3. IL PERIODO MUROMACHI (1338-1573).
Il periodo che vide quindici membri del clan Ashikaga avvicendarsi alla carica di shogun prende nome dal quartiere di Kyoto in cui fu istituita la sede del governo militare53. Sebbene il bakufu degli Ashikaga restasse formalmente in vita per circa due secoli e mezzo, il suo effettivo potere sarebbe andato declinando trasferendosi nelle mani dei grandi capi militari locali, in un generale clima di tensione che avrebbe portato il Giappone a vivere un lungo periodo di guerre civili. Pertanto, alla continuità del governo militare non corrisponde un andamento altrettanto regolare per quel che concerne gli sviluppi sociali, economici e culturali, i quali, nel corso di questo periodo, ebbero un'evoluzione che di rado coincide con la cronologia dettata dagli eventi politici.
Nel gettare le basi del suo governo, Takauji si ispirò al modello del precedente bakufu, da cui prese in prestito le istituzioni, le concezioni e, anche, parte del personale necessario al suo funzionamento. L'assetto del governo centrale rispecchiò quello di Kamakura, fondandosi sul Samurai dokoro (Ufficio degli affari militari), il Mandokoro (Ufficio amministrativo) e il Monchujo (Ufficio investigativo). La carica più elevata era quella di "kanrei", o capo dell'amministrazione, assegnata in genere ai membri di tre potenti vassalli dello shogun. Esisteva poi un Ufficio per le ricompense, detto Onshogata, incaricato di regolare le questioni relative ai vassalli e al resto della classe guerriera. Takauji delegò buona parte delle responsabilità amministrative e giudiziarie a suo fratello Tadayoshi (1306-1352), riservandosi di esercitare l'autorità militare attraverso il controllo del Samurai dokoro e dello Onshogata; tuttavia, questa divisione dell'autorità sarebbe stata all'origine di una competizione che avrebbe generato effetti negativi sul governo degli Ashikaga. Anche a livello locale fu mantenuta una certa continuità adottando il sistema degli shugo e dei jito, anche se, come si vedrà tra breve, il mutato assetto contribuì a renderlo scarsamente efficace. Fuori da Kyoto, l'autorità del bakufu era rappresentata dai delegati regionali, il più importante dei quali era quello inviato nel Kanto. Il controllo sulla Corte, invece, non fu più delegato a funzionari, ma garantito dalla prossimità della sede del bakufu con il palazzo imperiale. Nel 1336 Takauji emanò il Kenmu shikimoku, un codice di diciassette capitoli ispirato al Codice Joei del 1232 e redatto con l'ausilio di uomini che, come lui, avevano servito gli Hojo in passato. Esso sarebbe restato in vigore durante tutto il periodo e avrebbe costituito la base legale e politica per il regime degli Ashikaga.
All'indomani della conquista della capitale, Takauji si trovò impegnato ad assicurarsi il controllo del Paese e a ricomporre il conflitto apertosi tra le due «Corti imperiali del Sud e del Nord» (Nanbokucho). Poco dopo essere stato deposto, infatti, Go Daigo era riuscito a fuggire nuovamente dalla capitale e a rifugiarsi a Yoshino, una località a circa un centinaio di chilometri a sud di Kyoto, portando con sé le insegne imperiali. Ebbe così inizio una contesa per la legittimità del potere tra i due rami della dinastia regale, quello principale cui apparteneva il sovrano di Kyoto e quello cadetto ritiratosi a Yoshino, che servì ancora una volta da pretesto a molti capi militari per perseguire i propri interessi, schierandosi con l'una o con l'altra fazione. La contesa, accompagnata da ripetuti e spesso sanguinosi scontri armati, si sarebbe protratta sino al 1392, anno in cui l'ultimo sovrano della Corte meridionale rinunciò alle proprie pretese, sanando la frattura interna alla famiglia imperiale e consentendo agli Ashikaga di estendere il controllo su tutto il Paese 54.
Non furono però soltanto i problemi sollevati dalla Corte di Yoshino a ostacolare l'esercizio di un effettivo controllo su tutto il Giappone. Takauji, infatti, si trovò ad agire all'interno di un quadro legale e istituzionale mutato, in cui la natura delle relazioni con i suoi vassalli appariva ben diversa rispetto al tipo di rapporto che legava i gokenin a Kamakura. I vassalli, infatti, disponevano di un potere spesso pari a quello dello shogun, dato peraltro che molti shugo avevano approfittato del clima di disordine e di incertezza per consolidare la propria autorità a livello locale. Il bakufu, pertanto, non mostrava più di fungere da garante dei diritti e dispensatore del potere e della giustizia com'era stato in passato, e ciò contribuì a rendere meno solido il sistema di alleanze. Inoltre, potenti famiglie shugo assunsero il monopolio su cariche importanti come quella di kanrei, che in genere spettò alle famiglie Shiba, Hosokawa e Hatakeyama. A questo proposito, è stato notato come il governo militare di Muromachi fosse in realtà una coalizione formata da shogun e shugo, dove gli equilibri erano determinati dall'effettiva influenza dei singoli capi Ashikaga. In effetti, inizialmente si avvicendarono alcuni shogun capaci di imporre la propria autorità, ma in seguito la carica fu assunta da personaggi deboli, inetti, talvolta stravaganti.
Alla sua morte, avvenuta nel 1358, Takauji lasciò quindi un'eredità tutt'altro che solida e stabile, anche se la maggior parte degli shugo apparivano affidabili e fedeli, trattandosi in genere di uomini legati agli Ashikaga da legami di parentela. Essi, pertanto, appartenevano al cosiddetto "ichimon" (o «primo cerchio»), al di fuori del quale stavano invece i «signori esterni» ("tozama"). Il terzo shogun, Yoshimitsu, fu nominato quando era ancora un bambino, ma ben presto divenne un capo energico, oltre che raffinato e colto. Nel periodo in cui fu alla guida del bakufu (1368-1394), egli tentò di consolidare il suo governo, rafforzando il controllo sulle casate guerriere e sedando le rivolte che, in diverse occasioni, minacciarono la sua egemonia. Inoltre, impose a un certo numero di shugo l'obbligo di stabilire la propria residenza nella capitale, come misura di vigilanza su di essi. Nel complesso, egli riuscì a mantenere il controllo sul Paese, a eccezione del Kanto, su cui gravava piuttosto il potere del governatore generale di quella regione. Ma Yoshimitsu è ricordato soprattutto per aver personificato efficacemente la fusione tra i valori della classe guerriera e la raffinatezza del mondo aristocratico della capitale. Il suo stile di vita e le opere che fece realizzare, tra cui la splendida residenza di Rokuhara e il celebre Padiglione d'oro (Kinkakuji), sembrarono far tornare in vita gli antichi fasti e accrescere il prestigio del bakufu. Circondato da uomini colti, letterati e artisti, da monaci Zen e poeti di Corte, da attori e scrittori del nuovo genere teatrale del No, egli divenne il fulcro della vita culturale e intellettuale del periodo, contribuendo a raffinare lo stile di vita dell'élite guerriera. Dopo aver sanato la frattura tra le due Corti imperiali, Yoshimitsu lasciò la guida del bakufu a suo figlio Yoshimochi nel 1394 per assumere la carica di Gran ministro di Stato, che gli consentì di ostentare un ruolo quasi paritario con il sovrano imperiale. Ben più criticata dai posteri fu la sua decisione di stabilire rapporti commerciali con la Cina nel 1401, fregiandosi del titolo di «re del Giappone» e accettando la 'disonorevole' condizione di tributario conferitagli dall'Imperatore Ming nel 1402, grazie alla quale egli poté arricchire i suoi palazzi e templi con preziosi oggetti artistici cinesi55. Comunque, lo stabilimento di relazioni tributarie con la Cina favorì una nuova interazione con la cultura cinese e aprì un fiorente commercio che contribuì a rimpinguare le casse del bakufu e a procurare profitti di cui beneficiò, più in generale, l'economia del Paese. Lo stabilimento di un sistema di licenze ufficiali attraverso cui avrebbero dovuto svolgersi i rapporti commerciali consentì di controllare questa attività e di porre a freno la pirateria che dilagava nei mari e lungo le coste dell'Asia Orientale. Le autorità feudali stabilirono una sorta di alleanza con i mercanti, garantendo protezione in cambio del loro servizio. Essi esportavano in Cina le pregiate e famose spade d'acciaio, oltre a rame raffinato, zolfo, ventagli, paraventi e rotoli dipinti, in cambio di collane di monete, medicinali, libri, dipinti e ceramiche.
I successori di Yoshimitsu non furono altrettanto abili nell'esercizio del potere e del prestigio del bakufu, che cominciò a declinare dopo la sua morte, avvenuta nel 1408. Yoshimochi era diventato il quarto shogun nel 1394 ma, sino alla scomparsa del padre, non poté svolgere alcun ruolo attivo nella gestione del governo. Tuttavia, venuta meno l'interferenza paterna, Yoshimochi si dedicò a eliminare gli aspetti della precedente politica che reputava più eccessivi, decidendo di recidere il rapporto tributario con la Cina (che comunque sarebbe stato ripristinato dopo la sua morte, avvenuta nel 1428) e riaffermando un equilibrio nei rapporti con la Corte. L'eredità paterna, comunque, gli fruttò un periodo di stabilità, che egli riuscì a mantenere tenendo unita la coalizione su cui la forza del bakufu si fondava e che era necessaria a garantire la pace. Anche il sesto shogun Yoshinori, che detenne la carica tra il 1429 e il 1441, riuscì a rafforzare brevemente l'autorità del bakufu, sconfiggendo il governatore del Kanto, che apparteneva a un ramo collaterale della sua stessa famiglia, e riasserendo un controllo sulle regioni orientali. Le modalità della sua morte sembrarono presagire l'inizio di un'era di aspri scontri tra i vari guerrieri del Paese che si sarebbe aperta di lì a breve. Egli, infatti, fu ucciso da uno dei suoi più influenti vassalli, il quale sospettava che Yoshinori intendesse destituirlo dalla carica di shugo56. Ciò rappresentò un'aperta sfida al governo degli Ashikaga, che ne uscì irrimediabilmente indebolito, mostrandosi incapace di tenere a freno i suoi subordinati e di mantenere il delicato equilibrio con essi. Sul piano economico, il bakufu risentì, oltre che dell'incapacità di difendere i propri interessi fondiari, anche della progressiva perdita del controllo sul commercio con la Cina, che passò nelle mani di grande famiglie guerriere, come gli Hosokawa e gli Ouchi. Sotto Yoshimasa (ottavo shogun Ashikaga tra il 1449 e il 1473), l'autorità del governo militare fu completamente dispersa, mentre apparivano con drammaticità gli effetti di problemi politici e sociali troppo a lungo trascurati.
Essi riguardavano in primo luogo il governo locale, dal quale erano state eliminate le forme di controllo istituite sotto lo Stato imperiale, rappresentate dai governatori provinciali, i kokushi. Se, infatti, in un primo tempo, i governatori militari inviati dal bakufu, cioè gli shugo, avevano affiancato i funzionari inviati dal governo imperiale, il fallimento del tentativo di restaurazione compiuto da Go Daigo aveva determinato il superamento del sistema dei kokushi e, con esso, lo smantellamento delle istituzioni imperiali deputate al controllo locale. Gli shugo, pertanto, avevano potuto consolidare una posizione assoluta nelle province, trasformandosi in veri e propri capi regionali i quali disponevano del potere militare (che detenevano in qualità di governatori militari), del potere civile (ereditato con la scomparsa dei kokushi) e del potere amministrativo (che avevano assorbito dagli intendenti terrieri militari, i jito). Avendo il diritto di reclutare i soldati delle unità militari locali, inoltre, essi disponevano di truppe al proprio comando, che non esitarono a usare per difendere i diritti e la posizione che detenevano. Gli shugo avevano tratto beneficio dagli stessi poteri che erano stati loro assegnati (come fungere da arbitri nelle contese per il controllo delle terre e nell'assegnazione di fondi confiscati) e, anche, da una pratica resa legale dallo stesso Takauji e detta "hanzei" (pagamento della metà). Essa, infatti, consentiva agli shugo di riscuotere la metà delle imposte degli shoen per sostenere le proprie milizie e che, assieme alla già citata tassa "hyoromai" (v. supra, par. 1), permise loro di assumere diritti all'interno delle tenute private. Come si è detto in precedenza, gli shugo erano stati selezionati tra i membri dei rami cadetti della famiglia Ashikaga o tra potenti vassalli, e il loro rapporto con il bakufu si fondava sulla garanzia che esso poteva dare alla loro posizione. Ma con il declino dell'autorità del governo militare, tali garanzie vennero meno e, con esse, il vincolo di fedeltà che legava gli shugo allo shogun, così come la stessa solidità del potere dei governatori provinciali. Esisteva una marcata differenziazione tra i domìni controllati dai rispettivi shugo, che in alcuni casi riuscirono a consolidare la propria autorità in diverse province, dovuta anche alla capacità di estendere o difendere i propri diritti di fronte a ingerenze esterne. Se, ad esempio, gli Yamana furono privati del controllo su undici province a seguito dell'intervento militare compiuto da Yoshimitsu nel 1391-1392, gli Ouchi o gli Otomo riuscirono invece a mantenere i loro estesi domìni. All'indebolimento della posizione di molti shugo contribuì senza dubbio l'obbligo di risiedere a Kyoto, che li costringeva ad affidare la responsabilità delle province a loro sostituti ("shugodai"). Spesso, questi ultimi si dimostrarono incapaci di sedare le rivolte contadine, di garantire il prelievo delle tasse o il loro invio allo shugo e, soprattutto, di fronteggiare la competizione con i capi delle grandi famiglie residenti in loco (noti come "kokujin") i quali, nel corso di diverse generazioni, avevano consolidato un saldo potere nel territorio. Ciò aprì la strada a un rimescolamento del potere a livello locale, che avvenne con il ricorso alle armi e da cui sarebbero emersi nuovi capi militari locali.
Nel 1467, primo anno dell'era Onin, le tensioni e le contese tra i vassalli presero la forma di un'aspra guerra, che scaturì da una disputa tra gli Hosokawa e gli Yamana legata alla successione shogunale. Destinata a perdurare sino al 1477, essa vide i grandi shugo schierarsi a sostegno dell'una o dell'altra fazione e affrontarsi nella zona di Kyoto distruggendo buona parte della capitale. Lo shogun, invece, preferì proseguire la sua quieta esistenza lontano dal fragore delle armi e imitare un suo illustre predecessore dedicandosi alla cultura, alle arti e, anche, alla costruzione del magnifico Padiglione d'argento (Ginkakuji). Pure in seguito, i capi Ashikaga avrebbero indirizzato le proprie cure e finanze verso attività extragovernative e il bakufu avrebbe soppiantato la Corte, ormai impoverita e politicamente marginale, come centro culturale del Paese. La guerra Onin segnò l'inizio di un lungo periodo di guerre civili (detto appunto Sengoku o «dei territori belligeranti»), che durò circa un secolo. Nel corso di questo periodo, l'autorità del bakufu declinò al punto tale da indurre alcuni studiosi a ritenere come l'epoca degli Ashikaga possa di fatto dirsi conclusa assai prima del 1573, anno in cui fu deposto l'ultimo shogun di questo clan. In effetti, se a livello formale le cariche di Imperatore e di shogun continuarono a rappresentare i simboli di uno Stato unificato, esso venne di fatto diviso in una serie di realtà autonome, del tutto svincolate dal controllo centrale. Questo processo di decentramento del potere politico fu accompagnato dall'ascesa di capi militari locali, noti come "sengoku daimyo" dato che erano in continua lotta per consolidare e difendere i propri domìni57. La spinta verso il frazionamento del potere, che determinò la completa eliminazione degli ultimi residui del sistema imperiale e l'affermazione di un feudalesimo decentrato, sarebbe stata capovolta solo nella seconda metà del Cinquecento, quando alcuni energici e potenti daimyo sarebbero emersi sugli altri per portare a compimento il processo di riunificazione nazionale sotto un'unica e forte autorità, restituendo al Paese la pace e la stabilità interna.
Per comprendere meglio la natura e la portata di questo processo occorre pertanto considerare le trasformazioni avvenute a livello locale. In primo luogo, il potere di molti shugo fu ulteriormente minato dallo sforzo bellico, che li costrinse a distogliere la loro attenzione dalle province su cui avevano giurisdizione. Inoltre, le stesse casate shugo furono spesso divise da dispute interne, che ne causarono lo smembramento. Parallelamente, nelle province si assistette al frazionamento del territorio in numerose unità politiche, in genere controllate dalle grandi famiglie residenti che, approfittando dell'indebolimento dell'autorità del governo militare e dei suoi vassalli shugo, non esitarono a usare la loro forza militare per affermare un potere autonomo sui propri domìni. Ciò diede vita a quello che i giapponesi chiamano "gekokujo" e che sta a indicare il sovvertimento dell'ordine gerarchico scaturito dal trionfo ("koku") degli inferiori ("ge") sui superiori ("jo"). Questo aspro confronto, in cui venne meno ogni vincolo di fedeltà al superiore e che parve generare un completo decadimento dei valori di riferimento, fu il tratto caratteristico del periodo detto appunto Sengoku, nel corso del quale si assistette a una completa redistribuzione del potere e all'ascesa di nuovi leader militari, i "sengoku daimyo". Diversamente dagli shugo, essi furono poco sensibili all'autorità del governo militare, concentrati ad accrescere la loro forza militare ed economica e a difendere i propri domìni, i quali tendevano a non coincidere più né con i limiti amministrativi delle province, né con i confini di «proprietà» degli shoen, dai quali era stato ormai estromesso ogni diritto esercitato dal tradizionale titolare dei privilegi di immunità, quello che cioè un tempo era stato il «proprietario». L'affermazione dei sengoku daimyo segnò dunque la dissoluzione del sistema shoen. Costituite di terre e castelli, queste nuove unità avevano preso forma attorno all'effettiva possibilità di controllo esercitata dal daimyo, il quale assorbì i diritti amministrativi e di «proprietà» sulle terre, assumendo così le sembianze di un vero e proprio feudatario. All'interno del proprio dominio il daimyo, del tutto svincolato da ogni forma di controllo centrale, provvedeva a emanare codici legali (le «norme della casa» o "bunkokuho"), a organizzare i propri seguaci, a ordinare i rilevamenti fondiari, esercitando un efficace controllo dal suo castello, attorno al quale si raggrupparono i guerrieri formando vere e proprie città castello, i "jokamachi". Egli poteva pertanto sedare le turbolenze rurali e sovrintendere all'organizzazione dei villaggi ("mura"), i quali si erano sviluppati come unità autosufficienti in grado di gestire autonomamente l'amministrazione interna. Infatti, ogni mura era responsabile del versamento di una determinata quantità del raccolto, prelevata dalle singole famiglie di agricoltori e trasmessa al daimyo come tributo. Oltre a forme di governo interno, i mura si dotarono anche di organi di autodifesa, che furono rafforzati nel corso del lungo e turbolento periodo di guerre civili. Nelle comunità di villaggio si assistette al rafforzamento della coesione sociale e allo sviluppo di un'agricoltura collettiva, che contribuirono all'innalzamento della produttività agricola. I domìni dei daimyo, pertanto, presentavano una forte continuità interna, rappresentata da una normativa e un'organizzazione che regolavano i vari aspetti della vita economica, politica e legale delle diverse realtà sociali che vi risiedevano. Per quanto riguarda la dimensione dei vari domìni, esisteva una marcata differenziazione tra i pochi e vasti territori controllati da potenti daimyo (la cui estensione talvolta corrispondeva a quella dei territori in precedenza sotto la giurisdizione degli shugo) e gli altri di dimensioni più o meno ridotte conquistati da capi meno potenti.
Nonostante la forte instabilità che caratterizzò il periodo Muromachi in generale e quello Sengoku in particolare, sul piano sociale ed economico si registrarono sviluppi rilevanti. Nelle campagne, la diffusione dell'uso dei fertilizzanti e il miglioramento della loro qualità contribuirono all'incremento della produttività agricola, che beneficiò pure dal miglioramento delle tecniche di irrigazione e dal crescente impiego degli animali nel lavoro dei campi. In zone sempre più estese si affermò la possibilità di effettuare un doppio raccolto annuo del riso e di altri cereali, mentre nei mercati si vendevano prodotti agricoli commerciali, come frutta e verdure, canapa e cotone, olio di semi di sesamo e tè. Numerosi progressi furono compiuti anche nell'ambito del commercio e dei trasporti e nello sviluppo di centri urbani. Infatti, se l'antica nobiltà e la nuova classe militare residente a Kyoto resero la capitale un centro di consumo delle risorse prodotte altrove, la creazione di vari centri di potere locale determinarono una richiesta di merci e di rifornimenti alimentari che stimolò l'attività economica, così come la diversificazione sociale. Il commercio con la Cina immise in Giappone merci pregiate (sete, porcellane, libri, dipinti) e nuove tecniche per la lavorazione della seta, mentre dalla Corea si apprese la tecnica per produrre cotone e cotonate. Dalla Cina giunsero pure forti quantità di monete di rame, usate con crescente frequenza negli scambi commerciali, mentre in alcune zone del Paese si sfruttavano miniere che fornivano oro, argento e rame, in parte usato per coniare nuove monete. Nei loro domìni, i daimyo costruirono i propri castelli, circondati di numerosi edifici che richiesero nuovi materiali e mano d'opera, e incoraggiarono lo sviluppo di centri di produzione e di mercati locali, attorno ai quali si forgiarono nuovi gruppi di attivi commercianti le cui merci si spingevano anche all'interno dei villaggi. Artigiani e mercanti accrebbero il loro livello di specializzazione, si cimentarono nella pratica del prestito e dell'usura, e si costituirono in attive corporazioni, note come "za", molte delle quali erano concentrate nella zona della capitale, nel Kinai e nel Kanto, e lavoravano il materiale grezzo proveniente da altre regioni. Consolidatesi sotto la protezione di un tempio o di un santuario, di un ricco nobile o di un capo locale, queste corporazioni assunsero il monopolio sulla vendita e la lavorazione di specifici prodotti e crearono una rete di distribuzione sempre più estesa. Alcune province si specializzarono nella produzione della carta, delle ceramiche e del "sake", mentre si creavano spade, lance, ventagli pieghevoli e paraventi, assai richiesti nei mercati del continente.
Questa vitalità economica e sociale fu accompagnata da un marcato progresso culturale, di certo effetto della promiscuità tra il mondo dei kuge e quello dell'élite guerriera che derivò dalla scelta compiuta da Takauji di stabilire la sede del suo governo nella capitale imperiale. Qui i kuge e i bushi potevano condividere il piacere delle nuove espressioni teatrali del No e del "Kyogen" o dei racconti storici, mentre altre forme culturali erano diffuse anche tra le classi meno elevate, come i brevi racconti orali ("otogizoshi"), le rappresentazioni di danzatori, musicanti e mimi ("dengaku") o le «poesie a catena» ("renga"), in cui si sfidava a turno la fantasia e la prontezza di poeti più o meno abili. La diffusione della cultura presso le classi popolari fu pure favorita dagli accresciuti contatti tra le diverse province, dove accadeva spesso che narratori girovaghi radunassero gruppi di auditori ai quali raccontavano famose storie epiche o illustravano il contenuto di rotoli dipinti. D'altra parte, fu proprio tra gli strati popolari che, spesso, presero forma espressioni artistiche che vennero poi «elevate» dalle classi dominanti. Già si è accennato alla protezione fornita dagli Ashikaga alle arti, alle lettere e allo Zen, che permeò in profondità l'estetica e la sensibilità culturale, oltre che la vita religiosa del periodo. I templi Zen divennero centri di meditazione per i guerrieri e luoghi di educazione per i loro figli, e stabilirono solidi legami con i capi militari locali e con importanti famiglie stanziate nei grandi centri urbani. Nei templi fiorirono inoltre nuovi e sobri stili architettonici e suggestivi giardini, assieme ad arti raffinatissime come la cerimonia del tè ("chanoyu") o la tecnica di disporre fiori e rami con forme di elegante semplicità. Monaci Zen accolsero le nuove tecniche pittoriche giunte dalla Cina, in primo luogo la pittura monocroma a inchiostro ("suiboku" o "sumie"), che fu diffusa da un grande maestro, Sesshu, e rielaborata da illustri pittori della scuola Kano. Anche se lo Zen dominò vari aspetti della vita di questo periodo, le tradizionali scuole buddhiste mantennero comunque una influenza sulla società medievale. Monaci provenienti dalla Cina introdussero in Giappone il pensiero neoconfuciano di Zhu Xi, che avrebbe assunto una posizione preminente sotto il regime dei Tokugawa.
L'inversione di rotta al processo che, nel corso del periodo Sengoku, aveva condotto a un totale decentramento prese avvio nel 1568, quando Oda Nobunaga (1534-1582), un ambizioso ed energico daimyo, riuscì a conquistare Kyoto, da cui cinque anni dopo cacciò Yoshiaki, quindicesimo e ultimo shogun Ashikaga58. Nobunaga diede così inizio all'opera di riunificazione del Paese che, alla sua morte, fu proseguita da Toyotomi Hideyoshi (1537-1598) e poi da Tokugawa Ieyasu (1543-1616), il quale, per oltre due secoli e mezzo, avrebbe assicurato alla sua famiglia la successione alla carica di shogun. Mentre in Giappone si svolgevano queste vicende sotto la guida dei tre grandi «riunificatori», di cui si dirà nel successivo capitolo, nei mari dell'Asia Orientale avevano fatto la loro comparsa mercanti e missionari giunti dall'Europa.