7. I «GOVERNI DIPARTITO», LA DEBOLEZZA DEI PARTITI POLITICI E LA STRETTA AUTORITARIA.
In sostanza, intorno alla prima metà degli anni Venti, nella società giapponese si manifestarono tensioni e si profilavano possibili movimenti che rischiavano di incrinarne la compattezza della società, valori inalienabili nella visione «armoniosa» perseguita con determinazione dalla burocrazia civile. In questo clima, il Kakushin kurabu (Club riformatore) e i partiti Keisei e Seiyu diedero vita a una coalizione nella Camera bassa che, dopo le dimissioni del governo «trascendente» di Kiyoura Keigo, formarono una maggioranza in appoggio del governo di Kato Takaaki, presidente del primo «governo di partito».
Con l'espressione «governi di partito» si indicano gli esecutivi operanti fra l'11 giugno 1924 e il 26 maggio 1932. In questo breve arco temporale, infatti, i governi giapponesi nacquero sulla base di maggioranze parlamentari. Nel periodo antecedente (dal 1885, primo governo «moderno») e successivamente fino alla resa del 1945, i governi furono considerati «trascendenti» per definizione. In sostanza, questi erano varati dai consiglieri dell'Imperatore con il beneplacito degli Stati maggiori di Esercito e Marina ed erano investiti della funzione esecutiva senza che godessero necessariamente della maggioranza parlamentare. Anche i «governi di partito» dovettero sottostare ad alcune regole determinate dai rapporti di forza interni al blocco di potere. Innanzi tutto, i ministri della Difesa e della Marina continuarono a essere ufficiali superiori indicati dagli Stati maggiori delle rispettive armi. Inoltre, l'influenza delle «cricche» burocratiche si fece sempre sentire nella scelta di responsabili dei dicasteri. A titolo di esempio, il governo Kato (11 giugno 1924-2 agosto 1925), oltre ai due ministri militari, annoverava due ex funzionari superiori delle Finanze ai ministeri delle Finanze e degli Interni, un diplomatico di carriera agli Esteri, un ingegnere dello zaibatsu Mitsubishi alle Ferrovie, un ex Primo ministro all'Agricoltura e Commercio e un consigliere imperiale, membro della Camera alta, all'Educazione.
I partiti erano pervasi da un'ideologia e svolgevano un'azione politica tutte interne agli obiettivi e agli interessi del blocco di potere dominante, del quale erano parte integrante, seppur in una posizione subordinata. Pertanto, essi non ebbero la forza, né la volontà, di adottare una strategia orientata ad ampliare il loro potere e, in prospettiva, capace di trasformarli in soggetti preminenti nel processo di decisione politica. Inoltre, i partiti progressisti o rivoluzionari, i soli che avrebbero potuto porsi come elementi di rottura degli equilibri di potere, non erano presenti nella Camera bassa.
La subalternità dei partiti politici emerse in tutta evidenza nel 1925. La tensione presente nella società indusse il governo a dare una risposta alle rivendicazioni del movimento per il suffragio universale, chiesto a gran voce dai ceti medi urbani, da intellettuali e dai primi gruppi femminili, costituitisi sull'esempio delle suffragette inglesi. La coalizione tripartita che sosteneva il governo Kato, pur con lievi divergenze al suo interno, era sostanzialmente favorevole a un ampliamento delle libertà e dei diritti politici. Tuttavia, oltre alle resistenze di influenti personalità della burocrazia civile e delle forze armate, il governo si trovò di fronte all'opposizione della Camera alta (il cui voto favorevole era indispensabile per completare l'iter parlamentare) e del Consiglio Privato, al quale spettava il giudizio di costituzionalità delle leggi. Dopo estenuanti trattative con queste istituzioni, il 5 maggio 1925 fu infine approvata la legge che istituì il suffragio generale maschile. A fronte dell'ampliamento dell'elettorato attivo da 3 a circa 12 milioni di maschi con età superiore a 25 anni (grosso modo pari al 20 per cento della popolazione), nella legge furono introdotte alcune limitazioni. Ebbero diritto di voto soltanto coloro che risiedevano da almeno un anno nel collegio elettorale e a condizione che non fossero «indigenti», cioè fruitori dell'assistenza pubblica. Inoltre, i candidati dovevano versare una cauzione di 2000 yen (pari al doppio del reddito medio annuo di una famiglia di proprietari terrieri autosufficienti), cauzione che veniva incamerata dalle casse dello Stato in caso di mancata elezione. Con l'applicazione di questa norma - che nelle elezioni del 1928, le prime a suffragio generale maschile, permise all'amministrazione statale di incamerare 990 mila yen - rese di fatto impossibile la partecipazione alle consultazioni elettorali di appartenenti ai ceti popolari.
Alla limitata apertura democratica fece immediatamente seguito l'approvazione della Chian ijiho (Legge per il mantenimento dell'ordine pubblico), entrata in vigore il 12 maggio 1925. Questo provvedimento nacque dal timore del blocco di potere dominante sia per le agitazioni politiche e sociali che stavano percorrendo la società giapponese, sia per ipotizzabili futuri mutamenti di rapporti di forza in conseguenza dell'allargamento della base elettorale. Fin dai tempi del governo di Hara Takashi se ne era discusso, senza tuttavia approdare a decisioni definitive. L'iniziativa fu presa, alla fine, dai vertici burocratici del ministero della Giustizia e dal vicepresidente del Consiglio Privato, Hiranuma Kiichiro, ex funzionario di quel ministero. Il testo approntato ottenne il beneplacito dei consiglieri dell'Imperatore, dei vertici militari, dei funzionari superiori e del mondo imprenditoriale e giunse, quindi, a rapida approvazione.
La promulgazione della Chian ijiho rappresenta un momento di svolta fondamentale nel processo politico giapponese. Infatti, i funzionari del ministero degli Interni, la polizia e la magistratura la utilizzarono più volte, fino alla fine della seconda guerra mondiale, per colpire «legalmente» ogni opinione difforme all'ideologia dominante. Con l'entrata in vigore della legge, venne meno il fondamento stesso dei regimi costituzionali, vale a dire la certezza del diritto. La Chian ijiho si configura come una «legge speciale», applicabile secondo la convenienza politica per perseguire gli avversari del regime. Infatti, essa introdusse il divieto di «alterare il kokutai» (sistema nazionale), un termine ambiguo, indefinibile e indefinito nello stesso testo di legge e, pertanto, sottoposto a qualsiasi interpretazione discrezionale. La legge, inoltre, perseguendo i «crimini di pensiero», dette a polizia e magistratura ampie possibilità di intervento sia contro le attività politiche sia contro le elaborazioni ideologiche considerate «pericolose». In questo modo, il regime poté prevenire tanto l'azione dei sostenitori della rivoluzione quanto coloro che propugnavano la necessità di riformare lo Stato nato dalla trasformazione del Meiji.