21 DICEMBRE, 10.49, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO
Negazione della realtà
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
il mio io undicenne, pre-morto, di tanto tempo fa trasportò il cadavere felino infagottato da Anversa ad Aspen ad Ann Arbor. Come il cadavere avvolto nella coperta di una sorta di nonna Joad, altro riferimento libresco, feci passare Tigrotta di contrabbando per varie frontiere e postazioni di controllo. Me la portavo appiccicata alla pelle, legata e nascosta sotto i miei vestiti, come mia madre e mio padre avevano fatto spesso per contrabbandare i loro narcotici. Inutile dire che il fetore acido intanto non si diradava, così come, del resto, il fedele entourage di parassiti alati, in maggioranza mosche, ma anche i loro vermi e le loro larve, che comparivano sulla scena come per effetto di una qualche magia schifosa.
Che sia dipeso dal pressappochismo allarmante dei controlli di sicurezza o da cospicue tangenti versate dai miei genitori a chi di dovere, il mio triste fardello non fu mai scoperto. Ogni tanto miagolavo sommessa, sconfitta, ma continuavo a tenere il mio segreto sempre avvolto nel suo originario tovagliolo da colazione. Non crediate, però, gentili Tweeter, che fossi uscita di senno: sapevo che la mia micia era morta. A contatto con la sua pelliccia sempre più sgonfia, era impossibile ignorare il costante sgocciolio di fluidi freddi. Sotto il mio maglione, raggrumato contro la mia pancia come un feto, come un aborto, sentivo il disordinato ammasso delle ossa che si disgregavano.
Nelle ore immediatamente successive al suo trapasso, il pancino peloso aveva cominciato a gonfiarsi a pallone. E io sarò anche stata temporaneamente obnubilata dal lutto, ma sapevo benissimo che la mia gattina si stava riempiendo di gas, del prodotto escretivo di batteri intestinali rinnegati. E, certo, sarò anche stata segretamente terrorizzata al pensiero di essere stata io a farle mangiare qualcosa che aveva causato la sua morte, però conoscevo la parola “escretivo” e sapevo che il mio caro amore era sul punto di esplodere e che tale esplosione avrebbe ridotto il tesorino del mio cuore a una carcassa infestata dai parassiti. Il cotone del tovagliolo era appiccicoso al tatto. Per le mie mani carezzevoli Tigrotta non era morta, ma io facevo attenzione a non coccolarla con troppo impeto.
A un certo punto eravamo a bordo di una limousine lunghissima, e i miei, seduti uno accanto all’altro, le spalle rivolte all’autista, si ritraevano il più possibile dalle mie non felici condizioni. Dal tono emotivo sommesso dei miei genitori, dalle loro voci meste, capii che dovevano aver subodorato la verità. Ciononostante, in quel tragitto tra l’aeroporto e la nostra casa di Jakarta o Johannesburg o Jackson Hole, mia madre mi domandò: «Come sta la piccola paziente?». I suoi occhi erano iniettati di sangue. La sua voce si sforzava di simulare un Ctrl+Alt+Ritmo. «Sta un po’ meglio?»
Nel lussuoso interno della limousine, le immancabili mosche e l’odore rancido erano difficili da ignorare, e un suo braccio scolpito dallo yoga fluttuò in avanti in cerca dei comandi dell’aria condizionata. Le dita dalle unghie perfettamente curate selezionarono un getto d’aria artica alla massima potenza, dopo di che pescò dalla sua borsa una boccetta di Xanax e si calò un paio di pastiglie. Quindi, passò la boccetta a mio padre, nascosto dietro il suo giornale.
Accoccolato sulle mie ginocchia, ancora fasciato dal tovagliolo della colazione, tenevo il cuore mio, e il cuore mio era rigido e freddo. Il cuore mio era una bomba a orologeria che colava un marciume pestifero. In risposta alle domande di mia madre, potevo solo miagolare senza entusiasmo. Dietro il buio dei finestrini oscurati, i dintorni di Lisbona o La Jolla o Lexington sfilavano accanto a noi e svanivano alle nostre spalle. Mentre viaggiavamo sentivo i succhi in putrefazione della mia anima gemella migrare verso il basso a sporcare la mia gonna-pantalone. Appiattito, il tovagliolo che avevo in grembo mostrava isole frastagliate e tratti di costa in filigrana. Schizzato e impregnato di residui di decomposizione, il tovagliolo disegnava itinerari confusi in cui tutto ciò che si ama va in pezzi.
Ecco, l’opposto di una mappa del tesoro.
E mio padre? Se ne accorgeva a malapena. In quello sfarzoso contesto, mio padre era preso dal suo giornale, le pagine color salmone del “Financial Times”. Di lui riuscivo a vedere appena le gambe, dal ginocchio in giù, gli stropicciati pantaloni con piega e risvolto. Quelli, e le nocche con cui teneva il giornale spalancato davanti a sé. Ecco, la fede nuziale d’oro. Mentre mia madre era alle prese con la sua empatia sedata, e io sprofondavo sempre di più nella disperazione, mio padre sfogliava il suo notiziario stampato. Girava le pagine con fruscii manierati. Se ci fate caso, gentili Tweeter, un uomo d’affari con un giornale è peggio di un’eroina di Jane Austen che volteggi per la vita in un vestito di gala di taffetà.
«Maddy…» disse mia madre. Con parole stridule di falso buonumore, mi domandò: «Che ne diresti di procurare un nuovo fratellino a Tigrotta?».
Cioè: era incinta? Oppure: era pazza?
Dall’interno della sua fortezza cartacea mio padre disse: «Dolcezza, stiamo per adottare». Da dietro il paravento di guerre e quotazioni di borsa e risultati sportivi: «Il bambino viene da qualche posto orribile».
Insomma: non avevo prestato loro abbastanza attenzione. Insomma: volevano sentirsi più apprezzati.
«Per i documenti ci sono voluti mesi» disse mia madre. «Non è semplice come adottare un…» e fece un cenno con la testa in direzione del tovagliolo sudicio che tenevo avvolto in grembo.
Per tutta risposta emisi un miao quasi impercettibile e soffocato dalle lacrime.
Mio padre scosse i suoi fogli con rabbia. Mia madre agitò la boccetta di Xanax e ne prese un’altra pastiglia. Le mie mani si dimenticarono di fare attenzione, e le mie unghie grattarono la morbida pancia della mia gattina. E in quel momento, gentili Tweeter, sui sedili spaziosi, all’interno di quell’ermetica limousine, l’addome teso della povera Tigrotta esplose.