21 DICEMBRE, 9.02, ORA STANDARD DELLA COSTA DELL’ATLANTICO

Tracciando la rotta verso la gloria

Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno

Gentili Tweeter,

contrariamente a quanto potrebbe far presumere il suo allegro titolo, The Voyage of the Beagle non è una narrazione picaresca che ha per protagonista un cagnolino coraggioso che si imbarca in una folle avventura sulle onde del mare. Se fossi costretta a scrivere un bigino del libro, il sunto suonerebbe come segue: “Stupido pesce selvatico… stupido uccello selvatico… grossa pietra… Serpente! Serpente! Serpente!… animale massacrato… un’altra pietra… tartaruga”. Immaginate una sequenza del genere, ma lunga abbastanza da riempire quasi cinquecento pagine, e praticamente il Beagle ve lo sarete scritto da soli. In quel mezzo migliaio di pagine di cani non ce ne sono, e nulla resta sotto i riflettori per più dei dieci secondi che costituiscono la massima durata dell’attenzione del signor Darwin. Più che l’evoluzione, Darwin sembra aver scoperto la sindrome da deficit di attenzione, e la sua mente è di continuo distolta da un ulteriore fungo… da un nuovo, ignoto artropode… da un ciottolo di colore brillante. Andando avanti nella lettura, si spera che a un certo punto l’occhio del narratore venga attratto da una bella señorita. Il lettore si aspetta che sbocci una storia d’amore nella pampa, seguita da una lite tra gli amanti e l’entrata in scena di un terzo incomodo, con baci, scazzottate, sciabole sguainate… ma non è un libro di questo genere. No, la lettura del Voyage of the Beagle è molto più simile alla visione delle istantanee di una vacanza lunga cinque anni, scattate da una persona affetta da sindrome di Asperger, costretta a narrare ininterrottamente.

Il titolo del tomo è uno spudorato depistaggio. Il Beagle di cui si parla è, in realtà, la barca su cui il signor Darwin e compagnia viaggiano, così battezzata, evidentemente, da un vecchio proprietario cinofilo. Cionondimeno, fu proprio tra quelle vecchie e fragili pagine che trovai il mio destino.

È sufficiente un unico significativo successo per fondare la reputazione di uno scriba in erba. Al prediletto di mia nonna, Jack London, era bastato sporcarsi le mani per sei mesi nelle cittadine della corsa all’oro del Klondike. Nel caso del signor Darwin l’episodio cruciale delle isole Galápagos era durato al massimo quattro mesi. Entrambi gli autori erano partiti all’avventura sull’onda della rassegnazione: London non era riuscito a trovarsi un impiego remunerativo a San Francisco; Darwin aveva abbandonato gli studi al college, senza riuscire a ottenere la laurea in teologia. Entrambi erano tornati alla loro vita ordinaria in età ancora giovanile, ma fino alla morte avevano tratto ispirazione da quelle loro brevi avventure.

Non c’era motivo di sprecare l’estate del mio undicesimo anno. Dovevo solo trovare una qualche specie di disgustosa creatura non ancora classificata – mosca, scarafaggio, ragno – per guadagnarmi il biglietto di ritorno alla civiltà. Avrei ricevuto il plauso del mondo scientifico. Mi sarei reinventata naturalista di fama mondiale che non avrebbe mai più avuto bisogno di baciare e abbracciare i suoi malvagi genitori senza cuore.

Il mattino in cui avevo deciso di dare inizio al mio lavoro sul campo, ero seduta al tavolo della cucina della nonna. Il primo lucore dell’alba scintillava bruno-arancione attraverso il barattolo di acqua stagnante e fradice bustine di tè che lei teneva sul davanzale della finestra sopra il lavandino. Io finsi di portarmi qualche cucchiaiata di nauseabondo porridge alla bocca, senza sentire altro sapore che quello dell’ormone bovino della crescita presente nel latte. Nonostante ciò sorrisi trionfante, con il mio libro del Beagle aperto accanto alla colazione e domandai: «Nonnina, carissima…».

La nonna Minnie distolse l’attenzione dalle sue attività ai fornelli – dove con un cucchiaio di legno mescolava una sbobba ribollente – e mi squadrò con freddezza. Socchiuse gli occhi sospettosa e disse: «Che cosa c’è, maggiolino mio?».

Con voce la più laconica possibile, il tono lieve e noncurante, le domandai se non vi fosse una qualche isola tropicale raggiungibile a piedi.

La mano rimescolante tolse il cucchiaio da quel calderone da streghe e lo avvicinò alla bocca sformata della nonna, dove una lingua saettante e furtiva assaporò l’intruglio. Schioccando le labbra con molto gusto, la nonna domandò: «Hai detto “isola”, piccina?».

Le labbra atteggiate a un sorriso fisso, annuii. Isola.

La sua sigaretta d’ordinanza ardeva tra le dita della mano libera. Quella mattina, come tutte le altre, il sole che sorgeva trovò i suoi capelli grigi avvolti intorno a bigodini fissati strettissimi sul suo cuoio capelluto rosaceo. Il nonno Ben era rimasto a letto. Dal mondo esterno giungevano nella fattoria il tramestio e lo starnazzare del pollame che annunciavano la riuscita ovulazione.

La nonna Minnie continuò a meditare sulla ribollente preparazione delle sue schifose cibarie. Riuscivo quasi a sentire scatti e ronzii di ingranaggi al lavoro nella sua testa. Il tic toc dei meccanismi che si incastravano mentre lei frugava nella sua memoria in cerca di dati su eventuali isole locali. Con un colpo di tosse, uno sbuffo, disse: «Di isole vere non ce ne sono» per poi aggiungere, «a meno che non si consideri l’isola spartitraffico al centro dell’autostrada».

Passò a descrivere una non lontana area di sosta con gabinetto per viaggiatori di passaggio, stretta a sandwich tra le numerose corsie intasate di traffico della carreggiata sud di un’importante autostrada e le altrettanto congestionate corsie dirette a Nord. Lo avevo visto, quel posto: una tozza costruzione di blocchi di cemento acquattata al centro di un prato riarso giallo limone, punteggiato di sterco rinsecchito di cani domestici. Avevo scorto quel luogo di sfuggita, da dietro i finestrini oscurati della Town Car che mi portava verso l’esilio alla fattoria della nonna, ma quel tugurio di cemento sembrava brillare per l’acre fetore delle escrezioni umane. Avevo visto qualche auto e qualche camion negli spazi di parcheggio lungo il bordo del misero prato, abbandonati dalle varie persone che erano corse a svuotare l’intestino e la vescica.

Quel luogo poteva essere detto “isola” perché era isolato, separato dalla circostante campagna del Nord dello Stato da fiumi taglienti di autoveicoli ad alta velocità. Pur non essendo un’isola vera e propria, sarebbe forse servita ugualmente al mio scopo.

Indugiai davanti alla mia colazione. Nel Voyage of the Beagle, ero arrivata al punto in cui Darwin beve l’amara urina di una tartaruga. Evidentemente, non ero la prima lettrice in difficoltà di fronte al protagonista che si scolava un boccale ghiacciato di urina di tartaruga, perché qualcuno aveva sottolineato a matita l’intero passo. Sul margine esterno della pagina un altro lettore aveva usato una penna a sfera blu per scrivere: “Pervertito”. In alcuni casi i commenti erano criptici come i bigliettini dei biscotti della fortuna. Ermetici e in codice. Per esempio, incolonnate lungo il margine esterno di una pagina e scritte a matita c’erano le parole: “Se mai avessi una bambina, Patterson dice che dovrei chiamarla Camille”. Altrove, appuntate in inchiostro blu, si leggevano le enigmatiche parole: “Atlantide non è un mito; è una profezia”.

Questi due compagni di viaggio – il commentatore a matita e il vandalo dall’inchiostro blu – erano diventati miei compagni di lettura, sempre presenti a condividere il libro del Beagle con me. I loro perfidi, acutissimi commenti alleviavano la mia reazione a molte descrizioni altrimenti noiose di lucertole e cardi.

In quella che era chiaramente una grafia infantile, un’altra nota a matita recitava: “Patterson dice che devo cominciare a raccogliere fiori per il funerale di mio marito, un giorno o l’altro”.

Uno schizzo a penna blu diceva: “Leonard vuole che raccolga dei fiori per mio padre”.

Come a voler illustrare questi appunti, tra le pagine c’erano dei ranuncoli. Ranuncoli gialli. Viole purpuree. Traccia di antico tempo libero e di lunghe passeggiate vacanziere all’aria aperta. Nastri bruni di annose erbe. Testimonianza di giorni di sole. Frammenti di materia organica che documentavano un’estate ormai svanita. E non solo i colori dell’estate… c’erano anche gli odori! Rametti secchi di rosmarino, timo e lavanda. Petali di rosa dal profumo ancora penetrante! Questi strati di carta e di parole li avevano preservati, come un’armatura. Che fossero primule o campanule violacee, io lasciavo tutto intatto.

Dalla sua postazione ai fornelli, mia nonna disse qualcosa, con una nota acuta in fondo, a mo’ di domanda.

«Come dici?» risposi.

Togliendosi la sigaretta dalle labbra ed esalando un pennacchio di fumo, ripeté: «Allora, ti piace Il richiamo della foresta?».

La guardai con gli occhi spalancati, senza capire.

«Il romanzo» mi imbeccò, annuendo in direzione del mio libro aperto sul tavolo della cucina.

Chiaramente, non aveva visto il libro abbastanza da vicino per leggerne il titolo.

Domandò: «Sei già arrivata al punto in cui il cane viene rapito e portato in Alaska?».

Annuii. I miei occhi tornarono alla lettura. Concordai dicendo che quel cane aveva avuto una vita davvero avventurosa.

«E hai letto la parte…» insistette lei, «… in cui il collie viene prelevato dal disco volante dei marziani?»

Di nuovo annuii, dicendo che la scena in questione era proprio emozionante.

«E ti sei spaventata» buttò lì la nonna, «quando gli alieni spaziali hanno ingravidato la femmina di setter irlandese con embrioni di scimpanzé radioattivi della Nebulosa Granchio?»

Assentii come un automa. Dissi che non vedevo l’ora di gustarmi la versione cinematografica. Alzai gli occhi solo per accertarmi della sincerità della sua espressione, ma la nonna era lì immobile, austera figura di contadina con il solito liso grembiule di calicò su un indumento informe di cotone a quadretti, ormai privato di qualsiasi motivo ornamentale e colore da una vita di lavaggi a mano. Mi ripromisi di tenere presente quel libro della Foresta: doveva essere una cannonata.

Mentre lei prelevava un secondo campione dalla pentola ribollente, portandosi il cucchiaio alle labbra semichiuse e soffiandoci sopra per raffreddarne il contenuto fumante, il telefono in salotto cominciò a squillare. Come aveva fatto innumerevoli altre volte, mia nonna posò gli utensili sgocciolanti e lasciò ciabattando la cucina per imboccare il breve corridoio. Le molle del divano stridettero quando si sedette. Il trillo si interruppe, e lei tossicchiò: «Pron-to». La sua voce lontana si ridusse a un sussurro da cospiratori e disse: «Sì, ha preso il libro dell’evoluzione, tutto a posto. Quella Maddy è un fenomeno». Tra un colpo di tosse e l’altro, aggiunse: «Sì, le ho detto dell’isola…». Soffocando le parole, quasi senza fiato, disse: «Non stare in ansia, Leonard. La ragazzina è più che preparata per la battaglia contro il maligno!».

E a quel punto, gentili Tweeter, voltai la pagina del mio libro del Beagle e scoprii altre antiche parole. Scritte a mano a margine, con penna a sfera blu, dicevano: “Leonard ha profetizzato che metterò al mondo una grande guerriera, mia figlia. Dice che dovrò chiamarla Madison”.

Sventura
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