2. MUTAMENTI SOCIALI E ANTAGONISMI.
L'imponente e rapido sviluppo economico e i mutati equilibri fra i settori produttivi ebbero rilevanti conseguenze sul piano sociale. Si espanse il settore terziario e, a seguito della crescita di settori industriali diversi dal tessile (nel quale l'occupazione era costituita in prevalenza da ragazze di origine contadina o ex samuraica), il numero degli uomini addetti nell'industria superò per la prima volta nella storia del Giappone quello delle donne. Un mutamento, questo, che, negli anni successivi, avrebbe influito sui rapporti di lavoro e nella società. Infatti, il proletariato maschile mostrò nel complesso una minore subordinazione ai valori sociali non conflittuali (diffusi dalla cultura dominante) rispetto alle lavoratrici. Queste ultime tendevano maggiormente, per condizioni storiche e per sudditanza ai valori e ai rapporti esistenti all'interno della famiglia, a evitare di esprimere contrasti e antagonismi con i datori di lavoro.
In conseguenza delle trasformazioni economiche e sociali verificatesi durante il conflitto, all'inizio degli anni Venti non soltanto la classe operaia ma tutta la società risultò profondamente mutata. Oltre a quanto si è detto, di particolare rilievo fu il fenomeno della migrazione dalle campagne nei centri urbani minori e nelle grandi città. Nel periodo 1913-20, le sei maggiori città (Tokyo, Yokohama, Nagoya, Kobe, Osaka e Kyoto) quasi raddoppiarono la popolazione e la stessa capitale superò i 3 milioni di abitanti. Con la crescita del settore terziario si consolidò la media borghesia urbana, attratta dall'ideologia del liberalismo, maggiormente diffusasi in Giappone in conseguenza dei più stretti contatti culturali con l'Occidente. Dunque, anche se il Giappone partecipò solo marginalmente al conflitto, l'assetto sociale e la struttura economica registrarono cambiamenti assai profondi.
Nonostante i profondi mutamenti economici e sociali e una meno opaca circolazione delle idee, in particolare di quelle progressiste e rivoluzionarie, i partiti non riuscirono a divenire organizzazioni politiche in grado di cogliere le aspirazioni delle classi e dei ceti sociali. Sulla loro piena legittimazione pesarono vari fattori. In primo luogo, polizia e magistratura, sulla base delle leggi esistenti, perseguirono ripetutamente i raggruppamenti (fossero essi partiti o associazioni) che si ispiravano al socialismo nelle sue molteplici interpretazioni. Tra i molti interventi, ricordiamo lo scioglimento del Nihon heiminto (Partito proletario giapponese) nel 1901, della Heiminsha (Associazione proletaria) nel 1903, per giungere alla persecuzione contro il Rodo nominto (Partito degli operai e dei contadini) nel 1928. Né diversa sorte ebbe il Partito comunista giapponese (v. infra, par. 4).
Sebbene l'attività dei partiti politici progressisti fosse costretta entro limiti angusti dai rischi di scioglimento e dalle difficoltà di svolgere efficaci azioni di propaganda e di proselitismo, le difficoltà economiche delle masse, a causa dell'abbassamento dei salari reali, sfociarono in una protesta inaspettata dal blocco di potere dominante. Nell'estate del 1918 si verificarono i "kome sodo" (moti del riso), una rivolta originata dalla brusca impennata del costo al dettaglio per il riso, principale alimento della dieta giapponese, il cui prezzo, imposto dalle società commerciali degli zaibatsu che operavano nelle colonie e sui mercati internazionali, era crollato. Il prezzo del riso, tuttavia, fu soltanto la causa ultima dell'insoddisfazione dei ceti urbani e rurali; i moti, infatti, ebbero radici più profonde. Alla base della protesta stavano in effetti la costante contrazione dei salari reali dei lavoratori industriali e le condizioni di pura sussistenza di grandi masse di coltivatori, impoveriti da affitti pari alla metà circa del raccolto.
Ai kome sodo parteciparono oltre 700 mila manifestanti e l'area da essi interessata comprendeva una decina di milioni di giapponesi. La rivolta fu inizialmente appoggiata e propagandata dai quotidiani a diffusione nazionale, nelle cui redazioni operavano molti giornalisti progressisti, tenaci sostenitori della necessità di introdurre maggiori libertà nella vita sociale e politica del Paese e di modificare la Costituzione. Tuttavia, ben presto gli interventi censori del governo impedirono la diffusione delle notizie relative ai moti che, peraltro, si protrassero per oltre due mesi. Ciò avvenne nonostante le misure poliziesche messe in atto e la partecipazione dell'Esercito alla repressione. A un numero imprecisato di morti e feriti si aggiunsero migliaia di arrestati, quasi tutti condannati a pene detentive.