21 DICEMBRE, 10.22, ORA STANDARD DELLA COSTA DEL PACIFICO
Restituita alla vita!
Postato da Madisonspencer@oltretomba.inferno
Gentili Tweeter,
a questo punto ho ben fatto l’abitudine agli uomini che cadono morti ai miei piedi. Non mi emoziono a vedere uomini adulti che sbiancano in viso e mi cascano davanti, ma neanche resto paralizzata.
Per comprendere il seguito degli eventi al LAX, sarà meglio che voi futuri morti facciate qualche inedita riflessione sulla natura del vostro essere fisico. Finora avete perlopiù considerato il vostro corpo terreno come un utensile in forma umana per fare sesso. O per ingozzarvi di dolcetti di Halloween. Sì, il vostro io corporeo è l’applicazione che vi consente di interfacciarvi con volanti di automobili, tiri di buoi, telai da ricamo, delfini ammaestrati, lacca per capelli, mazze da cricket, termometri rettali, terapeuti che praticano il massaggio con pietre calde, cracker salati, Chanel Nº 5, edera velenosa, lenti a contatto, prostitute, orologi da polso, correnti di marea, tenie, sedie elettriche, peperoncini, oncologi, montagne russe, lettini abbronzanti, metamfetamina e vezzosi copricapo. Senza un io corporeo tutte le voci del precedente elenco diventerebbero problematiche. Inoltre, il vostro corpo è la tela che vi è necessaria per esprimervi nel mondo. E in ultima analisi, è l’unica via che avete a disposizione per procurarvi un tatuaggio davvero tosto.
Oltre a essere strumento e mezzo di espressione, il corpo di carne funge, in terza istanza, da consolante e calda coperta di Linus. Immaginate una confortevole armatura oppure di essere l’orsacchiotto di voi stessi. Un corpo è la borsa Marc Jacobs che contiene tutte le cianfrusaglie di cui siete costituiti. E in questo momento un corpo non occupato giace esanime sul pavimento dell’aeroporto proprio davanti a me. Be’, diciamo che come corpo non sarebbe stata la mia prima scelta – un grasso chauffeur lumpenproletario, un uomo di mezza età il cui ultimo pasto era stato una porzione da asporto di manzo al curry – ma i mendicanti non possono fare gli schizzinosi. Morto sul pavimento del LAX, indossa una frusta livrea di serge, e sembra essere stato ucciso dalla stretta di mano di Satana. È rotolato in posizione supina nel fermo immagine di una vittima d’infarto. L’intera faccia, pochi istanti prima, era del colore di una lingua. Ora il suo sorriso, le mani, tutta la pelle sono di un pallido color cromo. Le dita disperate hanno squarciato il cappotto e la camicia, e le unghie in preda al panico hanno lacerato il petto a formare una vistosa pizza margherita di pelle stracciata, grumi rossastri e peli neri aggrovigliati. Spruzzata di rosso emoglobina, la targhetta con il suo nome pende mollemente nei pressi dell’ascella. Dice: HARVEY.
Per quanto lugubre possa sembrare, non è peggio di come io dovevo apparire da morta sul pavimento di una suite d’hotel a Beverly Hills circondata dai resti di pasti serviti in camera. E non illudetevi, gentili Tweeter: voi non avrete un aspetto tanto migliore.
Guardo lo spirito levarsi dal suo corpo, ma non come i vostri occhi vedono il fumo o la foschia. Più alla maniera in cui il naso vede un odore. È il modo in cui la vostra testa sente il mal di testa da dentro. Così come il sangue gli è defluito dal petto, formando una pozza sul pavimento, così la sua anima cola verso l’alto in un’ondata di blu densa come un liquido, raccogliendosi nell’aria contro il soffitto. Dapprima questo blu forma un grumo, un malloppo, una nuvola, ma poi assume i contorni di un embrione da manuale e poi di un feto. E resta lì sospeso. Il blu è identico al blu che la vostra lingua vede quando mangiate la panna montata. Meno di un istante dopo una figura blu a grandezza naturale di quell’uomo guarda dall’alto il proprio io defunto.
Guarda i propri resti mortali, con la bocca aperta, muovendola come chi abbia a che fare con un boccone troppo grosso da mandare giù. La calca aeroportuale di sconosciuti che si era radunata, da parte sua, studia quegli ultimi istanti di vita come se poi fosse previsto un quiz. Solo io vedo il fantasma esfiltrare e gonfiarsi a pallone nell’aria. Osservo, e Satana osserva. Una delle mani di Satana, inguainata in un guanto di pelle da autista aderentissimo, si protende verso lo spirito perplesso. Gli astanti, i loro occhi, seguono la mano inguantata che si muove nell’aria, ma non vedono perché. Tutti, però, sentiamo Satana che dice: «Harvey, vero? Harvey Parker Peavey?». Dice: «Se vuoi seguirmi da questa parte, prego…».
Gli occhi del fantasma trovano la mano protesa. Le sue orecchie trovano la domanda. «Tu sei la mia guida per il paradiso, giusto?»
Satana sghignazza. Gli occhi eclissati dietro la visiera del berretto, dice: «Diglielo, Madison».
Gli occhi del neofantasma si volgono a cercarmi, e mi domanda: «Madison Spencer? Quella Madison Spencer? Madison Desert Flower Rosa Parks Coyote Trickster Spencer?». Sorride, come se avesse incontrato Dio.
«Raccontagli del paradiso, Madison» insiste Satana, provocatorio. Tutti i presenti, il nostro pubblico di ficcanaso vivi e vegeti, seguono la voce di Satana nella mia direzione, ma non possono vedermi. Anche Crescent, il mio accompagnatore, guarda borbottando: «Cara bambina morta…?». Un’équipe di paramedici irrompe in scena facendosi largo tra la folla.
Oh, gentili Tweeter, la strada della perdizione è lastricata di bugie dalle gambe corte, giusto per metterci una pezza. Quando Satana serra la presa intorno al polso del fantasma blu di quell’uomo, io dico: «Sì». Mentre il Diavolo comincia a trascinar via la sua vittima sorridente, io la rassicuro: «Ci vorrà forse un tantino di più di quel che immagini, ma te lo prometto: andrai in paradiso, Harvey». Satana si porta via quel fluttuante bulbo blu come fosse un pallone aerostatico nella parata di Macy’s nel giorno del Ringraziamento.
Povero Harvey, persino mentre viene trascinato lontano da Satana, trova il modo di dire: «Grazie, cara angioletta!». La sua testa blu ballonzola felice sul collo mentre canticchia il mio nome: Madison, Madison Spencer, il messia ritornato dall’oltretomba per condurre l’umanità a una gioiosa salvezza.
Mio nonno aveva ragione. Sono proprio perfida e spregevole. Sono una codarda.
Quando i paramedici si acquattano accanto al corpo abbandonato, io approfitto dell’occasione. Mentre tolgono la protezione agli elettrodi adesivi e glieli applicano al petto incasinato dalle unghiate, io mi faccio avanti e mi inginocchio accanto alla sua testa. Avvicino le mie mani a coppa intorno ai suoi occhi vitrei. In posa da santone guaritore manipola-serpenti e tracanna-stricnina, tocco con cautela la disgustosa pelle della fronte di questo sconosciuto defunto. Nello stesso istante, uno dei paramedici grida: «Pronti!».
Voialtri futuri morti, non cercate di ripetere l’esperimento a casa. Se vi è familiare la consuetudine di dire: “Salute!” quando qualcuno starnutisce, potete capire quel che sta avvenendo. Lo shock elettrico di un defibrillatore non rimette in moto un cuore che ha smesso di battere, bensì apre un varco da cui lo spirito che ancora indugia può rientrare. Immaginate di togliere il tappo dalla vasca da bagno dell’hotel Danieli, pensate a come l’acqua di quel bagno veneziano si infila vorticando nello scarico. La carica istantanea di un defibrillatore apre questo passaggio che consente allo spirito del morto di ritornare nel corpo.
Nel caso in cui un’anima si sia congedata in modo definitivo – come ha chiaramente fatto quella di Harvey –, qualunque spirito entri in contatto con il corpo può insediarvisi. Perciò, quando apro gli occhi, la mia prospettiva è quella di chi giaccia scomposto sul pavimento immondo del LAX, circondato dallo sguardo bovino di passanti curiosi, avvolto dall’incessante ronzio delle rotelle dei trolley che fluiscono senza requie accanto alla mia faccia madida di sudore gelato. Mi trovo all’interno del corpo malconcio di uno sconosciuto e nella mia bocca estranea sento ancora il sapore di curry, ma sono viva.
Santo cielo, gentili Tweeter, mi ero dimenticata di quanto sia orribile essere vivi. Anche quando la persona viva e vegeta è in buona salute, c’è il tormento della pelle secca, delle scarpe che non calzano bene, della gola rauca. Da bambina al culmine della pubertà, non mi ero mai preoccupata di quel che implica avere un corpo da adulti. Da quel momento, perciò, mi sento abrasa dall’ispida peluria sotto le ascelle, sono asfissiata dalla mia stessa acre muscosità endocrina, così simile al puzzo maschile di un cesso pubblico su nel Nord dello Stato. Come femminuccia, mi ero sempre figurata la gioia di avere il pisellino: come avere un migliore amico e confidente, solo che ce l’hai attaccato. In realtà ho tanta coscienza di questa salsiccia appena acquisita quanta ne ho della mia appendice. Ruoto il mio collo esageratamente tozzo e guardo un po’ dappertutto. Una voce femminile mi domanda: «Signor Peavey, mi sente?». È un’infermiera china su di me, quella che mi aveva fatto l’elettroshock, che mi punta una torcia tascabile negli occhi. Dice: «Signor Peavey, posso chiamarla Harvey? Non si muova».
Il raggio di luce della torcia mi provoca una sofferenza atroce. Ho le budella rivoltate e doloranti. Il mio nuovo petto pulsa nel punto in cui la pelle lacerata riprende a buttare sangue fresco, e le costole mi bruciano dove gli elettrodi sono ancora attaccati alla pelle. La mia sola intenzione è di scostare l’infermiera che mi assiste, ma il gesto largo del mio braccio la ribalta a terra. Immaginate di essere acqua di Venezia risucchiata da uno scarico e di assumere la forma di una qualche strana e nuova tubatura. Non ho coscienza della mia forza. Né mi rendo pienamente conto delle mie dimensioni. Sono all’interno di un colossale robot carnoso e cerco di far funzionare le mie braccia e le mie gambe. Queste braccia e queste gambe sono enormi. Assumere la posizione eretta comporta una complessa operazione ingegneristica: esagero nel controbilanciarmi e barcollo in avanti. Mulinando le braccia per aiutarmi, abbatto paramedici e guardie di sicurezza come birilli. Eccomi in piedi, caracollante, con le gambe rigide e instabili. Questo è il mio incubo: sono una timida scolaretta che si ritrova seminuda in uno degli snodi aeroportuali più frequentati al mondo. Rendendomi conto di avere il seno esposto – e di averlo irsuto e imbottito di muscoli – mi metto a strillare e stringo i gomiti alle costole per nascondere i miei mortificati capezzoloni bruni. Con le manone che si agitano frenetiche intorno alla mia faccia irsuta, strillo e comincio a correre. «Oddio, mi spiace» cinguetto, facendomi maldestramente largo tra le masse inorridite presenti all’aeroporto. «Chiedo scusa» dico, stridulo, mentre la mia vistosa perdita di sangue imbratta gli attoniti spettatori che cercano di indietreggiare.
Nonostante la mia stazza da armadio a tre ante galoppo via come una monellaccia, proteggendomi il seno, le spalle rialzate fino alle orecchie villose. Muovo le gambe scompostamente, e a ogni falcata travolgo sedie a rotelle, passeggini, carrelli di bagagli. Nel mio tentativo di filarmela alla chetichella, ondeggio pericolosamente e mi apro la strada a mo’ di bulldozer fra gli sbalorditi fannulloni da aeroporto, mentre alcuni agenti mi corrono dietro, con i walkie-talkie crepitanti di scariche e chiacchiere informali.
Io arranco all’inseguimento di Satana e del suo ultimo ostaggio e, urtando viaggiatori ignari, trillo: «Cavoli, cribbio, accidenti…». Cerco di usare un tono allegro, scherzoso, ma mi esce una strana voce strombazzante: «Scusate… colpa mia… pardon… oops…».
Nei pantaloni ora sento qualcosa che sobbalza e tremola. Il mio pisellino, invece di essere mio fedele compare, comincia a sembrarmi qualcosa di schifoso che mi esce dal pavimento pelvico. Come una pendula escrescenza. Come un’ernia strozzata lunga svariati centimetri. Santo cielo! È come fare la cacca dal davanti! Come fanno gli uomini a tollerare una sensazione così orribile? La mia vista comincia a congelarsi verso l’interno, a partire dai margini, e io immagino che ciò sia dovuto alla consistente perdita di sangue. Il cuore accelera. Me lo sento grosso come una Porsche 950 su di giri. Non molto lontano, vedo Satana che trascina il suo prigioniero attraverso un’uscita d’emergenza.
Mi tornano in mente gli anni di corsi di prevenzione antistupro e grido: «Stupro!». Sbattendo i miei piedoni misura 60, strillo: «Aiuto! Stupro!».
I miei inseguitori, sono una dozzina di robuste mani di poliziotti che mi abbrancano da dietro.
Inciampo, la mia pressione arteriosa precipita, e io comincio ad accasciarmi sul pavimento.
Satana assiste alla mia umiliazione, ridendo in silenzio come un personaggio di Ayn Rand. Il fantasma blu da lui tenuto al guinzaglio guarda indietro, confuso.
E io grido: «Qualcuno lo fermi!». Grido: «È il Diavolo!». Le mani mi afferrano per le braccia e me le allontanano dal petto, denudando brutalmente i miei ispidi e muscolosi seni di preadolescente, e io grido: «Madison Spencer non vi ha detto la verità! Vi ha mentito!». In preda alla vertigine, con il sangue appena sufficiente ad arrossire pudicamente per le mie tette nude, per i miei capezzoli nudi che si appuntiscono nella gelida aria condizionata del LAX, ora strillo: «Vi prego, smettetela tutti di dire le parolacce!».
L’agonia, gentili Tweeter, è straziante. Anche la risata di Satana odora di metano. Soprattutto la sua risata. Alla fine, pietosamente, il mio enorme cuore di gigante cede ancora una volta, e tutto sprofonda nelle tenebre.