1. LA REVISIONE DEI «TRATTATI INEGUALI» E L'INIZIO DELL'ESPANSIONE COLONIALE.
Consolidato il processo di industrializzazione, obiettivo primario del blocco di potere divenne la piena indipendenza dell'Impero da conseguire attraverso la revisione dei «trattati ineguali», la quale avrebbe contribuito ad assicurare al Giappone una posizione preminente in Asia e all'interno della comunità internazionale. A questo proposito occorre ricordare che, nella sua qualità di Primo ministro, Yamagata Aritomo durante la prima sessione parlamentare (1890) sostenne l'esigenza di distinguere tra «sfera della sovranità» del Giappone, costituita dal territorio nazionale, e «sfera di interesse nazionale», comprendente la penisola coreana in quanto parte dell'area di protezione strategica del Paese. Questa concezione saldò le aspirazioni dei nazionalisti, difensori del kokutai, e gli interessi dei grandi gruppi monopolistici e costituì il sostrato su cui proliferò l'ideologia imperialista del blocco di potere dominante.
La crescita accelerata dell'economia giapponese fu resa possibile dalla contrazione dei consumi interni, collegata a sua volta ai bassi salari operai e all'alta imposizione fiscale sulle rendite fondiarie. Questa scelta di politica economica permise sia la vendita sul mercato internazionale dei prodotti giapponesi (quali soprattutto filati e tessuti) al fine di compensare l'importazione di prodotti ad alto contenuto tecnologico, sia il sostegno della dinamica degli investimenti. Tuttavia, il capitale finanziario, nella forma zaibatsu, era relativamente debole rispetto ai concorrenti internazionali. In definitiva, nonostante lo sviluppo accelerato e gli interventi del governo in economia, il capitalismo giapponese fu «un capitalismo senza capitali»152. Sino alla fine della seconda guerra mondiale, infatti, il 44 per cento dei fondi raccolti sui mercati esteri attraverso prestiti garantiti dallo Stato fu investito nei Paesi dell'Asia come capitale giapponese. La scarsità di fondi, in sostanza, avrebbe posto l'imperialismo giapponese in una situazione di fragilità rispetto agli imperialismi occidentali.
La politica espansionista, funzionale alla massima coesione della società giapponese intorno agli obiettivi nazionalistici ed essenziale per difendere gli interessi del grande capitale, fu avviata con la guerra contro l'Impero cinese (luglio 1894-aprile 1895). La vittoria riportata dal Giappone ebbe risonanza nei circoli internazionali, specie tra i nazionalisti asiatici che iniziarono a considerare il Giappone un esempio di trasformazione e di adeguamento alle Potenze occidentali, ovvero un modello da seguire per liberare i loro Paesi dalla dominazione coloniale. In realtà, essi non colsero la natura potenzialmente imperialista del regime giapponese e del conflitto nippo-cinese. Tale sottovalutazione discese dalla mancata comprensione che il Giappone aveva alzato solo apparentemente la bandiera della lotta contro l'Impero cinese, ma con l'unico obiettivo di sostituire l'influenza cinese in Corea, parte costitutiva della «sfera di interesse nazionale» e «ponte ideale» verso i mercati continentali per l'intero blocco di potere, secondo l'opinione già menzionata del Primo ministro Yamagata.
Nonostante il successo militare, lo status internazionale del Giappone non fu pienamente riconosciuto dalle grandi Potenze, le cui diplomazie operavano ormai con l'attenzione volta allo scacchiere asiatico. La guerra nippo-cinese si concluse con il Trattato di Shimonoseki che, rifacendosi ai «trattati ineguali» imposti dalle Potenze occidentali alla Cina e allo stesso Giappone, previde pesanti clausole per Pechino: riconoscimento dell'indipendenza della Corea, fino ad allora considerata uno Stato vassallo dell'Impero cinese; apertura di quattro ulteriori porti cinesi al commercio giapponese; riconoscimento al Giappone dello status di «nazione più favorita»; cessione di Taiwan (Formosa), delle isole Pescadores e della penisola del Liaodong. Infine, il trattato impose alla Cina il versamento di un risarcimento bellico di 200 milioni di "tael" d'argento153.
Il tentativo giapponese di annettere il Liaodong fu contrastato dal cosiddetto «Triplice intervento» nel 1895: Russia, Francia e Germania imposero al Giappone la restituzione della penisola con il pretesto che la cessione avrebbe danneggiato la Cina e messo in pericolo l'indipendenza della Corea. Tokyo, attraverso la mediazione italiana, cercò invano l'appoggio diplomatico di Stati Uniti e Gran Bretagna che, tuttavia, rimasero neutrali nella controversia.
Alla fine, considerata la disparità degli armamenti, il governo giapponese fu costretto a cedere alla pressione internazionale e, in cambio del Liaodong, ottenne un aumento dell'indennità di guerra di altri 30 milioni di tael d'argento. Il riconoscimento da parte cinese del pagamento dell'intera indennità per risarcire le spese del conflitto ebbe importanti ripercussioni sia in Cina sia in Giappone. Pechino fu costretta a ricorrere a un prestito internazionale pari a circa il doppio di quanto dovuto al Giappone, il quale fu garantito dai dazi doganali controllati dalla Gran Bretagna. Il governo giapponese, con l'espansione delle sue riserve di metallo prezioso, fu in grado di adottare, nel 1897, il "gold standard", con grandi vantaggi per le esportazioni e, in generale, per l'economia. Tuttavia, il «Triplice intervento» palesò ancor più ai dirigenti giapponesi che soltanto la forza militare e le alleanze diplomatiche costituivano una garanzia per la difesa dei propri interessi in Asia. All'inizio del Novecento, il governo giapponese ebbe modo di consolidare i propri rapporti internazionali sfruttando la situazione creatasi in Asia Orientale. Alla svolta del secolo, infatti, la Cina fu percorsa dalla rivolta dei Boxers; il movimento, con una forte connotazione xenofoba, investì ampie regioni dell'Impero e giunse ad assediare il quartiere delle Legazioni straniere di Pechino. La Corte cinese, divisa al suo interno sulla scelta politica se reprimere o appoggiare i Boxers, ormai indebolita e vicina al collasso, non intervenne e la difesa delle Legazioni ebbe momenti drammatici. La liberazione del quartiere diplomatico e la repressione della rivolta avvenne su iniziativa delle Potenze occidentali, le quali inviarono in Cina un contingente militare. Nell'estate del 1900, il Giappone partecipò alla spedizione con l'invio di 8000 uomini, pari alla metà della forza internazionale che riuscì a soffocare la rivolta e a liberare il quartiere delle Legazioni. La partecipazione del Giappone alla spedizione militare internazionale valse a Tokyo il definitivo riconoscimento da parte degli Stati occidentali.