21 DICEMBRE, 14.31, ORA STANDARD DELLE HAWAII-ALEUTINE
Denunciata!
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
con un salto, la bella sconosciuta si proietta in avanti. E mentre io sono stesa agonizzante su quel terreno di plastica, lei, staccate le avvenenti forme dalla portantina, atterra con tutto il suo peso sulla mia spina dorsale denudata e scossa.
Sotto di lei, mi dibatto. Cerco di strisciare via. Nella lotta, la bambina perfetta si mette a cavalcioni su di me. Piantandomi i tonici glutei sulla parte bassa della schiena, mi picchia sulla testa con i pugni. Afferra i miei capelli scompigliati e mi spinge la faccia verso il divampante fuoco appiccato dalla candela, finché la pelle si copre di vesciche. Il calore mi gonfia le labbra come un’overdose di collagene, tirando la pelle fino a spaccarla.
Le fiamme sono così vicine che anche l’estremità infiocchettata del mio codino unto prende fuoco. Ciocche di capelli intrecciati cominciano a bruciare piano come puzzolenti micce a combustione lenta.
Le mie ossa, rotte… il cuore, straziato… sono inerme, incapace di rialzarmi. Nessuno viene in mio aiuto. Il fantasma di Mr K se ne sta in disparte, singhiozzante. La succube, Babette, è dall’altra parte e ulula con demoniaca gioia, mentre i burinisti assembrati piangono e digrignano i denti.
È evidente: i miei genitori non mi vogliono bene. I miei genitori non mi riconoscono neppure. Amano lei, questa magrissima versione Barbie di me.
Vi avverto, miei cari seguaci pre-morti: quando ci si insedia in una qualsiasi forma vivente, si è costretti a risiedervi fino a che questa non muore. Bisogna soffrire finché le ingiurie accumulate in vita non mettono quel veicolo definitivamente fuori servizio. In altre parole, il mio spirito non può fuggire. Sono costretta a subire questo doloroso pestaggio.
Mi dimeno sotto il suo peso sorprendente. Mi contorco per fronteggiarla. A mo’ di uniforme, la Madison-Barbie indossa la tristemente famosa camicia di chambray sozza di sostanza viscida, i lembi arricciati sopra le sue gambe nude. Come clava, invece, brandisce The Voyage of the Beagle, quel libro tanto annotato e macchiato di sangue ormai secco. Impugnando il non leggero fascicolo, infierisce sulla mia faccia in prestito. La mia testa ballonzola sotto i colpi, emettendo bava e mugolando proteste incoerenti. Lacrime roventi prorompono come geyser dai miei occhi a noleggio.
Nonostante la concitazione, la Madison fasulla seduta sopra di me non suda. Né il suo respiro è affannato per via dello strenuo sforzo. Tento una misera difesa colpendola al tronco con i gomiti e le ginocchia nodosi, ma è come picchiare contro i giganteschi pneumatici di gomma nera di un diciotto ruote del Nord dello Stato.
La rilegatura in pelle del libro mi spiaccica il naso, appiattendolo da un lato, lasciandomi senza fiato. Le orecchie mi rimbombano e mi fischiano. Il campo visivo brulica di stelle luminosissime.
Disperata, cerco di afferrarmi al suo vestito. Mi ci aggrappo saldamente, strappando la camicia dalla sua snella figura, lasciandola spogliata, ma invano. Il pudore non mette un argine alla sua furia. Agli occhi dei burinisti presenti dobbiamo fare l’effetto di un pervertito svestito e arrapato, uno scheletro libidinoso dalla pessima carnagione, che allunga le mani per molestare una ragazza nuda.
Piano piano oppongo sempre meno resistenza. Dopo la prima cinquantina di mazzate, i colpi sulla faccia sono più o meno tutti uguali. Subentra una specie di letargia indotta dal trauma. Neanche il dolore riesce a tener viva la mia attenzione, e i miei pensieri vagano. Elisabeth Kübler-Ross non ne parla, ma si attraversa un’ulteriore fase, quando si muore. Oltre la rabbia, il diniego, la negoziazione, c’è la noia. Sì, la noia. Ci si abbandona.
Si insinua uno strano senso di pace. Mentre quel tomo dalla copertina rigida mi batte fino a farmi perdere il senno, la mia resistenza lascia il posto a una rassegnazione più prostrante del Roipnol. Se devo morire… amen. Se proprio la preferiscono, che i miei genitori adottino pure questa immacolata bambola Maddy. Come da lontano, da lontanissimo, sento odore di capelli che bruciano. Mi accorgo appena dei colpi che collidono con la carne gelificata del mio corpo umido, spruzzato di sangue.
È una dimensione inesplorata, per me. Mi sono arresa. Con parole soffocate dallo sfinimento, prego bisbigliando che il mio cuore si fermi.
Voi pre-morti non sarete contenti di saperlo. Voi detestate chi si tira indietro, ma io sono così. Mi sottraggo alla vita. Non riuscendo a esprimere il massimo del mio potenziale, rinuncio.
Se esiste un grande piano, mi ci abbandono. Mi consegno al mio fato.
Impiegato in quella violenta schermaglia, anche il libro del Beagle comincia a disintegrarsi. Cade a pezzi, le pagine si staccano, frase per frase. Svolazzano sopra di me brandelli di carta. Parole scritte a matita. Tra questi frammenti in caduta, ce n’è uno che sembra in fiamme. Un bordo di questa pagina balugina di arancione. È Festus, il minuscolo Festus, che reca con sé questo brandello di carta. Si libra sbatacchiando all’impazzata le sue ali dorate da colibrì e regge quella pagina in modo che io possa leggere.
Lì, a penna blu con grafia infantile, c’è scritto: “Prefiggiti un fine così arduo da poter accogliere la morte come un agognato sollievo”.
A questo punto, gentili Tweeter, il mio cervello declinante produce un ultimo rigurgito d’ispirazione. Forse tutto questo… questa violenta lotta è la battaglia contro il male a cui la mia famiglia e generazioni di addetti al telemarketing mi hanno preparata.
Questa è la prova che Leonard da tanto tempo preannunciava.
La sopravvivenza del più adatto contro la sopravvivenza del più buono.
Per arginare la gragnuola di colpi alzo le mani artigliate per afferrare il volume. Le mie dita devastate lo afferrano saldamente, le mie braccia tremanti lottano per il possesso del crudele diario di viaggio del signor Darwin. E si badi bene. Si è verificata una magica inversione: ancora una volta, un uomo cadaverico e agonizzante è impegnato in un oscuro tiro alla fune con una piccola monella.
Con un gran grido di disperazione, assumo il controllo del libro. L’arma ora è mia.
Mulinando ancora una volta il memoir saturo di sangue e sperma scritto da C. Darwin, quel teologo frustrato, investo quel che resta delle mie declinanti energie per picchiare un colpo secco sul cucuzzolo della mia avvenente rivale. Questa botta paralizzante la proietta all’indietro, stordendola per un attimo. L’impatto libera un’ultima pioggia di violette e margherite essiccate infilate tra le pagine fradicie del libro.
Allo stesso modo, altri frammenti di carta si staccano dal libro e si appiccicano a colei che mi ha aggredito. Il castello costruito dalla mente del signor Darwin si sbriciola, un mattone alla volta. Un inventario in dissoluzione del mondo naturale. Quella secchiata di memi si rovescia sulla mia nemica: biforcazione… crostaceo… lanuginosa… Diodon. Come una piñata, la ricopre di ritagli. Wollaston… wigwam… fuegini… scabro. La mia nemica ne è soffocata. I suoi occhi perfetti e non miopi sono invasi da un pungente pulviscolo di fatti e particolari. Tutte le lucertole e tutti i cardi del signor Darwin. Gli esemplari di fiori archiviati tanto tempo fa dalla mia mamma e dalla mia nonnina.
La bella non-Madison strilla per la rabbia e l’esasperazione. I suoi occhi sono appiccicati. È cieca.
Un istante dopo, lo stoppino acceso del mio codino sferza il suo rivestimento di carta supercombustibile. E lei prende fuoco, mentre le parole e i fiori traboccanti la attaccano con il loro calore sacrificale. Smette di picchiarmi e comincia, invece, a percuotersi i fianchi, mulinando le braccia per estinguere i lombi in fiamme. Mentre combatte per spegnere quel fuoco, con le unghie strappa da sé brandelli di corpo ammorbidito. Si fa letteralmente a pezzi.
E così facendo urla. Volteggia. I lamenti da banshee le deformano i tratti, e la temperatura della carta che arde le scioglie e le deforma i piedi, le ginocchia, le cosce insopportabilmente magre.
Senza mollare la camicia di chambray infusa di fluidi organici né il libro in via di sfaldamento, mi rannicchio a terra. Farfuglio, ormai, come il mio io neonato nudo e insanguinato nel film della mia nascita, e singhiozzo: «Perdonatemi, sono un’ipocrita codarda…».
E nell’attimo di questa umiliante ammissione, l’impossibile ha luogo.
Capita in qualche rara occasione, gentili Tweeter, di osservare fenomeni soprannaturali per cui non esistono spiegazioni pronte. Due mani si protendono ad accogliere la mia testa sformata. I palmi morbidi e profumati e le dita ultraingioiellate di mia madre sollevano la mia faccia sfigurata finché il mio sguardo non incontra il suo. Culla tra le braccia il mio corpo massacrato, a ricreare una pietà non priva di sentimento, e dice: «Maddy? Stilla di Rugiada, sei proprio tu?». Mio padre si china ad abbracciare entrambe.
Mi vedono. Mi hanno riconosciuto.
I miei genitori e io, la nostra famigliola, in quell’istante, riuniti.
È in questo frangente che l’impossibile e inumana bambola-ragazza leva il suo sguardo fondente al cielo. Con voce liquida e gorgogliante, la non-Madison gracida: «Ascoltate le mie parole…». E mentre si scioglie trasformandosi in una pozzanghera ribollente e fumante, ordina: «Onoratemi, miei adepti, con un vasto, unanime “Ave, Maddy!”».