21 DICEMBRE, 12.56, ORA STANDARD DELLE HAWAII-ALEUTINE
Un ritratto a base di viscidume
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
la scienza concede ben poco spazio ai sentimenti personali. Come soprannaturalista, non sta a me giudicare moralmente o censurare gli eventi quali si manifestano. No, la mia posizione, nella migliore delle ipotesi, è quella della testimone che registra. Potrà emergere un che di fantastico, di triste, di scioccante, persino, ma io devo mantenere la mente lucida e pormi l’obiettivo di documentare questi fenomeni. Per quanto freddo possa sembrare un tale criterio, io lo seguo riconoscente; altrimenti, non potrei reggere quel che sta per accadere.
A bordo del Pangaea Crusader, mio padre compare sulla soglia del salone principale. Indugia lì per un attimo, strizzando gli occhi nell’aria fumosa d’incenso e nella fioca luce. «Camille…» dice, con voce sommessa, carica di timore. «Amore mio…» Esita come se avesse paura di quel che potrebbe scoprire. Poi, il suo sguardo si posa sulla figura allungata sul divano: mia madre sembra morta, e lui si slancia in avanti, coprendo la distanza nel tempo che gli ci vuole per gridare: «Camille!». Come un principe delle favole, posa un ginocchio a terra accanto a mia madre sonnecchiante. Tra le mani, lui regge un cuscino azzurro. È un piccolo fagotto di stoffa.
Quanto a mia madre, il suo respiro irregolare è troppo lieve perché si possa avvertirlo in modo chiaro. E le sue libagioni a base di sciroppo per la tosse le hanno lasciato intorno alla bocca una macchia cremisi simile in tutto e per tutto ai fluidi corporei post mortem, un misto di sangue e acidi gastrici che i cadaveri rigurgitano nelle prime ore dopo la morte. Fidatevi di me, gentili Tweeter, avrò anche tredici anni, sarò irascibile e anche femmina, ma ho aleggiato per diverse ore sul mio corpo esanime in una suite d’albergo, nella speranza che qualcuno arrivasse a resuscitarmi. Dopo aver osservato la miriade di irreparabili mutamenti che investirono il mio cadavere fresco – cianosi, rigor mortis, evacuazione intestinale – so di cosa parlo.
Ai futuri morti suggerisco dal profondo del cuore di non soffermarcisi.
Mio padre preme la sua guancia contro quella di mia madre, mormorando il suo nome come un incantesimo: «Camille, Camille Spencer, Cammy, amore mio» insufflandole questa formula magica nell’orecchio immobile. La scena mi imbarazza, ma è troppo tardi per fuggire. Mr Ketamina ha lasciato la sala pochi istanti fa. Quanto a me, ciò a cui assisto mi pare persino più intimo del sesso. Mio padre ha le lacrime agli occhi e piagnucola straziato. «Camille, tesoro mio, Cammy, come hai potuto mettere fine ai tuoi giorni?» Le singhiozza in seno, dicendo: «Come hai potuto? Babette non significa niente per me, meno di niente». Il suo corpo rabbrividisce quando le si stringe addosso, dicendo: «Non ho mai voluto il divorzio. Ti ho lasciato solo perché è stata la nostra Madison a ordinarlo…».
Al che io resto totalmente Ctrl+Alt+Sbigottita. Altra sofferenza umana legata al mio nome. Come se ogni atto di stupidità umana fosse colpa mia.
In ginocchio, dondolando accanto a mia madre, ha sempre tra le mani il fagottino azzurro che aveva con sé al suo arrivo. Stretto tra il suo petto e quello di mia madre, l’azzurro ha un’aria vagamente familiare. E mentre mio padre continua a piangere e a lamentarsi, il corpo sotto di lui comincia a rianimarsi.
Le palpebre di lei hanno un fremito. Le sue dita carezzano i capelli di mio padre. E lui è a tal punto sconvolto da non rendersi conto della sua resurrezione, finché lei non dice: «Antonio…». Le dita di lei trovano il fagotto azzurro stretto tra loro e domanda: «Che cosa mi hai portato?».
Mio padre – la sua faccia, il suo sguardo – boccheggia. Spalanca la bocca come alla vista del paradiso. La sua bocca si protende in avanti a cercare quella di mia madre, e si baciano. Si baciano nel modo in cui io mi ingozzo di cheesecake al burro d’arachidi. Si succhiano la faccia a vicenda così come mia nonna si fumava la prima sigaretta della mattina.
E poi sarò anche morta, ma non sono così indelicata da star lì a lumare il loro appassionato e romantico corpo a corpo. Osservo invece, con aria distratta, il modo in cui i riflessi della luce oceanica filtrano dagli oblò a increspare il soffitto del salone. Dopo un po’ i miei genitori si divincolano dal loro abbraccio.
Senza fiato, mia madre tasta il fagotto di stoffa azzurra e dice: «Fammi vedere».
«Guarda, mia adorata!» dice mio padre. Si alza in piedi e dispiega l’azzurro, rivelando una forma di indumento. Teso tra le sue mani c’è un ruvido colletto di un azzurro sbiadito. Tessuto di chambray, a occhio. Bottoni bianchi schierati sul davanti. È una camicia, e lui la tiene per i polsini, allargandone le braccia per mostrarla in tutta la sua estensione.
Santo cielo, gentili Tweeter, è la mia peggiore paura. È la mia sudicia camicia azzurra di chambray del Nord dello Stato!
«Guarda!» esclama mio padre, la faccia un incrocio beato tra lacrime e gioia. «La nostra amata Madison ci ha inviato un altro segno! Era in vendita in un negozio di abiti vintage a Elmira, proprio dove Leonard aveva predetto!»
Mia madre, anche lei con lo sguardo appannato, osserva il tessuto e lo esamina. La sua bocca si spalanca incredula.
«È l’immagine di Madison» dice mio padre. «È la sua faccia!»
A deturpare il tessuto azzurro ci sono le chiazze dello schifoso spruzzo del nonno. I disgustosi fluidi espulsi tra le pagine del libro del Beagle tanto tempo fa in quei gabinetti pubblici del tedioso Nord, si sono asciugati e creano un disegno astratto simile alla mappa di una spedizione del signor Darwin in qualche luogo orribile. Hanno formato isole pisciolanti e continenti oscuri di un mondo che nessuno vorrebbe mai esplorare.
«Ecco!» proclama mio padre, sottoponendo una di quelle chiazze all’esame ravvicinato di mia madre. «Qui c’è un occhio!» Sposta sotto gli occhi di mia madre un’altra macchia rancida, aggiungendo: «E qui c’è l’altro occhio!». Indica questa chiazza che si trova a una notevole distanza dalla prima, come se i miei occhi si trovassero in fusi orari diversi. A vederle, in realtà, hanno dimensioni molto differenti: una non più grande dell’impronta di un pollice; l’altra grossa come un pugno. E non sono neppure alla stessa altezza. Sono due grumi asimmetrici separati da una grossa macchia che, secondo la sua interpretazione, sarebbe il mio naso.
Sappiate, gentili Tweeter, che quella non sono io. È succo di salsiccia spruzzato. È la faccia di un mostro deforme.
«Sì, ora lo vedo! È proprio il bel nasino di Maddy!» esclama mia madre. «Ora sì che lo vedo! È davvero il viso di Madison!»
«Guarda la bocca!» rincara mio padre, quasi piangendo. «Ah, la sua delicata boccuccia!» Con le dita segue l’irregolare profilo di una macchia rivoltante, un grottesco imbrattamento di indelebile eiaculato. Un orrore crostificato.
Mia mamma grida: «È una rassomiglianza perfetta!».
Credetemi, gentili Tweeter, non è vero. Quei disgustosi residui sedimentati di spaventosa gelatina maschile non mi rassomigliano per niente!
Mio padre preme il naso contro quell’abbondante secrezione irrancidita e inspira a fondo, esclamando: «Ha persino l’odore di Madison!».
Ed ecco che mia madre e mio padre ora presentano questo disgustoso residuo di viscidume disseccato come una visitazione della loro angelica figlia. Reso con quel mezzo nauseabondo, vedono il mio ritratto, e la passione condivisa di quel momento porta il loro raggiante e beato contegno sull’orlo di una ripresa del loro appassionato avvinghiarsi di labbra. I loro visi si protendono mossi dalla brama.
Il momento, però, viene rovinato da una nuova voce in arrivo nel salone, la voce di una giovane donna che chiama: «Antony!». Chiama: «Antony, dove sei?». I miei restano paralizzati. Svelti, sciolgono il loro abbraccio amoroso, quasi di scatto, all’ingresso di questa nuova arrivata. Ha i capelli rossi e ricci, la faccia di un bianco osseo. È la signorina Torrid von Torridski che c’era nell’attico del Rhinelander, l’amante di mio padre. La mia ex migliore amica. La famigerata Babette: in mano reca un’altra immonda reliquia.
«Guarda qui!» dice mio padre, attirando l’attenzione di mia madre su questo nuovo oggetto. Stende l’orrenda camicia sulle ginocchia di mia madre e corre a prendere questa nuova curiosità dalle mani della sua malefica amante. «Un altro segno di Madison!» annuncia. È un libro. Sì, gentili Tweeter, è quel libro, il libro che speravo non fosse mai ritrovato.
Mentre concede a mio padre di toglierle il libro dalle bianche mani aracnidee, Babette racconta. Dice: «La vergine bambina ci ha mandato i suoi mestrui inespressi! Il sangue di Madison fluisce per sradicare le blasfeme parole dell’eretico Charles Darwin!». Con voce che si arrampica sulle vette dello stridulo, Babette dice: «Un libro che sanguina!». Mentre mio padre leva alto, sopra la testa, quel libro profano e torna a inginocchiarsi per porgerlo a mia madre, Babette dice: «È un miracolo!».
È uno schifo, ecco cos’è. Le pagine sono impiastricciate insieme dal sangue coagulato del würstel, compattate come un mattone dal peso di un materasso e di una coscienza sporca. Non è nulla di santo né di notevole. Per loro, però, per questi squilibrati ex Bambini indaco ed ex alchimisti ed ex sciamani, è una reliquia sacra. Un grosso Kotex rilegato in pelle mandato dal cielo.
Sepolto da qualche parte all’interno del libro, scritto di suo pugno da mia madre, c’è il messaggio: “Prefiggiti un fine così arduo da poter accogliere la morte come un agognato sollievo”.
Potrebbe facilmente concludersi così, questa scena, su questa inquadratura: mio padre che leva alto il libro… mia madre che, sul suo divano, leva le mani ad accoglierlo… l’ancella adulterina che osserva… Ma un’altra persona ancora ha fatto il suo ingresso nel salone.
All’inizio, l’impressione è che sia tornato da me il mio defunto Mr Scodinzolo, perché questa nuova presenza non è più grande di un pesciolino rosso in piena salute. Nuota nell’aria, luccicante e fluttuante, così come i pesci agitano le pinne giallo-rosa per fendere l’acqua. Questo essere fatato luccica e aleggia sospeso. Questa figura d’incanto si fa più vicina.
Nessuno si volta a salutarlo, questo nuovo arrivato, ma il suo faccino è liscio come quello di una pagnottella appena sfornata. I capelli biondi gli posano lucidi come burro sulla fronte. È il rustico moroso del funerale di mio nonno. L’evangelista primitivo, ora spiritello sfolgorante. Il mio angioletto casereccio della notte di Halloween. Nessuno si volta a salutare questo improbabile prodotto d’importazione del rurale Nord dello Stato, ma io sono così scioccata che il suo nome semidimenticato mi erompe spontaneo dalle labbra.