6. DIFFICOLTA' ECONOMICHE E CRISI DEI PRIMI ANNI VENTI NEL GIAPPONE.
Se la prima guerra mondiale rappresentò per l'economia giapponese la possibilità di incrementare in modo massiccio produzione ed esportazioni, il periodo successivo, fino ai primi anni Trenta, fu caratterizzato da una serie di congiunture negative seguite da momentanee riprese. Alla crisi seguita alla fine del conflitto, la quale ebbe un impatto violento sulla società, si erano aggiunti per il blocco di potere dominante altri elementi di preoccupazione di origine internazionale. La Rivoluzione d'ottobre in Russia, con il suo estendersi all'Asia Centrale (dove l'intervento internazionale fallì nell'appoggiare le «armate bianche»), fu considerata una minaccia incombente e permanente. Inoltre, assai più percepibili in Giappone, nel 1919 in Corea e in Cina presero corpo i già menzionati movimenti di massa contro la dominazione imperialista con l'obiettivo del boicottaggio delle merci straniere e, dunque, anche giapponesi.
Alla fine della prima guerra mondiale, la crisi di riconversione produttiva che colpì gli Stati Uniti si riversò con estrema virulenza sull'economia giapponese. Venute meno le forniture militari, negli Stati Uniti si registrò, in conseguenza della contrazione della produzione, una caduta di domanda, soprattutto dei beni di lusso, tra i quali una voce rilevante era costituita dalle importazioni di seta dal Giappone. Infine, i manufatti prodotti nei Paesi dell'Intesa ripresero con gradualità, ma con continuità, a «rioccupare» il mercato asiatico, riducendo lo spazio commerciale del Giappone. Quando nel 1922 gli altri Paesi imperialisti superarono la crisi, il Giappone vi era ancora parzialmente immerso.
Alle difficoltà conseguenti alla complessità della situazione, nel settembre del 1923 si aggiunse un evento catastrofico: il grande terremoto del Kanto (l'area di Tokyo), che avrebbe avuto conseguenze negative sullo sviluppo economico. Furono contati oltre 100 mila morti e 3,3 milioni di feriti, mentre i danni materiali ammontarono a circa mezzo miliardo di yen. La massiccia importazione di beni di largo consumo e di materiali per la ricostruzione aggravò la bilancia dei pagamenti. Durante i giorni successivi al disastro, si verificò un grave episodio che da la misura dello sciovinismo razzista dei giapponesi del tempo. Al fine di fare fronte all'emergenza, furono organizzati gruppi di volontari che affiancarono la polizia nel mantenimento dell'ordine pubblico. Da questi gruppi, presenti e compartecipi i poliziotti, partì una violenta persecuzione di cinesi e coreani presenti a Tokyo. Il tragico bilancio della persecuzione si concluse, secondo fonti non ufficiali (ma su questo punto, come su molti altri, le autorità giapponesi sono reticenti), con l'assassinio di 4000 coreani e 400 cinesi. A rendere ancora più grave l'episodio, non risulta che la magistratura o i vertici del ministero degli Interni siano intervenuti per perseguire i colpevoli.
Accanto all'andamento della produzione industriale, altalenante fino ai primi anni Trenta, la struttura e l'organizzazione del settore primario rimase inadatta a superare la «stagnazione agricola». Le scelte politiche governative non furono in grado di razionalizzare il settore, sul quale incidevano vari fattori. Infatti, ormai completata la messa a coltura delle aree coltivabili, la crescita agricola fu impedita dalla eccessiva frammentazione dei campi. Secondo una fonte governativa, nel 1926 ogni famiglia rurale coltivava in media 17 lotti. In questa situazione, l'introduzione della meccanizzazione fu assai limitata, non permettendo rilevanti incrementi della produttività. Inoltre, nel 1927, a fronte dei 4000 proprietari di circa 50 ettari (un'estensione enorme, in considerazione della produttività delle risaie), oltre 3,6 milioni di piccoli contadini (pari al 74,1 per cento del totale delle famiglie rurali) possedevano da meno di 1000 metri quadri a un ettaro. Da qui il ricorso massiccio all'affittanza e, quindi, alla consistente incidenza numerica del ceto dei proprietari-affittuari. Si noti che il ricorso all'affittanza, a causa dell'elevato costo dell'affitto (che oscillava, a seconda delle zone, dal 44 al 58 per cento dei raccolti), gravava pesantemente sui bilanci familiari.
Gli affittuari, costretti a un livello di vita di mera sussistenza, fondarono loro unioni, 4582 con oltre 365 mila aderenti nel 1927. Tuttavia, queste unioni locali non seppero, né avrebbero potuto, in seguito creare un movimento con radicamento e dimensioni nazionali. A esse mancò la capacità di unificare le lotte e di individuare obiettivi strategici. Le unioni si limitarono a rivendicare, nella maggior parte dei casi, l'istituzione di indennità di fine rapporto oppure riduzioni temporanee o permanenti dei canoni di affitto. In sostanza, le loro vertenze non incisero politicamente né socialmente sui rapporti di classe nella società rurale. La risposta dei proprietari terrieri, grandi e piccoli, fu quasi immediata: a loro volta diedero vita a unioni, al cui interno erano presenti anche molti proprietari-affittuari. Queste unioni organizzarono la resistenza contro le rivendicazioni dei contadini senza terra. Inoltre, in molti villaggi furono fondate «unioni per la collaborazione» di cui facevano parte sia proprietari sia affittuari e che, facendo leva sulla confuciana «armonia sociale», delegittimarono gli antagonismi e le contrapposizioni frontali.
Il maggiore incentivo alle lotte venne dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli più diffusi e dall'incremento del divario tra le condizioni di vita nelle città e quelle nelle campagne: alla metà degli anni Venti, il reddito medio pro capite degli addetti all'industria era pari a 440 (con base 100 nel 1913), quello degli addetti al commercio e ai servizi rispettivamente 448 e 401, contro 163 nel settore agricolo e 220 della media nazionale. Nel corso degli anni in cui si svilupparono le unioni degli affittuari, il governo predispose una serie di interventi che, oltre ad attenuare la crisi nelle campagne, depotenziarono le lotte rurali. Nel luglio del 1924 fu varata la Kosaku choteiho (Legge per l'arbitrato dell'affittanza) che divenne un efficace strumento dei proprietari terrieri per opporsi alle vertenze che stavano salendo di tono.
Nel 1923 era stata fondata la Banca centrale per la cooperazione, che finanziò vari progetti di bonifica. Inoltre, il governo agì attraverso finanziamenti alle "nokai", influenti organizzazioni controllate centralmente dal ministero dell'Agricoltura e, a livello locale, dai grandi proprietari terrieri, cui era fatto obbligo di associarsi, mentre per gli altri contadini l'iscrizione era facoltativa. Le nokai offrirono prestiti a tassi agevolati ai piccoli coltivatori considerati solvibili, ma non finanziarono gli affittuari meno abbienti o i proprietari-affittuari che avessero partecipato alle vertenze. Questo tipo di intervento, oltre che assecondare l'espansione capitalistica, divenne lo strumento di ricatto dei grandi proprietari contro gli affittuari e i proprietari-affittuari che potevano aspirare a migliorare la loro situazione soltanto con corposi finanziamenti, negati a chi non operava per mantenere l'«armonia sociale» nelle comunità di villaggio, «armonia» di cui beneficiarono i proprietari terrieri, assenteisti o meno che fossero.
La crisi endemica che si protrasse nel corso degli anni Venti, oltre che contrarre i salari operai, determinò l'estendersi dei licenziamenti, tanto che, per esempio, nel solo mese di luglio del 1925 i disoccupati aumentarono di 200 mila unità. Nel 1926 le azioni di sabotaggio e gli scioperi raggiunsero l'apice di 495, con oltre 67000 partecipanti. Il pur debole sindacato Sodomei contò 485 sezioni di fabbrica nel 1926 (505 nel 1927) con la punta massima di 385 mila iscritti su una popolazione attiva nell'industria, nei trasporti e nelle miniere stimata intorno ai 4-4,5 milioni di addetti. Il malcontento operaio fu generato sia dalla difficile situazione economica e occupazionale sia dalla ristretta libertà per le attività politiche. In definitiva, gli interessi del proletariato si saldavano, da un lato, con quelli dei contadini poveri e, dall'altro, con quelli dei ceti medi urbani che, come si ricorderà, invocavano una riforma della Costituzione e l'introduzione del suffragio universale.