3. I PARTITI POLITICI TRA COERCIZIONE E ORGANIZZAZIONE DEL CONSENSO.
Il cosiddetto «incidente di Hibiya» non solo sottolinea l'esistenza di tensioni e di conflitti irrisolti all'interno della società giapponese, ma per la brutalità della sua repressione pone in risalto i modi di intervento del governo e dell'amministrazione contro ogni dissenso. Il bilancio dell'azione di polizia ed Esercito fu di 17 morti, circa 500 feriti, 2000 arrestati, 308 processati. La maggior parte degli 87 condannati a pene detentive erano disoccupati che avevano manifestato l'insoddisfazione per la loro condizione economico-sociale appoggiando la protesta dei nazionalisti, ma superandone intenzioni e obiettivi. La strada all'affermazione dello sciovinismo di massa era ormai aperta.
L'«incidente di Hibiya», inoltre, rivela la filosofia coercitiva dei rapporti tra le forze sociali elaborata dal blocco di potere dominante nei confronti delle masse soggette. Si assistette a un progressivo inasprimento della repressione contro ogni forma di dissenso, perseguita con determinazione dall'oligarchia Meiji fin dall'avvio della «rivoluzione dall'alto» e parallelamente alla edificazione dello Stato moderno. I diritti civili e politici, pur contemplati dalla Costituzione, furono limitati con vari interventi normativi, sino all'approvazione della Chian keisatsuho (Legge di polizia per l'ordine pubblico) del 1900. Questa legge sistemò l'intera materia e diede a polizia e magistratura la possibilità di reprimere le voci di dissenso al regime esistente, proprio nel momento in cui avevano preso a penetrare in Giappone teorie politiche contrastanti con l'ideologia dominante. Fino alla prima guerra mondiale, nella storia politica del Giappone vi furono vari casi di partiti e associazioni di ispirazione socialista disciolti dall'apparato repressivo a distanza di poche settimane o, addirittura, di poche ore dalla loro fondazione.
L'approvazione della Legge di polizia per l'ordine pubblico, se da un lato aveva sancito la perdurante egemonia ideologica del blocco di potere, dall'altro aveva posto in luce le difficoltà dei partiti politici a enucleare linee d'azione condivise. Le formazioni politiche sorte nel periodo Meiji dall'iniziativa di appartenenti all'oligarchia (nonché da personaggi che, come si è visto, si erano dissociati dalla politica di Tokyo abbandonando il governo) furono subalterne alla logica che aveva guidato la «rivoluzione dall'alto» e che permeava la teoria del «governi trascendenti». Insomma, nei turni elettorali successivi all'approvazione della Costituzione non si formarono partiti politici inscrivibili a un'opposizione ferma, in quanto sugli indirizzi e sui programmi dei partiti pesarono consonanze e interessi comuni al blocco di potere dominante, di cui avevano fatto parte gli stessi fondatori delle organizzazioni politiche. In definitiva, non esisteva una chiara discriminante tra i "minto" (partiti popolari) e i "rito" (partiti burocratici) e le prime campagne elettorali furono assai più lotte per l'acquisizione di potere che per modificare gli indirizzi di politica interna e internazionale.
Sia le prime elezioni del 1890, sia quelle del 1892 (quest'ultime segnate da intimidazioni e disordini sfociati in uccisioni e ferimenti) registrarono il successo dell'opposizione liberale. Tuttavia, anche dopo le successive elezioni, le alleanze parlamentari furono instabili e solo nel primo decennio del Novecento il sistema politico-partitico giapponese avrebbe raggiunto un certo grado di equilibrio. Nella Camera bassa, accanto a formazioni minori, erano presenti il Rikken Seiyukai (Partito degli amici del governo costituzionale), fondato da Ito Hirobumi nel 1900 e presieduto, dall'anno successivo, da Saionji Kinmochi (1849-1940), e il Kensei honto (Vero partito per la politica costituzionale), presieduto da Okuma Shigenobu.