2. IL GIAPPONE E L'ASIA ORIENTALE.
L'Asia Orientale è uno dei contesti al quale è possibile far riferimento per seguire il processo storico del Giappone, di certo non l'unico. A poco, infatti, servirebbe porre in relazione la storia del Giappone a quella di altri Paesi dell'Asia Orientale per analizzare alcuni fenomeni economico-sociali o socio-culturali, come la persistenza, anche dopo il proficuo contatto con la civiltà cinese, di una peculiare concezione in merito alla sacralità del sovrano, lo sviluppo di un particolare sistema di controllo delle risorse fondiarie ("shoen") o, ancora, l'ascesa politica di una classe militare che conia codici etici e comportamentali propri ("bushido"). La stessa affermazione di un sistema economico mondiale altamente competitivo e di una rete di relazioni internazionali proiettò la storia del Giappone verso un contesto che si estendeva ben oltre i confini della realtà asiatico-orientale. Anche il modo in cui il Giappone si propone oggi in termini economico-sociali e politici mostra come, pur occupando un'area geografica sottoposta per secoli all'influenza culturale cinese, esso abbia seguito un'evoluzione storica originale, distinta e talvolta persino indipendente rispetto a quella percorsa da altri Paesi di questa regione, ciascuno dei quali interagì con la civiltà cinese attraverso un rapporto dialettico tra elementi autoctoni ed elementi esterni. Le differenziate esperienze storiche scaturite da questa dialettica non sempre consentono di guardare alla storia dell'Asia Orientale come a un processo storico unitario. A cosa serve, dunque, parlare di Asia Orientale in relazione alla storia del Giappone? Per chiarire tale necessità occorrerà precisare in primo luogo che per Asia Orientale si intende un'area geografica comprendente alcuni Paesi (Cina, Corea, Giappone e Vietnam), i quali presentano taluni caratteri culturali comuni, trasmessi da un centro verso le zone periferiche attraverso una specifica forma di relazioni intentatali. Per molti secoli, infatti, l'ordine «mondiale» nella regione fu dominato dal sistema tributario, il quale si articolava attraverso una rete di rapporti gerarchici atta a regolare i contatti intrattenuti dalla Cina con le popolazioni esterne. Ciò si fondava su un modello noto come "huayi" ("ka'i" in giapponese), il quale esprimeva una visione del mondo secondo cui il grado di «barbarie» ("yi") aumentava con il crescere della distanza dal centro della «civiltà» ("hua"), laddove la distanza non era intesa solo in termini spaziali, ma determinata soprattutto dal livello di sinizzazione raggiunto dalle popolazioni periferiche. Questa concezione si impose progressivamente verso l'esterno, come emerge dal fatto che il carattere hua (nel suo significato di «splendore» e «fasto», oltre che di «civiltà») fu esportato in Giappone e qui usato come sinonimo di Cina. D'altronde, prendere parte al sistema tributario significava condividere questo modo di concepire l'ordine mondiale, che divenne un tratto caratteristico della diplomazia in Asia Orientale. La diffusione della cultura cinese verso le zone periferiche non si presenta, dunque, come un fenomeno spontaneo, rientrando in un processo che vide, da un lato, l'edificazione di un governo imperiale in Cina e la definizione di un sistema sinocentrico di relazioni interstatali e, dall'altro, l'attiva partecipazione a questo ordine «mondiale» da parte degli altri Paesi della regione. La stessa trasmissione del sistema di scrittura cinese nel contesto asiatico orientale non può essere considerata semplicemente come il frutto della volontà di dotarsi di una lingua scritta da parte di popoli che ne erano privi. In quanto fondata sul significato dei segni e non sul loro valore fonetico, la scrittura cinese rappresentò il veicolo attraverso cui si instaurarono contatti e transitarono informazioni e idee tra contesti linguistici diversi; ciò consentì di stabilire una forma di comunicazione condivisa dai Paesi della regione che il linguaggio verbale non avrebbe potuto creare5.
Il modello gerarchico delle relazioni tributarie rispecchiava la visione che i cinesi avevano del mondo esterno così come dell'ordine sociale; una visione, questa, intimamente legata alla tradizione confuciana. Nato e sviluppatosi in Cina, il Confucianesimo fu orientato a interessarsi all'ambito filosofico, etico e politico più che alla sfera religiosa, e fu rivolto in primo luogo alle élites dominanti, di cui riflette mentalità e interessi, caratterizzandosi come un pensiero al servizio del potere politico. Esso concepiva un ordine sociale coerente, dove al governante era richiesta una condotta esemplare che fungesse da guida morale per il popolo, mentre i governati erano vincolati al rispetto delle norme di condotta consone alla posizione che essi occupavano. L'armonia sociale era garantita a condizione che l'ordine prestabilito non fosse alterato, prefigurando così una società con un alto grado di immobilismo e di conservatorismo. I rapporti sociali e interpersonali si esplicavano sulla base di ruoli differenziati e su una direttrice verticale, come appare nei precetti morali che governavano la condotta dell'individuo. L'idea che il governante dovesse operare a beneficio del popolo facendo ricorso alla benevolenza e al paternalismo, più che all'efficacia delle leggi, e che i governati fossero tenuti al rispetto e obbedienza nei confronti del superiore stabiliva una modalità di rapporto applicata anche nell'ambito familiare, regolando le relazioni tra padre e figlio, tra marito e moglie, e tra fratello maggiore e fratello minore.
Trasferita all'ordine «mondiale», tale concezione ispirò il modello delle relazioni tributarie, dove ai «barbari» era accordata una condizione di subalternità, che veniva comunque compensata da una serie di benefici di natura politica, economica e culturale. L'Imperatore cinese, infatti, si proponeva come fonte di legittimazione del potere, e a lui molti capi locali si rivolgevano per ottenere la conferma della propria egemonia, esprimendo in tal modo un riconoscimento formale del primato morale e culturale che la Cina deteneva nella regione. I tributi offerti alla Corte imperiale cinese come segno di sottomissione erano in genere ricompensati con generosità, mentre i rapporti con una civiltà che, sotto il profilo delle istituzioni politiche, economiche, sociali e culturali, appariva assai avanzata consentivano agli Stati tributari di beneficiare dei progressi compiuti dalla Cina in vari campi. La garanzia di pacifiche relazioni diplomatiche nella regione derivava dall'osservanza di una condotta e di una terminologia rituale appropriate alla posizione che ciascuno occupava all'interno di questo ordine mondiale. L'efficacia di questo modello gerarchico, che regolava il mondo, la società e l'ambito familiare e ne garantiva l'armonia, è riscontrabile in una terminologia che esprime la differenziazione dei singoli ruoli e delle reciproche posizioni. Per indicare un tributo, ad esempio, i cinesi coniarono vari termini, a seconda della provenienza e del destinatario; assai più numerose risultano essere le espressioni che designano la collocazione di un individuo rispetto a un contesto sociale o familiare. Basterà pensare al complesso e articolato uso di espressioni denigratorie (con valore autoreferenziale) e onorifiche (da rivolgere all'interlocutore), oppure al ricorso a termini in grado di indicare dettagliatamente il sesso, l'età o l'ordine di nascita di un individuo6. In definitiva, la premessa di rapporti differenziati nel mondo, così come nella società e nella famiglia, rappresentò un elemento unificante in Asia Orientale, sorretto e rafforzato dall'affermazione del sistema tributario interstatale e dalla diffusione del Confucianesimo negli altri Paesi della regione. Se la diplomazia tributaria sarebbe stata superata con l'affermazione di un nuovo modello di relazioni internazionali introdotto dall'Occidente nel corso del diciannovesimo secolo, la persistenza della concezione confuciana è tuttora percepibile in vari atteggiamenti, comportamenti e pratiche riscontrabili, seppure con rilevanza e in forme diverse, nelle singole società della regione.
Estendendosi oltre i confini della Cina, le concezioni confuciane interagirono con il sostrato culturale autoctono delle altre società dell'Asia Orientale, le quali si mostrarono assai interessate al Confucianesimo, ma non per questo incapaci di operare selezioni, modifiche e, anche, rifiuti. Il Giappone antico, ad esempio, si ispirò alle teorie elaborate in Cina in relazione allo Stato e all'istituto imperiale, di cui fu peraltro adottata parte della relativa terminologia; tuttavia, ritenne opportuno evitare di accogliere il principio secondo cui spettasse al Cielo la facoltà sia di assegnare al sovrano il compito di governare con benevolenza e a beneficio del popolo, sia di revocare il mandato qualora egli si fosse rivelato incapace di adempiere tale dovere. All'idea di transitorietà del potere di una casa regnante insita nella dottrina del «mandato celeste» - e palese nell'avvicendamento in Cina di diverse dinastie, due delle quali persino di origine straniera - si preferì la concezione autoctona che, attribuendo al sovrano origini divine in quanto discendente da una progenitrice celeste e legittimando così a priori il suo diritto a governare, conferì stabilità, immutabilità e continuità alla stirpe imperiale giapponese. Il favore accordato in Giappone alla discendenza e all'ereditarietà è dimostrato anche dallo scarso successo incontrato dal tentativo di emulare il sistema meritocratico cinese il quale, attribuendo un alto valore alle qualità morali e intellettuali dell'individuo, costituiva il criterio principale per l'assegnazione di mansioni e incarichi pubblici; al potenziale dinamismo che la meritocrazia prospettava all'interno dell'ordine sociale si preferì pertanto il consolidamento di un sistema di trasmissione ereditaria del potere e dei privilegi. Anche per quel che riguarda la terminologia atta a designare la visione gerarchica del mondo circostante, dalla società sino alla famiglia, il Giappone adottò numerose soluzioni suggerite dai cinesi ma non esitò a trascurarne altre. Per esempio, il termine "pu" inteso in Cina come «vostro umile servo» si affermò con analogo significato ("shimobe") ed è tuttora usato dai maschi in modo autoreferenziale ("boku"); tuttavia, i giapponesi non ritennero necessario distinguere se uno zio fosse il fratello maggiore (in cinese "bofu") o minore ("shufu") del proprio padre, preferendo piuttosto il termine più generico di "oji", che designa indifferentemente uno zio paterno o materno, diretto o acquisito, ed è scritto usando entrambe le forme cinesi7.
Dalla mediazione tra l'apporto della civiltà cinese e gli elementi culturali indigeni scaturirono quindi soluzioni originali, distinte, talvolta perfino esclusive. Si tratta di una dialettica che occorre considerare al fine di cogliere il rapporto tra unitarietà e specificità nei singoli processi storici, in Giappone così come negli altri Paesi dell'area. Pertanto, parlare di Asia Orientale significa far riferimento a un contesto geografico-culturale nel quale prevalgono alcune concezioni comuni relativamente alla visione del mondo circostante, alla concezione di autorità, al ruolo della morale, al valore dell'individuo nella società o al rapporto tra società e Stato. Questo riferimento può risultare utile per immetterci in un contesto culturale assai distante dalla nostra civiltà, la quale presenta di certo esperienze storiche differenziate, ma condivide anche una eredità comune (la tradizione giudaico-cristiana, il pensiero politico e giuridico greco e romano o lo stesso universalismo associato all'idea di Occidente) la quale ha forgiato un corredo di idee, atteggiamenti o abitudini che agiscono sul nostro modo di pensare e di comportarci ben più di quanto in genere riusciamo a percepire. Comprendere il sostrato culturale che accomuna le società dell'Asia Orientale è quindi il primo passo per comprendere la loro storia, passata e presente.