5. IDEOLOGIA E IDENTITA' NAZIONALE.
Dalle reminiscenze di Ito traspare pure l'impianto ideale e ideologico attorno al quale la Costituzione Meiji fu concepita, specie laddove afferma: «c'era una peculiarità delle nostre condizioni sociali che è senza rispondenza in qualsiasi altro paese civilizzato. Omogenei per razza, lingua, religione e sentimenti [...] noi, nel periodo di isolamento [feudale] diventammo inconsapevolmente un'immensa comunità di villaggio»147. Emerge qui l'idea di popolo di cui lo Stato nazionale Meiji intendeva dotarsi, evidentemente concepita in termini esclusivistici. E' vero, infatti, che la costruzione di un moderno Stato centralizzato implicò anche il superamento della eterogeneità sociale e geografica che aveva caratterizzato il Giappone sotto il sistema bakuhan al fine di favorire l'unità nazionale. Ciò, infatti, era necessario sia per ottenere un consenso unanime verso le rapide e spesso dure trasformazioni imposte alla società da questo processo (basti pensare al 'sacrificio' della classe samuraica o di vari settori del mondo contadino), sia per far fronte ai problemi di sicurezza interna ed esterna (a ciò, in fondo, serviva un «esercito forte» e affidabile). Tuttavia, essendo fondata sulla premessa della superiorità del modello occidentale, la modernizzazione pose un serio dilemma in relazione all'identità nazionale. Dopo un'iniziale infatuazione delle idee occidentali, gli oligarchi - e, in verità, anche molti esponenti del movimento liberale - si resero conto dei rischi che comportava la diffusione di alcune concezioni, come la libertà e l'individualismo; essi, pertanto, preferirono limitare la validità del modello occidentale al suo «sapere» ("yosai"), difendendo invece lo «spirito giapponese» ("wakon")148. Queste scelte furono ufficializzate nella Costituzione Meiji, che riconobbe giuridicamente i giapponesi come «sudditi» ("shinmin") di un sovrano divino «discendente dal Cielo», mostrando come nell'idea di suddito fosse confluito quel patrimonio shintoista che in passato i kokugakusha avevano contribuito a far resuscitare, assieme al mito dell'unità etnica e razziale dei giapponesi. In altre parole, l'esistenza del popolo sembrò giustificata in termini etici più che politici, dato che l'Imperatore costituiva il fulcro attraverso cui il popolo stabiliva la propria appartenenza allo Stato. Rifiutata ogni possibilità di accogliere la visione laica dello Stato consolidatasi in Occidente e riaffermato il tradizionale principio secondo cui il potere politico si basava sulla legittimazione divina, lo Stato continuò a essere concepito in termini confuciani, specie per quel che riguarda i valori etici che regolavano il rapporto tra sovrano e sudditi. Trasformato ormai in una vera e propria ideologia di Stato, lo Shintoismo svolse un ruolo primario nella costruzione dell'identità nazionale nella misura in cui esso si rivolgeva al popolo giapponese nella sua totalità e, allo stesso tempo, nella sua specificità, rinsaldando così l'intima comunione spirituale che lo legava al tenno.
Le soluzioni accolte nella Costituzione Meiji, comunque, non risolsero tutti i problemi collegati all'identità nazionale, specie quelli relativi al rapporto con il mondo esterno. Già nel 1885 Fukuzawa Yukichi premette affinché il Giappone si staccasse dall'Asia, reputata arretrata e barbara, e si unisse all'Occidente, in modo da mostrare al mondo la nuova immagine di un Paese progredito e civilizzato149. L'appello di Fukuzawa, che individuava nel legame con l'Asia un forte limite alla realizzazione del "bunmei kaika", risuonò come una denuncia in un clima favorevole all'idea che il Giappone dovesse assumere un ruolo di guida per «civilizzare» le società dell'Asia Orientale. In effetti, sollecitando di usare verso questi Paesi gli stessi metodi adottati dalle Potenze occidentali, egli pareva aver accolto appieno quel darwinismo sociale che concepiva il dominio dei popoli più progrediti su quelli arretrati come un fenomeno del tutto naturale. L'intervento del celebre intellettuale era orientato, dunque, a fornire una prospettiva al progetto di costruzione di un Impero coloniale, anticipando di fatto le scelte che il Giappone avrebbe compiuto nel decennio successivo quando, con la sconfitta della Cina e l'annessione di Taiwan (1895), entrò a pieno titolo nella competizione imperialista. Ma Fukuzawa toccò anche un'altra questione, che riguardava il modo in cui l'identità giapponese dovesse essere definita in rapporto al mondo esterno, indicando la civiltà occidentale come l'unico modello a cui ispirarsi. Ciò, tuttavia, profilava aspetti inconciliabili con un progetto imperialista la cui premessa era che il «più grande Giappone» si aprisse per accogliere sudditi 'esterni'. D'altra parte, la supremazia nipponica sarebbe stata imposta anche attraverso una politica di assimilazione ("doka"), che si fondava sul presupposto secondo cui tutti i popoli dell'Asia Orientale condividessero la «medesima cultura e medesima razza» ("dobun doshu"), nonostante l'immagine di progresso e di civiltà che il Giappone intendeva proporre al mondo. Inoltre, nelle zone colonizzate sarebbero state adottate misure d'indottrinamento all'ideologia imperiale ("kominka") finalizzate a vincere le resistenze locali, che - almeno in linea teorica - consentivano ad altre popolazioni asiatiche di condividere con i giapponesi la condizione di sudditi del tenno. In definitiva, il passaggio da una nazione monorazziale a un Impero plurietnico insinuò una contraddizione di fondo nell'identità nazionale, laddove l'affermazione dell'idea dei giapponesi come popolo esclusivo e superiore pareva ostacolata dal progetto di dominazione dell'Asia. Fu questo uno dei tanti dilemmi in cui il Giappone si sarebbe dibattuto nel corso della sua avventura imperialista.
Gli anni Ottanta, pertanto, furono caratterizzati da un ritorno alla tradizione, che interessò il piano politico e ideologico, in sintonia con le scelte economiche compiute parallelamente, di cui si dirà nel capitolo seguente. La reazione che fece seguito alla fase di relativa apertura alle idee e alle concezioni occidentali portò a una riaffermazione dei valori tradizionali, mentre lo Shintoismo veniva messo al servizio dello Stato e usato come uno strumento di controllo sul popolo. Era iniziata così una progressiva riduzione degli spazi di dissenso attraverso una serie di interventi, che si rivelarono efficaci in quanto furono tesi a governare la sfera privata ed emotiva del singolo. La figura del tenno, evocata pochi decenni prima per vincere le resistenze dei daimyo alla centralizzazione del potere, aveva ormai assunto la posizione di autorità suprema e sacra, e la «ininterrotta dinastia imperiale» rappresentava l'asse attorno al quale si reggeva lo Stato unificato. Nel suo nome erano stati introdotti i cambiamenti più radicali facendo appello a valori supremi, quali l'armonia sociale, l'obbedienza ai propri superiori e la fedeltà alla causa imperiale. Queste tendenze furono espresse compiutamente nel Rescritto imperiale sull'educazione (Kyoiku chokugo), promulgato nel 1890 e distribuito in tutte le scuole del Giappone assieme al ritratto del sovrano. In esso venivano enunciati i princìpi base su cui si sarebbe fondata l'educazione dei giapponesi sino alla fine della seconda guerra mondiale, fornendo un supporto ideologico al sistema nazionale (kokutai) fondato sulla tradizione imperiale e da essa giustificato.
Il Rescritto, infatti, individuava i valori supremi cui i giovani dovevano ispirarsi nella lealtà all'Imperatore e nel patriottismo, e asseriva la concezione dello Stato come un'unica grande famiglia sottoposta all'autorità del sovrano, mescolando sapientemente le nozioni di etica confuciana con il mito imperiale shintoista. Anche l'educazione, dunque, veniva posta al servizio dello Stato e la scuola trasformata in un luogo di indottrinamento politico capace di garantire la stabilità e l'armonia sociale150.
Compiute queste scelte di fondo, il Giappone si apprestò a portare a compimento gli obiettivi fissati nel fukoku kyohei, chiamando tutto il popolo a riunirsi per sostenere gli sforzi imposti dal rafforzamento interno e dalla creazione di un Impero coloniale. Il ripristino della tradizione fu, in definitiva, una tra le più valide soluzioni che gli oligarchi Meiji seppero elaborare di fronte al rischio rappresentato dagli effetti, per così dire, collaterali che la transizione al capitalismo e all'imperialismo comportava.