3. LA RIFORMA DELLE ISTITUZIONI POLITICHE, SOCIALI ED ECONOMICHE DEL PRIMO MEIJI.
Meiji si riferisce al nome dell'era prescelto quando, nel 1868, fu decretato che il nengo avrebbe coinciso con il periodo di regno del sovrano. Il giovane Mutsuhito divenne così l'Imperatore Meiji e, sotto il suo «governo illuminato» (questo il significato del termine), prese avvio l'edificazione dello Stato moderno fondata sulla centralizzazione del potere politico e sulla trasformazione capitalistica delle istituzioni economico-sociali. Più che segnare un «ritorno al passato» ("fukko"), il ripristino del ruolo e delle prerogative imperiali coincise quindi con l'avvio di un'opera di rinnovamento ("ishin") per vari aspetti radicale, alla quale gli storici giapponesi si riferiscono con l'espressione "Meiji ishin", in genere tradotta come Restaurazione Meiji. La storiografia ha a lungo dibattuto circa il significato di questi eventi, disquisendo in primo luogo sull'effettivo valore da riconoscere alle trasformazioni compiute dopo il 1868 che, secondo alcuni, sarebbero state l'esito di una rivoluzione borghese. In realtà, la partecipazione della borghesia mercantile e rurale al movimento anti-Tokugawa può dirsi limitata a mercanti urbani in ascesa e a nuovi contadini ricchi in genere stanziati o trasferitisi nelle zone aperte al commercio, il cui arricchimento trovò un limite nella politica restrittiva del regime feudale. Piuttosto, essi contribuirono indirettamente all'evento decisivo nella misura in cui furono i protagonisti di uno sviluppo dell'economia protocapitalista che minò dall'interno l'assetto feudale, ma il ruolo principale nel rovesciamento del regime dei Tokugawa fu svolto da membri dell'élite militare locale (e, in misura minore, da esponenti dell'aristocrazia di Corte), i quali per buona parte avrebbero costituito la classe dirigente Meiji. Pur provenendo da aree geografiche e sociali eterogenee e mossi da motivazioni diverse, questi avversari del bakufu si raccolsero attorno ad alcuni obiettivi comuni, rappresentati dall'eliminazione (o, quanto meno, dal ridimensionamento) del potere shogunale, dal ristabilimento dell'autorità imperiale e dal rafforzamento politico e militare del Paese, e andarono via via assumendo le sembianze di una consapevole classe dirigente 'nazionale' decisa a gestire il processo di ammodernamento e di industrializzazione del Paese. Le trasformazioni introdotte dopo il 1868 presentano senza dubbio numerosi aspetti rivoluzionari; tuttavia, più che di rivoluzione borghese, ovvero di evento risolutivo di una lotta tra classi antagoniste dotate di una consapevolezza politica, appare opportuno parlare di una «rivoluzione dall'alto» che, coniugando le tensioni scaturite dalla stipula dei «trattati ineguali» con i prerequisiti endogeni, poté governare il processo di transizione capitalistica. Tale aspetto contribuisce a chiarire la ragione per cui, al di là dei radicali mutamenti verificatisi nella sfera politica, economica, sociale e culturale del Giappone Meiji, una serie di caratteristiche restarono inalterate, essendo possibile rintracciare una linea di continuità tra il periodo precedente e quello successivo al 1868, che riguarda in primo luogo la gestione del potere 118.
L'opera di centralizzazione dei poteri implicò in primo luogo il superamento del fazionalismo insito nel sistema bakuhan a favore di una nuova concezione di Stato nazionale, in cui sia i governanti sia i governati erano chiamati a sostenere lo sforzo per rendere «ricco il Paese e forte l'esercito» ("fukoku kyohei"). Fu questa la parola d'ordine in nome della quale vennero avviate le Riforme Meiji, a cominciare dalla confisca del potere locale dei daimyo effettuata nel 1871. In realtà, il provvedimento fu preceduto da un atto di spontanea rinuncia compiuto dai capi dei quattro principali feudi che avevano guidato il movimento di Restaurazione, i quali nel 1869 restituirono all'Imperatore i registri fondiari dei propri domìni ("hanseki hokan") affidati loro dallo shogun assieme al diritto di governo nello han119. L'esempio di Satsuma, Choshu, Tosa e Hizen fu emulato da altri daimyo, creando così una base di consenso sufficiente per consentire al nuovo governo di procedere alla trasformazione degli ex capi dei feudi in governatori nominati centralmente. Il cauto atteggiamento del governo fu motivato dal fatto che, all'epoca, esso si reggeva ancora su una coalizione di han e disponeva di una forza militare che, nella sostanza, era poco più della somma dei loro eserciti; una condizione, questa, che limitava di per sé il suo potere di intervento nell'autonomia locale. Circa due anni dopo, i tempi parvero maturi per procedere verso una più radicale riforma amministrativa, che comunque fu preparata da una serie di mosse volte ad assicurare l'assenso dei più importanti ex daimyo e a rafforzare il potenziale dell'esercito imperiale. Con un decreto imperiale promulgato nell'agosto del 1871, si procedette alla definitiva abolizione dei feudi e all'istituzione di un sistema provinciale ("haihan chiken"); il territorio, infatti, fu riorganizzato in province ("ken"), a capo delle quali furono posti i governatori nominati in precedenza, e in distretti urbani ("fu") in modo da sottoporre l'amministrazione locale al controllo del governo di Tokyo. Nonostante i timori, il provvedimento non incontrò reazioni di rilievo, dato che la posizione degli ex feudatari fu comunque garantita assicurando loro uno stipendio e un titolo nobiliare, e trasferendo al governo centrale non solo l'onere dei debiti che gravava su molti feudi, ma anche il pagamento degli stipendi versati sino ad allora dai daimyo ai samurai alle proprie dipendenze. Inoltre, la creazione di uffici amministrativi locali fornì opportunità di impiego a membri della classe samuraica e ai capi villaggio, mentre l'istituzione di assemblee ai diversi livelli locali (dalle province sino ai villaggi) sembrò rappresentare una opportunità per partecipare alla vita politica del Paese, sebbene a tali sedi non fosse riconosciuto alcun potere decisionale. Il passo finale verso il superamento dell'autonomia locale fu compiuto con l'istituzione del ministero degli Interni nel 1873, le cui ampie e rilevanti competenze (dall'amministrazione e dalle comunicazioni sino ai governatori provinciali e alla polizia nazionale) ne fecero il posto chiave per garantire la sicurezza nel Paese120. Non a caso, la sua guida fu assunta da Okubo Toshimichi, originario di Satsuma e capo attivo del movimento antishogunale, che si era distinto tra i suoi colleghi come una tra le più autorevoli personalità del nuovo governo.
Il percorso seguito per abolire il sistema decentrato degli han indica come la precaria base su cui inizialmente poggiava il potere del nuovo governo lo inducesse a ricercare il più ampio consenso tra la leadership feudale e una maggiore unità nel Paese, al fine di conseguire la prosperità nazionale. A questo scopo, nel marzo del 1868 fu emanato il Giuramento sui cinque articoli (Gokajo no seimon), che rispondeva alla richiesta di allargamento della partecipazione al processo decisionale e indicava la volontà di modernizzare il Giappone guardando all'esempio dell'Occidente. Con esso l'Imperatore si impegnava a promulgare una Costituzione e a realizzare quelli che erano gli obiettivi del governo, tra cui figuravano l'unità di tutte le classi per promuovere il benessere del Paese, l'istituzione di un'assemblea e la garanzia di un dibattito pubblico per decidere sulle questioni di Stato, l'adozione delle norme giuridiche internazionali e la promozione della conoscenza all'estero allo scopo di rafforzare le basi dell'Impero121. Il contenuto del Giuramento fu incorporato nell'articolo 1 del Documento sulla forma di governo ("Seitaisho") emanato pochi mesi dopo, il quale rappresenta il primo esperimento di stesura di una Costituzione nazionale. Allo scopo di eliminare le difficoltà di una duplice autorità così come era stato sino ad allora con la coesistenza del bakufu e della Corte, il Seitaisho assegnava i pieni poteri di governo al "Dajokan", il Gran consiglio di Stato, il cui nome pareva riportare in vita le istituzioni introdotte più di mille anni prima122. Esso fu articolato in sette sezioni, assumendo in tal modo (pur nella divisione dei compiti) i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario123. Sebbene introducesse alcune importanti novità, come la separazione dei tre poteri e l'idea di rappresentanza, il Seitaisho non mancò di ribadire la priorità del rango e dell'ereditarietà come criteri per procedere alla nomina agli uffici. Nel complesso, la Costituzione del 1868 istituì un sistema di governo che, seppure con varie modifiche, sarebbe durato sino al 1885, quando venne sostituito con il sistema di gabinetto. Una significativa revisione si ebbe già nel 1869 quando, respinta l'idea di separazione dei poteri e assunta una struttura più autoritaria e simile a quella del periodo antico, il Dajokan divenne l'unico e supremo organo esecutivo e fu affiancato dall'ufficio degli Affari shintoisti (Jingikan), deputato all'esecuzione dei riti e al controllo della sfera spirituale e, pertanto, ritenuto come il più alto organo dello Stato124 Il Dajokan, guidato dal ministro della Sinistra (Sadaijin) e da quello della Destra (Udaijin), era composto dai membri del Consiglio consultivo (Sangi), presso cui confluirono le principali funzioni di governo, e sovrintendeva l'attività di sei ministeri125. L'Assemblea deliberativa assunse un ruolo secondario per poi essere dissolta, dimostrando l'intento di allontanare dal governo le figure secondarie. Si profilava così la nascita di una vera e propria oligarchia formata da un ristretto numero di energici capi, provenienti per lo più dalla Corte e dai quattro han più importanti, decisi a far prevalere gli interessi nazionali rispetto a quelli particolaristici, consapevoli delle proprie responsabilità di governo e decisi a imporre al Paese le riforme necessarie per realizzare gli scopi del "fukoku kyohei". Ciò consentì a questi uomini di superare la varietà di opinioni che li differenziava in merito a numerose questioni circa il futuro assetto del Giappone.
Verso il 1871, il potere del governo sembrò sufficientemente solido per procedere nell'opera riformista anche quando essa rischiava di incontrare forti resistenze o scontrarsi con interessi consolidati. D'altra parte, se l'abolizione dei feudi e l'istituzione del sistema delle province aveva aperto la strada all'estensione del controllo centrale sull'amministrazione locale, molto restava ancora da compiere per garantire allo Stato fonti indipendenti di reddito, per assicurargli una solida forza militare o per mobilitare i fondi e la manodopera necessaria allo sviluppo dell'industria. A questo proposito, occorre innanzi tutto menzionare taluni provvedimenti preliminari che avrebbero reso possibile il raggiungimento di questi obiettivi, dato che mirarono a rimuovere le restrizioni feudali che ne ostacolavano la realizzazione. In primo luogo, fu abrogato l'obbligo occupazionale vincolato alla classe di appartenenza e ai singoli individui fu concessa la libertà di scegliere il proprio impiego. Parallelamente, mentre i cortigiani e gli ex daimyo venivano nominati membri dell'aristocrazia (kazoku), si procedette al superamento del sistema mibun facendo confluire i contadini, gli artigiani e i mercanti nella categoria di heimin (popolazione comune), cui furono associati anche eta e hinin. Sempre in questa categoria l'anno seguente furono pure inseriti i samurai di basso rango, cui inizialmente era stato concesso il privilegio della qualifica di soldati (sotsu). A tutti gli heimin fu concessa la libertà di movimento, assieme alla possibilità di assumere un cognome, di contrarre matrimoni con individui di status diverso e di acquistare o cedere la terra. Quest'ultima opportunità fu resa possibile dalla rimozione del divieto di compravendita che, nel periodo Tokugawa, aveva gravato sulle terre agricole, con l'effetto di trasformare la terra in un bene commerciabile e di aprire la strada all'istituzione della proprietà privata.
Questi radicali cambiamenti contribuirono a favorire la mobilità della popolazione, nella società così come nel territorio, liberando la manodopera da impiegare nei settori in espansione, in primo luogo quello industriale; allo stesso tempo, però, pur fornendo ad alcuni nuove prospettive di lavoro, privarono altri del monopolio su determinate occupazioni, com'è palese nel caso della classe samuraica. La loro posizione fu poi ulteriormente colpita dall'introduzione della coscrizione obbligatoria, resa possibile dall'abolizione delle differenze di classe e dalla libertà occupazionale e operante a partire dal 1873. Ideata dal generale Yamagata Aritomo al ritorno dal suo soggiorno in Europa dove aveva studiato il sistema militare occidentale, la riforma prevedeva l'obbligo di prestare tre anni di servizio attivo e quattro come riservisti a tutti i maschi che avessero compiuto venti anni, a prescindere dalla loro provenienza sociale. Essa, pertanto, scardinò l'assetto che, per secoli, aveva assicurato alla classe samuraica il diritto esclusivo del potere militare, gettando le basi per la creazione di un moderno esercito regolare. Al provvedimento si opposero non solo i samurai, privati delle loro prerogative, ma anche i contadini, che definirono l'allontanamento della forza lavoro maschile dalle campagne come una «tassa di sangue» da versare al governo centrale. In varie zone del Paese si registrarono numerose e violente rivolte, alimentate anche dagli effetti generati dalle riforme fondiaria e fiscale, di cui si dirà tra breve.
I provvedimenti cui si è accennato consentirono di procedere in altri campi, soprattutto in quello economico, essendo orientati a stabilizzare le finanze dello Stato e a rafforzare l'economia nazionale attraverso la promozione di uno sviluppo capitalistico. Nei primi anni dell'era Meiji, infatti, l'erario del governo aveva attinto dai contributi di alcuni han, dai prestiti di case commerciali e dalle rendite dei territori confiscati ai Tokugawa, ma ciò non fu sufficiente a coprire le uscite, specie quando il governo si assunse l'onere del generoso appannaggio concesso agli ex feudatari trasformatisi in governatori provinciali, assieme al pagamento degli stipendi agli ex samurai126. A ciò si aggiungevano altre voci di spesa, dalla difesa sino all'amministrazione, mentre occorrevano fondi per acquisire tecnologia dall'estero e promuovere lo sviluppo industriale. D'altra parte, pur avendo conosciuto una prima fase di accumulazione (soprattutto sotto forma di capitale mercantile-usuraio e di rendita feudale), la condizione del Giappone nel primo Meiji era caratterizzata da una penuria di capitale disponibile, aggravata peraltro da una scarsa cultura imprenditoriale che spingeva verso un atteggiamento di estrema cautela nel fare investimenti in settori diversi da quelli tradizionali. Pertanto, la rapida industrializzazione necessaria a rafforzare le basi dell'economia nazionale e a rendere il Giappone competitivo con le Potenze occidentali poté essere compiuta a condizione che lo Stato stesso assumesse il ruolo di 'investitore', procurandosi il capitale occorrente a sostenere questo processo. Per garantirsi stabili e consistenti fonti di entrata, il governo guardò in primo luogo all'agricoltura, non essendovi altri settori dalla cui tassazione potesse provenire un gettito fiscale paragonabile a quello che l'imposta fondiaria poteva fornire, dato che il settore agricolo occupava circa quattro quinti della popolazione 127. Questa, dunque, era la situazione in cui furono attuate le riforme sulla proprietà e sull'imposta fondiaria, evidentemente mosse più da motivazioni di carattere economico che di ordine sociale.
Nel settembre del 1871, il Dajokan si riunì per discutere in merito a una nuova legislazione fiscale unificata a livello nazionale, definita in quella sede come «una questione vitale per lo Stato». In effetti, dato che da essa dipendeva il futuro assetto dell'economia del Paese, nella sua realizzazione furono impiegati i migliori talenti di cui l'oligarchia Meiji disponeva. In quella stessa sede si discusse pure della necessità di abolire il divieto di compravendita della terra, premessa essenziale per trasformarla in una proprietà privata soggetta a tassazione. L'anno successivo, infatti, si procedette alla verifica del possesso della terra e al rilascio dei titoli di proprietà (chiken) a coloro che, nel periodo di Edo, erano stati responsabili del pagamento delle tasse di un determinato appezzamento128. Ciò consentì di procedere alla stima della terra secondo il valore di mercato, in modo da calcolare la quota di imposta. Nel luglio del 1873 fu varata l'Ordinanza di revisione dell'imposta fondiaria ("Chiso kaisei jorei"), la quale rispondeva all'esigenza di creare un sistema di tassazione che fosse facile da esigere e difficile da evadere, e che garantisse entrate stabili, a differenza di quanto accadeva in precedenza quando le tasse erano soggette alle fluttuazioni del raccolto. In effetti, la riforma segnò una radicale modifica del sistema vigente nel periodo Tokugawa. Innanzi tutto, l'importo della tassa fu ora valutato secondo il valore della terra e fissato al 3 per cento del suo prezzo legale, eliminando così la possibilità di riduzione della quota in caso di cattive annate129. In secondo luogo, non era più il villaggio, ma il singolo proprietario a essere responsabile del pagamento, mentre il governo centrale si sostituiva al daimyo come ricevente. Inoltre, se prima a pagare l'imposta era il produttore diretto (fittavolo o coltivatore diretto che fosse), ora era il proprietario, sia che si trattasse di un produttore indipendente, sia che fosse una figura assenteista. Altra novità di rilievo fu poi il passaggio da una tassazione in natura a un'imposta in denaro, che ebbe pesanti conseguenze sulla condizione dei piccoli proprietari.
Gli effetti generati da questa riforma furono rilevanti e molteplici, sia per molti contadini sia per le sorti dell'economia nazionale. Per i contribuenti, l'imposta del 3 per cento non rappresentò di per sé un aggravio rispetto all'onere fiscale precedente, ma il fatto di non tenere conto delle fluttuazioni del raccolto e di esigere una tassa in denaro rese assai precaria la posizione dei piccoli proprietari. Costretti a convertire in denaro una parte del prodotto appena raccolto (che corrispondeva al 25-30 per cento del totale) per pagare l'imposta fondiaria, essi passarono da una condizione di relativa autosufficienza a una dipendenza diretta dal mercato, che li portò spesso a indebitarsi sino a cedere i propri appezzamenti. La stessa liberalizzazione della vendita della terra aprì la strada all'acquisizione illimitata di proprietà fondiarie attraverso vendite forzate, ipoteche e procedimenti analoghi, e ciò comportò un netto aumento della concentrazione di terre nelle mani di ricchi proprietari terrieri e una forte crescita di contadini spodestati130. Molti di loro si trasformarono così in una classe di affittuari che contribuiva ad aumentare la pressione sulle terre agricole e consentiva ai grandi proprietari terrieri di mantenere assai elevati i canoni di affitto131. Solo un numero relativamente ridotto di contadini espropriati andò a costituire il proletariato agricolo o industriale, in quanto all'epoca della riforma fondiaria l'industria non era ancora sviluppata al punto da poter assorbire questa manodopera in eccesso. In effetti, l'espropriazione dei contadini procedette più rapidamente dello sviluppo dell'impresa capitalistica nell'agricoltura e nell'industria urbana132.
La riforma fiscale ebbe un significato altrettanto considerevole per il governo centrale, che poté stabilizzare le entrate, avendo peraltro risolto il problema della solvibilità di ciascun proprietario, dato che, se incapace di pagare le tasse, egli cedeva il proprio appezzamento senza privare lo Stato della quota dovuta. Inoltre, essendo il Giappone un Paese essenzialmente agricolo, i proventi dell'imposta fondiaria costituirono nel primo decennio dopo la riforma oltre l'80 per cento delle entrate complessive e, comunque, sino alla fine del secolo continuarono a rappresentare la voce principale del bilancio statale133. Assicurandosi una fonte costante di reddito, il governo poté poi adottare un moderno sistema finanziario basato sul bilancio preventivo, che fu perfezionato negli anni Ottanta. Un altro rilevante aspetto riguarda il fatto che il gettito proveniente dall'imposta fondiaria contribuì a formare il capitale necessario per finanziare i costi della modernizzazione in una fase in cui, come già accennato, si registrava una scarsa disponibilità di capitali e di imprenditori propensi a impiegare il proprio denaro per modernizzare la produzione dei beni e introdurre dall'Occidente i nuovi processi manifatturieri. In breve, la riforma dell'imposta fondiaria consentì allo Stato di assumere il ruolo di guida nel processo di rapida industrializzazione del Paese, svolgendo pertanto una funzione trainante nello sviluppo economico del Giappone moderno.
Gli investimenti statali si concentrarono in primo luogo nella costruzione di efficienti infrastrutture e nella creazione di alcune industrie di base, tenendo ben presenti quelli che erano gli interessi prioritari del Paese, ovvero la difesa e il rafforzamento militare134. In primo luogo, fu avviata la costruzione di una moderna rete di trasporti e le 18 miglia della prima ferrovia Tokyo-Yokohama inaugurata nel 1872 passarono a 76 nel 1880. In quello stesso anno, le maggiori città erano collegate da una rete telegrafica e un moderno sistema postale si era sviluppato sotto un regime di monopolio statale. Gli investimenti negli armamenti navali crebbero progressivamente, contribuendo a gettare le basi del primo, grande successo che la flotta giapponese avrebbe conseguito nello scontro con la Cina nel 1894-1895. L'intervento statale nel settore industriale fu orientato a creare fabbriche modello, in modo da introdurre la tecnologia occidentale e favorire l'iniziativa privata, specie per quanto riguarda le costruzioni navali, il settore tessile (lanifici, setifici e cotonifici) e quello edile (cementifici, fabbriche di mattoni, vetrerie). Altri investimenti furono indirizzati nel settore metalmeccanico e nell'industria estrattiva. Allo stesso tempo, si cercò di stimolare l'iniziativa privata incentivando gli investimenti in alcuni settori industriali e in quello finanziario, promuovendo la crescita di una classe imprenditoriale e garantendo sussidi e condizioni assai favorevoli ai privati, specie ad alcune grandi compagnie135. Nel gestire «dall'alto» il processo di industrializzazione, lo Stato acquisì dall'estero la tecnologia necessaria, impiegando peraltro un gran numero di esperti e consiglieri stranieri ("oyatoi gaikokujin") chiamati a trasmettere le loro conoscenze ai giapponesi.
Il Giappone Meiji non si limitò a importare le conoscenze occidentali attraverso l'acquisizione di tecnologia e l'impiego di esperti, ma organizzò anche varie missioni in Europa e negli Stati Uniti. In realtà, sin dalla riapertura, gruppi di giapponesi si erano recati all'estero per iniziativa del bakufu o di singoli han, ma dopo il 1868 l'invio di delegazioni ufficiali assunse un ruolo ben più rilevante. Senza dubbio, la Missione che partì nel 1871 e che, dopo aver visitato gli Stati Uniti e molti Paesi europei, fece ritorno nel settembre del 1873 rappresenta lo sforzo più imponente compiuto in tal senso. Organizzata allo scopo di revisionare i «trattati ineguali» e di acquisire una conoscenza diretta dell'Occidente, essa fu guidata dall'illustre Iwakura Tomomi e vide la partecipazione di altri importanti uomini di governo (tra cui Kido Koin, Okubo Toshimichi e Ito Hirobumi), oltre a funzionari di livello minore e studenti al seguito. Nonostante l'insuccesso riportato sul fronte diplomatico con la mancata modifica dei trattati, i membri della Missione Iwakura poterono attingere conoscenze dirette in vari campi, dalla scienza e dall'economia sino alle istituzioni politiche e alla cultura, producendo nel corso del viaggio o al loro rientro una gran quantità di scritti che costituirono un essenziale strumento di conoscenza dell'Occidente. Le numerose informazioni attinte all'estero e riportate in patria, inoltre, misero in luce i «ritardi» che il Giappone manteneva in diversi campi, specie in quello militare, generando nel complesso una diffusa e radicata determinazione ad attuare in pieno gli obiettivi del fukoku kyohei.
Per realizzare le riforme volte a modernizzare il Paese, dunque, gli oligarchi Meiji guardarono costantemente all'Occidente, sebbene molti di loro in passato fossero stati convinti assertori del joi. In effetti, l'accanita opposizione agli stranieri era stata la risposta, formulata in termini sciovinistici, alla minaccia di esserne sopraffatti. La consapevolezza dei progressi tecnologici e scientifici compiuti dal mondo occidentale indusse i dirigenti Meiji, se non a mutare il loro originario scetticismo, quanto meno a comprendere come il cammino percorso dall'Europa e dal Nord America costituisse un valido esempio da seguire per rendere «ricco il Paese e forte l'esercito». Le energie confluite nella realizzazione di questo obiettivo furono mosse dallo stesso spirito patriottico e nazionalistico che, in un primo momento, aveva indotto molti di loro a una reazione di chiusura. Aprirsi all'Occidente, pertanto, significò aprirsi a nuove possibilità che avrebbero consentito al Paese di rafforzarsi e resistere alla pressione esterna. L'occidentalizzazione del Giappone Meiji, dunque, deve essere considerata alla luce del fatto che essa fu non un fine, ma uno strumento per realizzare il fukoku kyohei, trattandosi di un processo in cui l'accoglienza di istituzioni, idee o usanze straniere non implicò necessariamente un rifiuto della tradizione "tout court". Come vedremo, infatti, a un iniziale periodo in cui i vari aspetti della civiltà occidentale attrassero le attenzioni di molti giapponesi, seguì una fase di reazione caratterizzata dal recupero di una serie di valori, concezioni e soluzioni genuinamente nipponici.