e le privazioni della vita quotidiana. Neppure le città furono immuni da esplosioni di violenza, che interessarono diversi strati della società urbana, compresi i samurai tra i quali si registrò un diffuso malcontento dovuto alle difficili condizioni economiche in cui molti di essi versavano. Nel complesso, tuttavia, il disagio e l'insoddisfazione che, pur con motivazioni diverse, accomunò i vari settori della società urbana e delle zone rurali non produssero quella unitarietà necessaria a trasformare la protesta in un'istanza più propriamente politica che vedesse le masse compartecipare al sovvertimento del sistema di governo o dell'assetto economico e sociale.
Negli ambienti politici e intellettuali la percezione della crisi in atto stimolò riflessioni e soluzioni molteplici: vi fu chi propose il ritorno a una società totalmente agricola, chi auspicò il rinvigorimento dell'efficienza del governo militare e della sua politica economica, chi guardò al consolidamento di una identità nazionale fondata sul corredo tradizionale come a un mezzo adeguato per ritrovare fiducia nel «sistema nazionale» e per misurarsi con la minaccia esterna o, ancora, chi suggerì un miglioramento scientifico e tecnologico in campo agricolo e militare ispirato ai progressi compiuti in tal senso dall'Europa. In effetti, se nel corso del diciottesimo secolo si era andata diffondendo in Giappone la consapevolezza dell'esistenza di un Occidente evoluto sul piano scientifico e tecnologico, già verso la fine del secolo tale percezione fu sempre più pervasa dal timore generato dalla presenza degli occidentali in Asia Orientale, la quale appariva ben diversa rispetto all'esperienza verificatasi nel Cinquecento. Come si è accennato nel capitolo introduttivo, l'aspetto inedito rispetto al passato era rappresentato non solo dal mutato equilibrio in campo scientifico, economico e militare tra l'Europa e l'Asia, ma soprattutto dall'affermazione del «sistema mondo» che accompagnò lo sviluppo della società capitalistica in Occidente. Pertanto, il fermento intellettuale, già stimolato dalle difficoltà politiche, economiche e sociali che si registravano sul versante interno, fu ulteriormente sollecitato dalle trasformazioni che stavano avvenendo nell'assetto internazionale. Ciò si riscontra in buona parte delle opere prodotte tra la fine del Settecento e la prima metà dell'Ottocento e incentrate attorno ai temi della difesa delle frontiere, della politica di limitazione dei contatti con l'estero, della sicurezza e dell'identità nazionale.
Gli studi occidentali, che sino ad allora erano rimasti confinati in un ristretto ed erudito ambito, cominciarono a trovare un'applicazione nei problemi concreti del Paese specie a seguito del tentativo attuato nel 1792 dalla Russia di stabilire rapporti commerciali con il Giappone. Seppure prontamente rifiutata dalle autorità di Edo, tale richiesta aveva indotto il bakufu a provvedere alla colonizzazione di Ezo (l'odierna Hokkaido, dov'erano giunti i rappresentanti russi) e a stabilirvi un proprio commissario. In effetti, in un'opera apparsa l'anno precedente a questo episodio, il "rangakusha" Hayashi Shihei (1738-1793) aveva già denunciato il pericolo russo così come l'inefficacia delle misure difensive predisposte dal bakufu, e aveva suggerito di guardare al modello occidentale, incorrendo così nella disapprovazione delle autorità, che ordinarono la distruzione dei caratteri del libro e l'esilio di Hayashi101. Anche Honda Toshiaki (1743 -1820), che fu tra i primi grandi conoscitori dell'Occidente ma la cui opera ebbe una limitata eco tra i suoi contemporanei, affrontò il problema della vulnerabilità delle frontiere di fronte alla minaccia esterna ricercando la soluzione non tanto nella fortificazione delle coste, quanto piuttosto nella costruzione di una solida flotta in grado di sostenere un'espansione territoriale che avrebbe fornito uno sbocco all'aumento demografico del Giappone, nuove opportunità al commercio estero e la possibilità di accumulare moneta e metalli preziosi. La generazione successiva dei fautori dell'adozione della scienza e della tecnologia occidentali per scopi difensivi, tra cui Takashima Shuhan (1798-1866) e Sakuma Shozan (1811-1864), ebbe modo di rendersi conto del reale pericolo che minacciava il proprio Paese grazie alle notizie che giungevano dalla Cina, costretta ad accettare le umilianti condizioni che seguirono la sconfitta infetta nella Guerra dell'oppio, di cui si dirà nel prossimo paragrafo.
Parallelamente, anche le elaborazioni dei kokugakusha esercitarono un forte influsso su molti giapponesi di questo periodo, date le implicazioni che esse avevano con la sfera spirituale e religiosa, e per il primato che assegnavano al Giappone. A questo proposito, oltre al già citato Hirata Atsutane, la cui assidua attività a sostegno del rinnovamento dello Shintoismo e del prestigio della dinastia imperiale lo fece incappare nelle maglie della censura governativa, occorre ricordare l'opera svolta da Aizawa Seishisai (1782-1863), uno dei maggiori esponenti della scuola di Mito, la quale concorse ad alimentare lo sviluppo dell'ideologia nazionalista e del movimento antifeudale. Nella sua opera "Shinron" (Nuove tesi, 1825), che prese a circolare clandestinamente, egli formulò la teoria del «sistema nazionale» (kokutai) esaltando la figura e il ruolo del sovrano imperiale e condannando le perniciose dottrine straniere (prime fra tutte il Buddhismo); inoltre, qui egli concepì il confronto con l'Occidente come una sorta di occasione storica, ovvero come la spinta per un rinnovamento morale che il Giappone avrebbe dovuto compiere per forgiare una solida identità nazionale. In queste idee emerge la portata ideologica e politica del messaggio di Aizawa, il quale sarebbe stato accolto dal movimento xenofobo noto come "joi" (cioè «espulsione dei barbari» occidentali) affermatosi all'indomani della «riapertura» del Paese nel 1854 assieme al movimento lealista rappresentato dallo slogan "sonno" (venerazione dell'Imperatore). Da ciò emerge poi un rilevante aspetto che distingue la riflessione dei kokugakusha, mossa dalla volontà di difendere l'identità nazionale e il patrimonio tradizionale contro il predominio culturale cinese, da quella degli studiosi della scuola di Mito la cui reazione, scevra da toni anticonfuciani, fu diretta in primo luogo contro la minaccia occidentale. Ciò che invece tende ad accomunare la loro opera è il contributo che essi fornirono alla rivalutazione degli antichi miti shintoisti, della tradizione imperiale e del patrimonio indigeno, così come il rilievo politico che ebbero come precursori della restaurazione del ruolo storico del tenno, della promozione dello shinto a culto ufficiale dello Stato e dell'affermazione di un nazionalismo incentrato attorno all'idea di unicità e al carattere divino del popolo e della Nazione giapponese. Inoltre, l'attività di questi studiosi provvide, nel complesso, a dare una risposta rassicurante in termini culturali al senso di inquietudine e alla crisi d'identità che molti giapponesi del tempo avvertirono.
Negli ultimi anni del regime Tokugawa (cui gli storici giapponesi si riferiscono come periodo "bakumatsu", o «fine del bakufu»), esisteva dunque un fermento intellettuale che conferma senza dubbio l'esistenza di tensioni profonde nella società giapponese, ma che suggerisce anche l'immagine di un Paese dinamico alla ricerca di soluzioni capaci di far fronte alla crisi interna e alla pressione esterna. Il senso di crisi generato dall'atteggiamento che l'Occidente andava assumendo in Asia Orientale si intrecciò con la diffusa insoddisfazione che scaturiva di fronte alla palese incapacità dimostrata dal bakufu di attuare un'efficace politica di risanamento economico, confermata ancora una volta dal fallimentare tentativo di riforma compiuto in extremis da Mizuno Tadakuni (v. cap. 4 par. 3). Ciò ebbe l'effetto di aggravare la frattura tra governanti e governati, di incrinare la compattezza del fronte shogunale e di indurre le autorità di alcuni han a cercare di fronteggiare la situazione a livello locale, dando vita a esperimenti riformistici volti a sanare le finanze dei propri domìni. I tentativi più significativi si ebbero a Choshu e a Satsuma, che percorsero strade diverse per rimediare allo stato deficitario dei propri bilanci. Choshu attuò un programma teso in primo luogo a migliorare l'assetto agricolo e a ridurre drasticamente le spese; anche gli sforzi destinati alle attività commerciali fruttarono una certa quota di ricchezza che lo han poté investire per migliorare la sua organizzazione militare e per procurarsi equipaggiamenti occidentali. Satsuma, invece, grazie al controllo che aveva istituito sui traffici commerciali delle Ryukyu e al monopolio che deteneva sulla produzione dello zucchero del Regno meridionale, puntò soprattutto sull'attività mercantile. Il successo di queste come di altre iniziative locali che si ebbero in varie zone del Giappone fu comunque limitato dall'assenza di un quadro generale di riferimento, che poteva essere assicurato soltanto da una robusta e energica autorità politica nazionale. Questa sembrò essere una delle condizioni necessarie affinché le potenzialità economiche che si erano create in Giappone potessero uscire dai limiti imposti dal sistema feudale per trovare nuove prospettive e opportunità.
Ma il Giappone della prima metà dell'Ottocento possedeva anche altre potenzialità che gli avrebbero consentito di edificare uno Stato moderno, le quali non riguardavano soltanto lo sviluppo di un capitale mercantile e rurale, un certo grado di accentramento politico, una struttura amministrativa e burocratica formata da personale competente e dalla diffusione dell'istruzione a diversi livelli della società. Per destreggiarsi nella rete di rivalità e alleanze, infatti, occorreva trasformare il Giappone in una nazione forte e coesa, creando una nuova forma di potere capace di garantire la sicurezza territoriale, di gestire l'amministrazione e le risorse umane e materiali del Paese, e di dotare le masse di una solida coscienza nazionale e di un'ideologia nazionalista in grado di assicurare il loro appoggio e consenso agli imperativi dello Stato. Il Giappone del tardo Tokugawa racchiudeva molteplici risorse in tal senso. In primo luogo, le sue frontiere storiche non avevano subito significative modifiche negli ultimi secoli e, da un punto di vista geografico, esso comprendeva (con le pur vistose eccezioni dello Hokkaido e di Okinawa) lo stesso territorio che sarebbe stato inglobato nello Stato Meiji. Questo spazio geografico racchiudeva vari elementi che potevano essere usati come simboli di unità nel presente e di continuità con il passato, come la comune storia di Impero, la permanenza di una forma di autorità sovrana ancorata all'idea di sacralità, il patrimonio ideale e il rituale collettivo dello Shintoismo, da cui l'identità del popolo giapponese poteva attingere in termini di unità etnica e persino razziale. Come si è visto, questi temi erano stati affrontati nel dibattito degli studiosi kokugaku e di Mito, che preparò il terreno alla rielaborazione degli elementi tradizionali in chiave moderna, ed ebbe una portata sensazionale come collante sociale e ai fini del discorso nazionalista, laddove ad esempio veniva suggerito che ogni giapponese fosse shintoista e che per essere shintoisti fosse indispensabile essere giapponesi. Vi era poi un altro importante aspetto che questi studiosi non avevano trascurato e che riguardava un drammatico problema di fronte al quale si trovò il Giappone del tardo Tokugawa, cioè la ricerca di una nuova posizione in un contesto internazionale che andava rapidamente mutando. La contestazione del primato culturale cinese e della concezione sinocentrica prevalente nel mondo asiatico orientale aveva stimolato il processo di emancipazione dell'identità e del ruolo del Giappone e l'aspirazione a garantirsi una posizione meno marginale. Pur se inizialmente limitate a una ristretta élite, queste concezioni furono oggetto di un interesse che crebbe con l'aumentare della pressione occidentale, inducendo alcune autorevoli voci ad affermare come l'espansionismo fosse il rimedio al problema della sicurezza nazionale. Oltre al già citato Honda Toshiaki, che prospettò l'idea di un Impero esteso sino alle Aleutine e all'estremità settentrionale dell'America con capitale in Kamchatka, occorre ricordare a tale proposito Yoshida Shoin (1830-1859), un samurai di Choshu autore di un celebre brano in cui afferma: «[...] se il Paese non si espande declina. Per salvaguardare il Paese non basta mantenere le posizioni che esso ha, ma occorre conquistarne di nuove»102.
In definitiva, la nuova forma di rapporto che il Giappone avrebbe stabilito con il mondo esterno e i radicali mutamenti che avrebbero interessato le sue istituzioni politiche, economiche e sociali scaturirono dalle scelte che i governanti nipponici furono in grado di operare all'interno di una serie di possibilità, le quali comunque dipesero dalle effettive condizioni economiche, sociali e culturali che il Paese aveva maturato, e che non poterono prescindere dagli effetti generati nelle regioni dell'Asia Orientale dal processo di espansione del «sistema mondo» messo a punto dall'Occidente.