3. LO SVILUPPO DELL'ORGANIZZAZIONE SOCIO-ECONOMICA E I CONTATTI CON IL CONTINENTE NEL PERIODO KOFUN.
Il periodo che vide la diffusione di grandi monumenti funerari, costruiti in tumuli di terra con una forma simile a quella di una collinetta e detti appunto kofun, prende avvio verso il 250-300 d.C. e si protrae sino a circa la metà del sesto secolo, quando l'introduzione del Buddhismo dal continente portò al superamento di tale pratica. La sagoma rialzata di queste tombe sembrava ricalcare un modello in uso nell'ultima fase del periodo precedente (tra il 100 e il 300 circa) e le forme erano abbastanza varie: circolari, quadrate o simili a un «buco di serratura»14. In genere, i kofun erano corredati di grandi sculture di terracotta, dette "haniwa", scavate sopra le tombe oppure nel terrapieno circostante. Inizialmente, gli haniwa avevano la forma di case poste nel punto più elevato del tumulo e destinate a ospitare lo spirito del defunto; quindi, comparvero haniwa che riproducevano oggetti militari, come corazze, elmi e scudi, mentre in seguito si diffusero terracotte con figure animali (per lo più cavalli, scimmie e polli) e umane, che probabilmente ritraevano persone in qualche modo legate al defunto. Si è a lungo ritenuto che l'uso di haniwa a forma umana avesse sostituito la pratica, diffusa in precedenza, di seppellire nelle tombe anche servitori o parenti del capo defunto, ma le indagini archeologiche hanno messo in dubbio l'esistenza di un sacrificio di esseri viventi. Gli haniwa a forma umana raffiguravano guerrieri, musici e agricoltori, collocati in cima al tumulo in ordine gerarchico, formando una sorta di corteo funebre. Negli spazi interni, talvolta anche molto ampi, era disposto il corpo del defunto, attorno al quale venivano posti vari oggetti, spesso di provenienza o fattezza continentale, come specchi, collane di gioielli, spade, corazze, utensili agricoli o vasi di ceramica. Dalla presenza di questi monumenti, simbolo della posizione delle classi egemoni, è quindi possibile attingere una serie di indicazioni in merito alla vita e ai costumi delle élites del periodo, le quali disponevano di un potere assai diversificato, come dimostra la difformità delle dimensioni di queste tombe. Infatti, le tombe più imponenti, risalenti al quinto secolo, sono state rinvenute nella regione di Yamato, dove risiedeva un clan che andava progressivamente rafforzando il proprio potere.
I capi che disponevano delle risorse necessarie alla glorificazione del proprio status attraverso la realizzazione di ricche tombe appartenevano al nucleo dominante, più noto in giapponese con il termine "uji"15. Esso si riferisce a una potente famiglia di cui faceva parte un certo numero di membri legati da un vincolo di sangue, talvolta reale e talvolta presunto, ma in ogni caso utile a rafforzare la coesione interna. Il termine "uji", dunque, esprime l'idea di una sorta di famiglia allargata e viene in genere tradotto come «clan». Ciascun uji esercitava il controllo su un territorio, con un'estensione variabile a seconda del tempo e delle circostanze. I suoi membri occupavano una posizione sociale prominente, come peraltro dimostra il fatto che, a differenza della popolazione comune, avessero un cognome e anche un titolo onorifico. Gli individui appartenenti al clan ritenevano di discendere direttamente da un comune antenato divino (lo "ujigami") e sottostavano a un'organizzazione gerarchica al cui vertice figurava il capo del clan, chiamato "uji no kami". A lui spettava l'autorità patriarcale, così come il potere di sommo sacerdote in quanto tramite diretto tra la divinità procreatrice e il gruppo familiare che da essa discendeva. Le facoltà di cui l'uji no kami era investito gli venivano trasmesse in modo ereditario, in genere assieme ad alcuni simboli (uno specchio di bronzo, una spada, un gioiello); tutto ciò svolgeva la rilevante funzione di ribadire e rinsaldare il legame di continuità tra passato e presente.
Altrettanto ereditaria era la posizione occupata dalle persone che lavoravano al servizio del clan dominante, le quali erano raggruppate in unità chiamate "be", a seconda dell'occupazione che svolgevano nel territorio sottoposto al controllo dell'uji: vi erano be di contadini, be di servitori, be di fabbricanti di ceramiche e persino be di pescatori, di tessitori, di guerrieri o di cantastorie. I membri di ciascun gruppo occupazionale erano vincolati a restare alle dipendenze della famiglia e tale legame era spesso ulteriormente rafforzato da un comune sentimento di devozione verso la divinità del clan egemone, da cui ritenevano di poter ricavare favore e protezione. Ciò contribuì a infondere un forte senso di coesione sociale alla vita di queste comunità, alimentato a sua volta dalla pratica di riti e di festività shintoisti. Al livello più basso della scala gerarchica interna alla comunità stavano gli "yatsuko", servi, domestici o servitori di varia natura alle dipendenze della famiglia dominante. Il ruolo socio-economico da loro svolto non appare comunque rilevante, dato che costituivano una parte numericamente esigua, pare in media attorno al 5 per cento dell'intera collettività.
Questo, dunque, era il tipo di organizzazione sociale delle comunità locali che andò caratterizzando buona parte del Kyushu, dello Shikoku e dello Honshu a partire forse dal secondo-terzo secolo d.C., sebbene inizialmente l'autonomia di queste comunità comportasse una differenziazione a livello locale che, come già accennato, si riscontra in primo luogo nella varietà di culti e di divinità shintoiste. In termini generali, comunque, è possibile affermare come la vita quotidiana comunitaria fosse intimamente collegata ai ritmi della natura e all'esistenza dei kami, dal cui aiuto dipendevano l'attività lavorativa e il benessere collettivo e che, pertanto, erano oggetto di un sentimento di gratitudine. Sappiamo pure che queste comunità locali erano particolarmente interessate a preservare l'esistenza collettiva da ogni elemento che turbasse l'armonia sociale e la bellezza della natura. Ciò avveniva attraverso pratiche di purificazione, come riferisce una fonte cinese del terzo secolo: «Quando si verifica un decesso, viene osservato un periodo di lutto che dura più di dieci giorni [...] Al termine del rito funebre, tutti i membri della famiglia si immergono nell'acqua per lavarsi in un bagno purificatore»16. Le cerimonie di purificazione rappresentavano, dunque, un momento vitale della vita comunitaria, e il loro svolgimento da parte del capo uji gli conferiva un potere che andava al di là di quello terreno, rafforzato dal fatto che a lui era pure riconosciuta la capacità di entrare in contatto con la divinità ancestrale, specie attraverso la pratica onirica, che rappresentava una fonte di conoscenza profetica. Dal tabù dell'impurità collegata alla morte, al sangue e, anche, alla sporcizia fisica derivarono numerose pratiche, compresa quella di trasferire la sede del suo governo in altra località alla morte del capo del clan più importante, quello cioè da cui avrebbe avuto origine la dinastia imperiale.
La varietà dei culti presenti a livello locale sarebbe stata in parte superata con l'avvio del processo di unificazione del Giappone, che avrebbe portato a una sistematizzazione delle pratiche shintoiste e assegnato alla figura imperiale il ruolo di sommo sacerdote dell'intero territorio. A un certo punto della loro evoluzione, infatti, le comunità uji cominciarono a stabilire contatti tra loro, sotto forma di cooperazione o, anche, di aperta competizione che poteva trasformarsi in un vero e proprio scontro militare. A volte, la minaccia del ricorso alla forza era sufficiente per indurre un clan meno potente a fare concessioni alla controparte più forte. Questi confronti avrebbero condotto alla nascita di una confederazione di uji guidata dal capo locale più potente tra le egemonie tribali primitive. Come vedremo, infatti, questa frammentazione territoriale sarebbe stata superata allorché i capi che si succedettero alla guida di un potente clan stanziato nella regione di Yamato presero ad estendere, in modo lento ma progressivo, la propria egemonia riuscendo, infine, a ottenere la sottomissione o l'obbedienza degli altri uji e a stabilire un governo centralizzato. Nel corso di questo processo, il clan Yamato consolidò la propria supremazia anche grazie al ricorso al potere del proprio ujigami, dato che dichiarava di discendere dalla massima divinità celeste, la dea del Sole Amaterasu Omikami. Di conseguenza il clan Yamato poteva giustificare l'affermazione della propria autorità sugli altri uji, le cui credenziali in Cielo apparivano essere meno autorevoli. La definizione di un'ideologia fondata sul culto e sulle credenze shintoiste e finalizzata a sanzionare sul piano spirituale il potere terreno del clan Yamato avrebbe trovato la sua massima espressione quando l'uso della scrittura consentì la compilazione di due grandi opere di «propaganda dinastica», quali risultano essere il "Kojiki" e il "Nihon shoki" già menzionati nel terzo paragrafo dell'Introduzione.
Nel corso di questo periodo, vi fu un'intensificazione dei contatti d'oltremare, testimoniata dalla presenza nei corredi funebri ritrovati nei siti kofun di oggetti di provenienza continentale, per lo più coreana, o realizzati con materiali d'importazione; ciò, inoltre, è confermato da tracce dell'attività svolta da parte di gruppi di individui provenienti dalle isole giapponesi nella penisola coreana. In effetti, tra il quarto e il sesto secolo, vi fu un consistente spostamento di persone, merci e tecnologia tra queste regioni, e numerosi artigiani specializzati di origine coreana arrivarono nelle isole giapponesi; ad alcune famiglie immigrate fu persino assegnato un cognome, segno che la posizione sociale loro accordata era tutt'altro che irrilevante. Oltre ai vincoli di parentela, molti uji e ve avevano rapporti commerciali o alleanze militari con uno o più dei tre regni che, nel corso del quarto secolo, si erano consolidati nella penisola coreana: Koguryo a nord, Paekche a sud-ovest e Silla nella parte sud-orientale. Specie sul piano militare si registra un'attiva presenza di gruppi di guerrieri giunti dall'arcipelago giapponese, che parteciparono agli scontri fra i tre regni coreani e che riuscirono a stabilire un controllo a Mimana, nell'estremità meridionale della penisola, dove fondarono una colonia. Ciò è confermato dal contenuto delle iscrizioni del monumento Kwang-gaet'o eretto nel 414, che descrive le numerose invasioni giunte dalle regioni giapponesi d'oltremare17. Questi contatti furono tali da conferire alla zona meridionale della penisola coreana e alle regioni sud-occidentali dell'arcipelago giapponese un'accentuata continuità culturale, politica ed economica, che non sempre viene opportunamente considerata dalla narrazione storica più attestata in Giappone, talvolta incline a minimizzare l'apporto di culture diverse da quella che si affermò nella zona di Yamato. Infatti, sebbene questa continuità sarebbe venuta meno a seguito dell'unificazione politica della Corea, avvenuta nel 668 a opera di Siila, e con la nascita dello Stato giapponese, essa lasciò comunque un'impronta significativa nella cultura giapponese.
L'attività militare nella penisola coreana suggerisce come il processo di espansione dell'autorità dell'uji Yamato fosse maturato al punto da rendere possibile il reclutamento di ingenti forze da inviare sul continente per stabilirvi forme di controllo. D'altra parte, gli haniwa che riproducevano guerrieri e oggetti militari, assieme alle armi conservate all'interno dei tumuli funerari, confermano come nelle comunità uji quella militare fosse divenuta un'attività di rilievo, sebbene la progressiva diminuzione dell'uso di questi oggetti nei corredi funebri dei kofun più imponenti, che si registra a partire dalla fine del quinto secolo, sembri indicare un allontanamento delle prerogative militari dall'élite dominante. In altre parole, da questo momento in poi pare avviarsi un processo di specializzazione dell'attività militare, che tende a essere delegata a gruppi di guerrieri professionisti.
Sul piano economico, assistiamo allo sviluppo attorno alla regione Yamato di centri dediti alla produzione di determinate merci, come ceramica, sale, collane di pietra e specchi di bronzo - questi ultimi richiesti dalle élites locali per il loro valore simbolico. Parallelamente, si stabilì una rete di scambi commerciali con le altre regioni, che provvedevano al rifornimento di materiali quali il ferro, il bronzo, il cinabro o il vetro. Si trattava di attività alle quali sovrintendeva il clan egemone Yamato, che andava assumendo sempre più le sembianze di un vero e proprio sovrano, anche se l'istituzionalizzazione del suo ruolo e del suo potere avrebbe ricevuto un decisivo apporto dalle concezioni cinesi. Consolidatasi sotto le dinastie Sui (589-617) e Tang (618-907), infatti, la Cina avrebbe fornito un modello di governo efficiente e centralizzato, dove l'autorità e il potere dell'Imperatore erano basati sull'attività di una burocrazia centrale e su una serie di norme che regolavano il sistema amministrativo e fiscale. Anche il ruolo qui assunto dal Buddhismo mostrava come tale dottrina, con il suo cerimoniale e i suoi valori universali, potesse essere posta al servizio dello Stato e utilizzata per rafforzare l'idea e il prestigio del sovrano assoluto, che governava un Paese pacifico e unificato. Su queste considerazioni, infatti, si fondò la decisione di accogliere il Buddhismo e di assumerlo come religione ufficiale dello Stato giapponese.