21 DICEMBRE, 8.06, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO

Da sola alla festa del mio ritorno a casa

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

benché io non corrisponda tanto al tipo fragile che sente nostalgia di casa, alla luce delle attuali circostanze sono in cerca di un vecchio luogo familiare. Da che io ricordo i miei genitori hanno sempre avuto un attico all’hotel Rhinelander. Lì, sessantacinque piani sopra Lexington Avenue, di fronte a Bloomingdale’s, il mio primo impulso sarebbe di andarmi a nascondere nella mia vecchia cameretta tra i miei animali di peluche e i romanzi di Jane Austen a guardare alla TV on demand episodi in sequenza di Su e giù per le scale fino al prossimo Halloween. Magari rileggerei La saga dei Forsyte. Non dovrebbe esserci nessuno, perché stando alla pagina 6 del “Post” i miei genitori sarebbero in alto mare a bordo del loro yacht di 100 metri, il Pangaea Crusader. Al momento si trovano nello Stretto di Bering impegnati a contrastare il massacro all’ingrosso operato dalle baleniere ai danni delle orche assassine e di altri stravaganti tonni rossi da sushi a rischio di estinzione. Tutto questo bailamme viene filmato come repertorio per il nuovo film di mia madre, Capodogli nella nebbia, in cui lei recita la parte di una coraggiosa biologa marina à la Dian Fossey che viene arpionata nel sonno da una banda di spietati pescatori giapponesi. Le riprese si concluderanno la prossima settimana, e la pagina 6 dice che l’opera sembra destinata all’Oscar.

Credetemi, per mia madre non si tratta di vera recitazione: le volte in cui è stata arpionata a letto sono incalcolabili.

E, in risposta al commento lascivo postato poco fa da HadesBrainiacLeonard, confermo che la sceneggiatura comprende tre scene – altra dritta fornita dalla pagina 6 – in cui il seno di mia madre, famoso in tutto il mondo, è chiaramente visibile mentre lei nuota nuda e beata, attorniata da un viscido banco di affettuosi capodogli.

La maniera in cui voi, futuri morti, percepite un film – come realtà visuale piatta, con i suoni, ma senza odori né sapori né sensazioni tattili – è la stessa in cui a noi fantasmi appare il mondo. Posso muovermi tra i vivi mentre il loro rumore e il loro movimento mi vorticano intorno, ma i vivi non mi vedono, così come gli attori nel film non vedono il pubblico. A rischio di eccedere con l’autocommiserazione, dirò che, come lardosa e occhialuta studentessa di seconda media in uniforme, sono più che abituata a sentirmi invisibile agli occhi del mondo. Ci vuole più pazienza, invece, ad accettare di non essere più limitata dalle barriere fisiche: posso attraversare porte e uscieri d’albergo con la stessa facilità con cui voi potete passare nel fumo o nella nebbia, provando poco più di un solletico nella mia gola di fantasma o un brivido diffuso.

Dal lato svantaggi, non solo gli sconosciuti mi trapassano con lo sguardo, ma mi attraversano fisicamente. Non inciampano né possono afferrarmi: vengo penetrata a tutti gli effetti. Mi mescolo a loro. Vengo violata dalla vagante fisiologia di questi pezzi di carne animata dediti allo shopping, al mangiare e alla fornicazione. Mi fa sentire sporca e confusa, in preda alle vertigini, come la stupida persona pre-morta che mi ha appena incrociato.

Confermo la mia determinazione a usare espressioni come “in preda alle vertigini”, perciò dovrete rassegnarvi. Sarò anche una pollastra morta, ma non ho intenzione di fingermi scema solo per non farvi sentire Ctrl+Alt+Insicuri per il vostro vocabolario puerile. E giuro che non userò il gergo di Internet. Jane Austen prese la meditata decisione di non vivacizzare i suoi caustici racconti con gli emoticon, perciò non lo farò neanch’io.

Ripeto: diventare fantasmi è una cosa a cui bisogna fare un po’ l’abitudine. Gli ascensori degli hotel, ad esempio. Quegli stupidi dei viventi hanno il vizio di accalcarsi negli ascensori. Al Rhinelander, salendo al piano dell’attico, mi ritrovo per metà all’interno di una volgare esule fiscale imbottita di collagene e per l’altra metà nel suo tremebondo chihuahua ipertrofico. La sensazione fisica è simile a quella che si proverebbe nuotando o tuffandosi in acqua Evian contaminata da silicone. Riesco addirittura a sentire il salato del suo Botox. Gli agri betabloccanti sciolti nel suo sangue mi fanno girare la testa, e l’immersione nel tiepido bagno di sostanze chimiche che costituiscono un chihuahua… santo cielo! Dopo un’ascesa di sessantacinque piani a mollo nella biologia di un cane messicano, non vedo l’ora di farmi una doccia e di lavarmi i capelli fantasma.

Trapasso la porta del corridoio con la scritta ATTICO – niente vicini, niente animali, vietato fumare – e sbuco nel foyer. Per la prima volta dal mio arrivo a New York faccio esperienza del silenzio più puro, assoluto. Niente rumore di clacson. Né fastidiosi pre-morti che blaterano ad alta voce nei loro telefonini in qualche incomprensibile lingua delle Nazioni Unite. Il salone principale dell’attico è pieno di mobilia, ma sedie, tavoli e librerie sono tutti coperti da teli di mussola bianca. Persino i grandi lampadari sospesi sono avvolti di stamigna bianca che, raccolta sotto di essi, penzola come l’impalpabile strascico di un ectoplasma. L’impressione generale è quella di una festa silenziosa con tanti fantasmi, ma di quelli da fumetto, vestiti di lenzuola, sul punto di ululare: “Uuuh!”. Questa sala piena di spettri ha l’aria straniante di una festa di benvenuto a tema messa in scena per farsi beffe di me. Un congresso di piccoli e grandi spettri. A dirla tutta, mi sento non poco Ctrl+Alt+Offesa da questa accoglienza priva di tatto.

Per antica abitudine, in osservanza delle regole domestiche ufficiali imposte da mia madre a Tokyo come a Managua, mi tolgo le scarpe e le lascio fuori dalla porta del foyer.

A parte la summenzionata soirée di finti fantasmi, le alte e ampie vetrate dell’attico si affacciano sull’architettura di Manhattan. Le fitte schiere di edifici, quei tetri grattacieli, evocano più che altro un campo pieno di lapidi grigie. Queste torri ammassate paiono colonne, guglie e obelischi spezzati, una raccolta di monumenti con cui gli umani segnano le proprie sepolture. Fuori dalle finestre si staglia questo cimitero in scala gigante. La Grande Mela. Rigoglioso ossario dei morti futuri.

Vi prego di non fraintendermi, gentili Tweeter: non voglio fare la guastafeste. La defunta cagacazzo. Temo, però, di essere affetta da una forma di depressione post mortem. Quando la novità di essere neo-morti comincia a sfumare, subentra a poco a poco un senso di malessere.

Per rispondere al tenerissimo post di MohawkArcher666, sì, un fantasma può sentirsi molto solo. Anzi, se volete saperlo, mi sento un filo triste ed emarginata, dimenticata dal mondo intero. Il cuore mi si gonfierebbe come un palloncino pieno di calde lacrime, si gonfierebbe ed esploderebbe se vedessi i miei, se li vedessi e loro non mi vedessero. Isolata, sola con i miei pensieri e sentimenti, come fantasma privo di mezzi per comunicare, sono diventata l’outsider suprema.

Mi sento dimenticata non solo da Dio, ma da tutti.

Percorro un corridoio dell’attico, con i miei piedi da fantasma in calzini, passo davanti alla stanza per lo yoga di mia madre e alla sala dove mio padre fuma il sigaro e scopro che la porta della mia camera da letto è chiusa a chiave. Naturale che sia chiusa, così com’è ovvio che il condizionatore d’aria sia ancora regolato su “cella frigorifera”, che le tende siano chiuse per impedire che i miei vestiti e i miei giocattoli sbiadiscano al sole. Per conservare la mia stanza a mo’ di tempio dedicato alla cara figlia defunta. In un attimo di idiozia, provo a indovinare la password usata da mia madre per il sistema di sicurezza. La prima ipotesi è: CamilleSpencerlapiùgrandeattriceviventesottoi40. La mia seconda ipotesi sulla chiave segreta: Nonhouccisoiolateneragattinadimiafiglia! Altra possibilità: AMadisonavreivolutounamontagnadibeneinpiùseleiavesseavutoqualchechilodimeno. Tutte molto probabili, ma poi mi sono ricordata che potevo semplicemente passare attraverso la porta.

L’attraversamento di una porta o di una parete è di poco meno spiacevole della condivisione di molecole con un chihuahua. Colgo lo svolazzare della segatura, la sensazione untuosa di troppe mani di vernice acrilica azzurra.

La mia stanza offre un quadro simile a quello del salone: un letto, una poltroncina da camera, un comò, ogni cosa mascherata da un telo bianco antipolvere… ma stesa sul letto, nascosta dalla bianca velatura di mussola, c’è la sagoma supina di una persona. In fondo al letto, la sagoma si rialza a suggerire la presenza di due piedi appuntiti; poi, gambe sottili. Si allarga a suggerire fianchi, girovita, petto. Quindi, la mussola sprofonda dove potrebbe esserci un collo e risale a coprire una faccia, attendandosi sulla punta del naso. In questo momento da Riccioli d’Oro, c’è qualcuno che dorme nel mio letto. Sul comodino drappeggiato di mussola poggia una parrucca bionda che forma una specie di nido. E all’interno del nido, a mo’ di uova, una dentiera, un apparecchio acustico che sembra un gamberone di plastica rosa, un pacchetto di Gauloises e un accendino d’oro. Accanto a questi oggetti, in bella mostra, una copertina incorniciata della rivista “Cat Fancy”, con doppia foto di me e mia madre che abbracciamo un gattino dagli occhi vispi e la pelliccia a strie arancioni. In contrasto con i tratti di mia madre, gonfi di Botox, il mio sorriso è un momento cristallizzato di autentico e beato divertimento. Il titolo recita: Diva del cinema regala un lieto fine al gattino abbandonato.

A PattersonNumber54: sì, anche un fantasma può provare tristezza e terrore.

La morte non è la fine dei pericoli. Ci sono altre morti dopo la morte. Che vi piaccia o no, la morte non è la fine di tutto.

A nessuno piace entrare in una stanza deserta e ben silenziosa di un hotel e trovarci una salma, soprattutto sul proprio letto d’infanzia. È il cadavere di un’imprudente sconosciuta abbandonato qui, di certo una qualche cameriera honduregna che avrà scelto di commettere suicidio sul mio bel letto circondata dai miei orsetti Steiff d’importazione e dalle giraffe Gund in edizione limitata, probabilmente con la pancia piena dello Xanax di mia madre, con i fluidi corporei della sua orribile decomposizione honduregna che impregnano il mio materasso Hästens cucito a mano, rovinando le mie lenzuola Porthault da milleseicento fili.

Quando la rabbia che monta diventa più forte della paura, mi faccio avanti. Afferro il bordo superiore del telo di mussola e comincio a scostarlo, per svelare il cadavere: una vecchia mummia. Una megera. Le gengive raggrinzite e sformate, senza denti a sostenerle. Affondati nel cuscino, radi capelli grigi a coronare la testa. Tolgo il telo bianco con un unico strattone, gettandolo a terra. La vecchia è distesa con le gambe unite e le mani incrociate sul petto, le dita ossute tutte scintillanti di vistosi anelli da cocktail. Il vestito lo riconosco, un fosco velluto acquamarina pesantemente lavorato a paillettes, strass e perline. Uno spacco della gonna scopre una gamba scheletrica dalla coscia devastata fino al piede pieno di vene blu racchiuso in un sandalo Prada. Le scarpe sono così nuove che l’etichetta del prezzo, sotto la suola, è ancora leggibile. La parrucca bionda e il vestito mi risultano vagamente familiari. Li conosco. Li riconosco per averli visti a un funerale celebrato centomila anni fa. Miracolo dei miracoli, sento che la vecchia odora di sigaretta. No, giuro, i fantasmi non sentono gli odori né i sapori del mondo dei vivi, ma io riesco a sentire il puzzo di sigaretta che emana da lei. E senza pensarci, senza intenzione cosciente, dico: «Nonna Minnie?».

Le ciglia della vecchia hanno un fremito. Da una palpebra, l’estremità esterna delle ciglia finte, simili a ragnatele, si sta staccando, dandole un’aria un po’ demente. La vecchia sbatte le palpebre e si solleva sui gomiti sbirciando con occhi lattiginosi nella mia direzione. Un sorriso divide la rugosa larghezza della sua faccia, e le sue rosee gengive biascicano: «Semino di zucca?».

A CanuckAIDSEmily: è una botta. Anche se si è morti fa male lo stesso quando il cuore ti si gonfia, sempre di più, come un aneurisma di lacrime sul punto di esplodere.

Lo sguardo di mia nonna passa da me alla gonna del suo vestito, da me alle paillettes e al velluto che si scosta a scoprire le gambe invecchiate, dopo di che mi dice: «Per amor di… Pio … ma lo vedi con che razza di costume da baldracca mi ha seppellito tua madre?». Allunga una tremante mano ingioiellata verso il comodino e pesca il pacchetto di Gauloises. Dicendo: «Dài, passa da accendere alla nonna Minnie» si porta la sigaretta alla bocca, e le sue labbra molli e grinzose collassano a mo’ di bacio intorno al filtro.

Sventura
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